Affinché tutti si possano rendere conto di quale spessore siano le argomentazioni  a sostegno e le confutazioni delle tesi avversarie e quindi convincersi delle enormi possibilità che abbiamo di ottenere una sentenza a noi favorevole, ribaltando così quelle di primo grado, pubblichiamo, avendo ricevuta autorizzazione in merito, il testo del ricorso depositato il 5 maggio 2009 in Corte di Appello dallo studio Cinelli avverso la sentenza del giudice Di Sario:

CORTE DI APPELLO DI ROMA

Sezione lavoro

Ricorso

per

"………     omissis      ………………………………………………"

tutti rappresentati e difesi, tanto congiuntamente che disgiuntamente, dagli avv.ti prof. Maurizio Cinelli (c.f. CNL MRZ 42M26 A092Y) e Carlo Alberto Nicolini (c.f. NCL CLL 65L03 G478L), ed elettivamente domiciliati nel loro Studio in Roma, via Bocca di Leone n. 78, in virtù di mandato speciale, rila­sciato, ai sensi dell'art. 83 c.p.c. (quale novellato dall'art. 1, legge n. 141 del 1997) su fogli separati, ma congiunti materialmente al pre­sente atto (telefax per le comunicazioni e notificazioni dalla Cancelle­ria 06-697634240),

– appellanti –

contro

– UNICREDIT BANCA DI ROMA s.p.a., già BANCA DI ROMA s.p.a. (c.f. 06978161005), elettivamente domiciliata in Roma, via Po n. 25/b, presso lo Studio legale dei difensori, avv.ti prof. Roberto Pessi e Francesco Giammaria;

– FONDO BDR – Fondo pensioni per il personale dipendente della Banca di Roma, elettivamente domiciliati in Roma, via G. B. Morgagni n. 22, presso lo Studio legale dei difensori, avv.ti Michele Sandulli e Domenico Bonaccorsi di Patti;

nonché

quale successore, nelle more del presente giudizio, di BANCA DI ROMA s.p.a.,

– UNICREDIT BANCA DI ROMA s.p.a. (c.f. 09976231002), con sede in Roma, viale U. Tupini n. 180, in persona del legale rappre­sentante pro tempore,

– appellati –

per la riforma

della sentenza n. 16333/08 resa – tra gli attuali appellanti e l'allora BANCA DI ROMA s.p.a. – dal Tribunale di Roma, sezione lavoro, dott.ssa Vittoria Di Sario, depositata il 3 novembre 2008, notificata in unica copia a cura dei procuratori costituiti di BANCA DI ROMA s.p.a., il 6 aprile 2009.

Premessa

1.- I soggetti indicati in epigrafe, attuali appellanti, assunti a suo tempo dalla Cassa di risparmio di Roma, sono poi transitati, all'esito di una complessa vicenda societaria (ma senza che vi sia mai stata soluzione di continuità del loro rapporto di lavoro), alle dipendenze di Banca di Roma s.p.a., ora Unicredit Banca di Roma s.p.a.

   Quanto al regime previdenziale, dall'inizio del loro rapporto di lavoro i medesimi sono iscritti all'assicurazione generale obbligatoria gestita dall'INPS, nonché, al fine del conseguimento trattamento previdenziale integrativo, al Fondo di quiescenza e previdenza per il personale di detta Cassa – Fondo CRR -, operativo anche dopo le varie operazioni so­cietarie già descritte in atti, e successive.

2.- La controversia oggi sottoposta al vaglio di codesta Corte nasce dal fatto che i predetti – nonostante il lungo e perdurante periodo di iscri­zione al Fondo CRR – si sono visti disconoscere qualsiasi ragione creditoria nei confronti di tale Fondo, così come qualsiasi possibilità di riscattare o, comunque, di trasferire ad altro fondo il valore delle relative posizioni previden­ziali individuali.

   In particolare, i suddetti si sono visti disconoscere il diritto di trasfe­rire detto valore all'altro Fondo successivamente costituito per i nuovi assunti della Banca: il Fondo BDR, Fondo pensioni per i dipendenti della Banca di Roma s.p.a., dotati di autonoma soggettività.

