Venerdì 7 Marzo, una breve e delicata mail, ricevuta da tutti i colleghi dell'Area Torino e poi rimbalzata qua e là, ha fatto venire a molti di noi un vero e proprio travaso di bile.
Era il messaggio di Franca, Claudio, Anna, Myriam, Esther e Luca, colleghe e colleghi della filiale 36 di Torino cedute/i dall'indomani a Carige, che salutavano quanti avevano avuto modo in questi anni di conoscerli ed apprezzarli. 

Per quanto ci riguarda, ovviamente, contraccambiamo il saluto pur nella consapevolezza che si tratta di un arrivederci per modo di dire, visto che già nei giorni immediatamente seguenti siamo stati al fianco di quanti di loro hanno scioperato contro l'inaudita arroganza di Carige che rifiuta di siglare persino uno di quei deludenti accordi di cessione che hanno sin qui caratterizzato la vendita degli sportelli di Intesa Sanpaolo. E così potrà essere in futuro (il Sallca-Cub è presente ed attivo in Carige) in occasione delle nostre tante battaglie per la tutela dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, che escono ulteriormente umiliati da questa vicenda (e, a questo proposito, tanto per cominciare, non possiamo che rimandare al nostro ultimo volantino su Carige in cui chiediamo l'estensione dell'attuale fase vertenziale a tutta la banca). 

Ma, prima di ogni altra cosa, quello che abbiamo provato leggendo quella mail è stata rabbia.
Rabbia perché ci ha ricordato un'ennesima grave sconfitta sindacale; rabbia perché, nonostante l'impegno generoso, anche noi siamo riusciti a fare poco o nulla per quei lavoratori (anche se ci proveremo ancora sul piano legale) e ci pesa, oggi, la nostra (per quanto piccola) parte di responsabilità.
Pur provandoci in tutti i modi, infatti, non siamo stati capaci né di costruire le condizioni per una mobilitazione generale a loro sostegno, né a cambiare l'agenda dei sindacati "trattanti", costringendoli a porre la questione dei ceduti come priorità assoluta delle trattative di Gruppo.
Al contrario, le 9 sigle hanno supinamente accettato (o addirittura condiviso) l'impostazione aziendale che, dapprima, ha accantonato il problema e poi ha favorito la frammentazione delle trattative con gli acquirenti.
Senza una piattaforma condivisa ed in assenza di un qualsiasi serio coinvolgimento democratico, non solo della categoria ma degli stessi lavoratori interessati, l'esito finale non poteva che essere estremamente deludente. Gli accordi di cessione, al di là di una difesa più o meno parziale delle pregresse condizioni normative e salariali, hanno completamente mancato gli obiettivi fondamentali (peraltro mai entrati nella trattativa): il diritto d'opzione, l'indennizzo economico per procurato disagio, il coinvolgimento dell'azienda cedente nelle tutele occupazionali (elemento chiave, che nei precedenti accordi di questo tipo era sempre stato presente, seppur in misura più o meno soddisfacente). 

Quella mail allora ci ricorda che la transazione si è conclusa con successo e le ragioni del mercato e del profitto hanno vinto ancora una volta.
Tra gli asset venduti, nomi e cognomi; colleghi con la loro storia, le loro famiglie, i loro ritmi di vita, le loro esigenze ed aspirazioni professionali, le loro domande di trasferimento, il loro frantumato bagaglio di relazioni aziendali e di conquiste sindacali.  
Può capitare a chiunque di noi. Al di là dei fiumi di retorica aziendalista che quotidianamente vengono versati, questa vicenda conferma ancora una volta qual è il ruolo che ci assegnano padroni e manager. Pedine, numeri.

Uno squallore senza fine, contro il quale non ci stancheremo mai di combattere.

C.U.B.-S.A.L.L.C.A.

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