   A fondamento di tale radicale diniego vengono addotte dalle controparti l'insussistenza, in merito, di posizioni debitorie del Fondo CRR, ma anche e comunque il fatto che sia le caratteristiche del Fondo CRR, sia le clausole che regolamentano l'accesso al Fondo BDR sono da considerare ostative di detto trasferimento. Dette clausole, dunque, nei fatti, vengono giudicate prevalenti rispetto al principio di libera trasferibilità – c.d. portabilità – fissato dall'attuale disciplina della specifica materia, quale dettata dal d.lgs. n. 124 del 1993 e ribadita dal d.lgs. n. 252 del 2005, ed ostative, altresì, delle anticipazioni o della liquidazione in conto capitale, previste da quella stessa normativa.

   I medesimi, d'altra parte, hanno riscontrato che, da un certo mo­mento in poi (e, cioè, dal 1995), l'Istituto bancario datore di lavoro del tutto arbitrariamente si è astenuto dal provvedere all'alimentazione finanziaria del Fondo CRR.

   Tale Fondo, dunque, pur restando operativo e pur non essendo intervenuto alcun accordo sindacale al proposito, da quell'anno è stato privato delle contribuzioni già inderogabilmente previste dal Regola­mento, così come è stato privato dei frutti del patrimonio ad esso rela­tivo.

   Il patrimonio del Fondo, d'altra parte, è andato disperso, avendolo la Banca arbitrariamente alienato (a quanto risulta) e, comunque, con­fuso con il proprio.

*

    A fronte di tale situazione, i dipendenti indicati nell'epigrafe del presente atto (che fanno parte di un foltissimo gruppo che vanta le medesime ragioni di contestazione del comportamento osservato in proposito dall'Istituto bancario datore di lavoro) con separati ricorsi hanno convenuto davanti al Tribunale del lavoro, sia la Banca datrice di lavoro che il Fondo pensione per il personale della Banca di Roma, ciascuno chiedendo al giudice:

1) di accertare e dichiarare che la posizione individuale previdenziale maturata presso il Fondo di quiescenza e previdenza per il personale della Cassa di Risparmio di Roma è pari alla somma corrispondente all'ammontare dei contributi versati anno per anno dal datore di lavoro in relazione alle retribuzioni percepite dall'assunzione e sino al 31 dicembre 2006, oltre i contributi versati successivamente, in applicazione dei criteri di cui all'art. 7 del Regolamento del Fondo, da incrementare secondo il rendimento del fondo, oltre accessori maturati sui singoli accantonamenti annuali;

2) di accertare e dichiarare che la posizione previdenziale individuale maturata e maturanda nel periodo successivo all'1 gennaio 2007 e sino alla data dell'effettivo trasferimento va determinata utilizzando quale parametro di calcolo il 15% delle retribuzioni pensionabili medio tempore percepite;

3) di accertare e dichiarare il diritto alla portabilità della posizione previdenziale individuale maturata presso il Fondo di quiescenza e previdenza per il personale della Cassa di Risparmio di Roma come sopra determinata;

4) di accertare e dichiarare nei confronti del Fondo BDR la nullità e/o illegittimità e/o inefficacia dell'art. 36, comma 2, dello Statuto del Fondo stesso, ovvero delle disposizioni statutarie e/o regolamentari che limitano le adesioni al Fondo stesso;

5) di accertare e dichiarare il diritto e conseguentemente condannare la Banca convenuta al trasferimento dell'intera propria posizione individuale previdenziale presso il Fondo BDR, ovvero presso altro fondo previdenziale, cui accedere ai sensi dell'art. 18, d.lgs. n. 124 del 1993 e dell'art. 14, commi 2 e 6, d.lgs. n. 252 del 2005;

6) in via subordinata di accertare e dichiarare il diritto, con riferimento alla propria posizione individuale previdenziale, a richiedere le anticipazioni ex art. 11, d.lgs. n. 252 del 2004 ed ad esercitare le opzioni di cui al combinato disposto degli artt. 11, 20 e 23, d.lgs. n. 252 del 2005 ed a richiedere la liquidazione dell'intera prestazione pensionistica in capitale, corrispondente all'intero montante previdenziale maturato all'atto del pensionamento obbligatorio; vinte le spese.

   Detta iniziativa, tuttavia, non ha avuto l'esito atteso, avendo il Tri­bunale pedissequamente accolto le tesi della Banca di Roma s.p.a. e del Fondo BDR

   Altrettanto è avvenuto, a quanto risulta, in paralleli giudizi promossi per gruppi dagli altri numerosi dipendenti interessati.

   Donde, il presente ricorso d'appello.

   Prima, però, di procedere all'illustrazione dei motivi del gravame, appaiono opportune alcune precisazioni preliminari sullo svolgimento dei fatti e su alcune questioni relative a quanto forma oggetto della materia del contendere.

   Per prima cosa, appare opportuna una ve­loce ricognizione della disciplina regolamentare relativa al Fondo in questione, atteso che già della corretta interpretazione di questa si discute tra le parti.

*

Il quadro di riferimento della materia del contendere: I) sulla disciplina regolamentare

3.- Il Fondo CRR è un "fondo speciale" per la previdenza e l'assistenza, che la allora Cassa di risparmio di Roma ha costituito a favore dei propri dipendenti, come da Regolamento del 1953 (cfr. documento in atti, e sub n. 2 degli allegati al presente ricorso), Fondo alimentato da contribuzione calcolata sulle retribuzioni degli iscritti, ripartita (come meglio si illustra appresso) tra Cassa, per una quota maggiore, e i diretti interessati, per una quota minore.

   Detto Fondo, dunque, è venuto a far parte del variegato panorama di fondi integrativi o complementari della previdenza di base, promossi dall'iniziativa privata fin da epoca risalente, progressivamente arric­chitosi nel tempo, ed, infine, a partire dagli anni '90 – quando la pre­videnza complementare è stata assunta come "secondo pilastro" dell'attuale sistema previdenziale nazionale -, regolato nei vari detta­gli con legge (legge n. 421 del 1992 e relativo decreto delegato n. 124 del 1993).

   Giusta tale nuova configurazione, la succitata disciplina di legge (così come successivamente specificata ed integrata) ha provveduto anche in merito ai regimi preesistenti, regolandone il progressivo ade­guamento al regime generale, e, dunque, alla disciplina dei fondi di nuova costituzione.

   Per la rilevanza che è da ritenere che la circostanza rivesta ai fini della presente controversia, vanno sottolineati l'attuale collocazione sistematica della previdenza complementare – e, dunque, anche dei "fondi preesistenti" – e il relativo ruolo. Con l'avallo della giurispru­denza costituzionale, detta forma di previdenza, infatti, è istituzional­mente divenuta parte integrante dell'ordinamento previdenziale: con l'effetto che, dalla data della sua regolamentazione per legge, essa istituzionalmente concorre, con la previdenza pubblica (o "di base"), all'assolvimento dei compiti di cui all'art. 38 Cost.: c.d. "struttura bi­naria" dell'attuale sistema di previdenza sociale.

4.- Quanto a detto Fondo CRR – costituito con determinazione unila­terale della Cassa di risparmio, trasfusa nel Regolamento entrato in vigore il 4 aprile 1953, e solo più tardi "contrattualizzato" e trasfuso nel Regolamento il 30 luglio 1971 (in atti) -, merita sottolineare che, fin dall'origine, è stato stabilito, per quanto specifi­camente rileva in questa sede, che (il corsivo virgolettato, di cui ap­presso, è testuale):

– il medesimo deve essere "amministrato dal Consiglio di amministra­zione della Cassa di risparmio, ma ha gestione e contabilità separate da quella della Cassa di risparmio e viene iscritto a bilancio" (art. 1, comma 2, Reg. cit.);

– lo scopo è quello di "garantire ai dipendenti iscritti ed ai loro eredi od aventi causa … un trattamento pensionario che integri il tratta­mento assicurativo dell'Istituto di previdenza sociale (INPS) … od eventualmente lo sostituisca" (art. 2, comma 1, stesso Reg.), nonché, alle condizioni date (art. 11), "una pensione per il caso di invalidità permanente …, una pensione per anzianità …, una pensione per i su­perstiti …, una pensione, quando, in conformità alle disposizioni del contratto collettivo, l'iscritto sia esonerato dal servizio in dipendenza di riduzioni di posti, soppressione o trasformazione di servizi od uf­fici", una indennità "in caso di risoluzione del rapporto di impiego presso la Cassa di risparmio, prima che sia maturato per l'iscritto il diritto alla pensione …" (art. 14);

– è prevista, inoltre (ma si tratta – appare giusto ricordarlo subito – di regolamentazione presto superata dalla legge n. 297 del 1982 sul trat­tamento di fine rapporto), l'erogazione dell'indennità di anzianità, (già) fungibile con la pensione, a seconda dell'opzione dell'interessato per un'integrale liquidazione pensionaria, oppure per un trattamento misto, a sua insindacabile scelta (artt. 10, commi 2 e 3, e 14, commi 2 e 3);

– "in caso di risoluzione del rapporto di impiego, prima che sia matu­rato per l'iscritto il diritto a pensione, il Fondo restituisce all'iscritto, con gli interessi …, l'ammontare dei contributi da lui versati" (art. 19);

– oltre che da una dotazione iniziale parte in titoli di Stato, parte in li­bretti della Cassa (art. 5), "le disponibilità con le quali il Fondo assi­cura le prestazioni sono costituite 1) dai contributi degli iscritti, 2) dal reddito derivante dagli investimenti e da altri eventuali proventi, 3) dai versamenti che la Cassa di risparmio effettua annualmente in via ordinaria o straordinaria" (art. 8);

– l'apporto contributivo è ripartito tra la Cassa e i dipendenti in per­centuali predeterminate: rispettivamente, 16% e 4% (art. 9);

– quanto ai beni cui destinare le disponibilità finanziarie, sono am­messi soltanto (art. 6) investimenti in "titoli di Stato o garantiti dallo Stato …, obbligazioni fondiarie …, depositi fruttiferi presso la Cassa di risparmio …, immobili rustici ed urbani";

– infine, è previsto che, "per quanto non espressamente disciplinato …, valgono le norme di legge" (art. 26, comma 4).

   In sostanza, si può affermare che, fin dall'origine, detto Fondo ha presentato alcune ben precise e significative caratteristiche:

un valore non limitato alla garanzia del trattamento di quiescenza, ma esteso anche alla tutela dell'iscritto in presenza di altre situazioni ge­neratrici di bisogno (invalidità, morte, soppressione del posto di la­voro);

un'alimentazione finanziaria realizzata con il concorso sia dell'Istituto bancario, sia dei dipendenti;

l'impiego delle relative risorse finanziarie (o "disponibilità") in inve­stimenti immobiliari o mobiliari, cioè nella costituzione di un "patri­monio".

5.- Detto Regolamento è stato pressoché integralmente recepito dall'Accordo aziendale del 30 luglio 1971 (già ricordato sopra), il quale, di fatto, ha "contrattualizzato" la materia.

   E tale contrattualizzazione ha comportato, ovviamente, che da quel momento ogni successiva modifica dell'assetto regolamentare non avrebbe potuto che essere la risultante di un accordo della Banca con le organizzazioni sindacali dei dipendenti

   Le integrazioni e le modifiche successivamente apportate, comun­que, non hanno inciso, nella specie, sulla sostanza della suindicata di­sciplina, neppure per effetto di quanto in prosieguo disposto dall'Accordo aziendale del 28 ottobre 1976.

   Come può leggersi nella "premessa" di detto più recente e tuttora operativo Accordo collettivo (cfr. documento in atti), infatti, "si è pro­ceduto alla definizione della seguente Appendice che costituisce parte integrante del Regolamento di quiescenza e previdenza per il perso­nale della Cassa di risparmio di Roma di cui all'Accordo aziendale del 30 luglio 1971 e successive modificazioni" (così, testualmente, salva l'aggiunta delle sottolineature).

   Ed, invero, in detto testo regolamentare del 1976 – salve le varia­zioni in tema di contribuzione, sulle quali ci si sofferma appresso, sub punto 6 – si ribadiscono discipline sostanzialmente corrispondenti a quelle già presenti nel testo regolamentare del 1953, e, cioè, che:

– il Fondo è amministrato dal C.d.A. dell'allora Cassa di risparmio, ma con gestione e contabilità separate da quelle della Cassa, ed iscrizione a bilancio (art. 1 testo vigente, che, salva l'aggiuntiva previsione di una costituenda "Commissione consultiva", riproduce l'art. 1 del testo del 1953);

– scopo del Fondo è garantire la corresponsione dei trattamenti a fa­vore degli iscritti e dei familiari beneficiari già indicati nel precedente testo regolamentare, con le modalità previste dal Regolamento stesso (artt. 2, 3 e 11, che corrispondono agli artt. 2 e 11 del testo del 1953);

– le disponibilità sono costituite dalla "dotazione iniziale … alla data del 1° gennaio 1970, … costituita dagli accantonamenti effettuati alla data per l'applicazione del precedente Regolamento per le pensioni del personale della Cassa di risparmio di Roma entrata in vigore il 4 aprile 1953" (art. 4), dai "contributi … dal reddito derivante dagli in­vestimenti … da altri eventuali proventi ordinari, nonché da versa­menti straordinari per garantire le obbligazioni del Fondo" (art. 5);

i fondi di previdenza devono essere "effettivamente accantonati" (art. 6, lett. d);

– le categorie di beni nei quali è lecito investire le disponibilità del Fondo (non oltre "il 50% dei fondi di previdenza effettivamente ac­cantonati": cfr. ancora art. 6, lettera d) restano quelle stesse già indi­viduate precedentemente (art. 6, eguale, sul punto, all'art. 6 del testo del 1953, così come aggiornato nel 1971);

– in caso di fusione, incorporazione o messa in liquidazione della Cassa di risparmio, il C.d.A. determinerà l'uso che dovrà farsi della parte di disponibilità del Fondo, che possa eventualmente residuare dopo soddisfatti tutti gli obblighi e carichi assunti (art. 8, eguale all'art. 3 del testo del 1953).

   Già alla luce dei dati testé richiamati, risulta evidente, dunque, che, nel testo del 1976, la disposizione dettata dall'art. 25, comma 2 – nella quale si dichiara che detto Regolamento "abroga e sostituisce la re­golamentazione del trattamento di quiescenza del personale della Cassa di risparmio di Roma già in atto" -, non può essere intesa in senso strettamente letterale. La stessa, piuttosto, deve essere letta in coordinamento, sia con la suddetta, sostanziale conformità con la pre­cedente regolamentazione, sia e comunque con la suttrascritta pre­messa.

   In detta premessa, infatti, inequivocabilmente si enuncia una ben precisa volontà: e, cioè, che l'attuale testo (significativamente qualifi­cato come "Appendice" di quello preesistente) "costituisce parte inte­grante del Regolamento del trattamento di quiescenza e previdenza per il personale della Cassa di risparmio di Roma di cui all'Accordo aziendale 30 luglio 1971 e successive modificazioni".

6.- Di detta regolamentazione, comunque, nella presente controversia hanno motivo di rilevare sopratutto le disposizioni relative alla contri­buzione al Fondo, considerate anche nella loro successione temporale.

   A) Ripartizione dell'obbligo contributivo.

   Va sottolineato come prima cosa, che, sia nel testo rego­lamentare del 1953 (non innovato sul punto dall'Accordo aziendale del 1971), sia nella versione del 1976, si prevede la ripartizione dell'obbligo contributivo tra datore di lavoro e lavoratori, nei termini che appare utile porre qui di seguito a raffronto, trascrivendone, per maggior chiarezza, i relativi testi (salva l'aggiunta della sottolinea­tura).

Testo del 1953: "Le disponibilità con le quali il Fondo assicura le prestazioni sono costituite: 1) dai contributi degli iscritti … 3) dai contributi che la Cassa di risparmio effettuerà annualmente in via or­dinaria o straordinaria" (art. 8); "Il Consiglio di amministrazione sta­bilirà ogni anno l'ammontare dei contributi a carico della Cassa … Il contributo a carico del lavoratore è fissato …" (art. 9).

Testo del 1976: "La Cassa di risparmio verserà al Fondo un contri­buto ordinario pari … Il contributo a carico del lavoratore – che sarà calcolato e versato a parte – è costituito unicamente da quello dovuto all'assicurazione obbligatoria di invalidità, vecchiaia e superstiti (INPS) nelle misure e con le modalità tempo per tempo stabilite dalla legge" (art. 9).

   Quanto al significato di quest'ultima disposizione, non può esservi dubbio alcuno (nonostante la relativa, poco felice formulazione) sul fatto che la clausola non possa fare riferimento ad uno "storno" al Fondo della quota di contributo di previdenza obbligatoria, che la legge pone a carico del lavoratore (seppure con obbligo di versamento in capo al datore, quale adiectus solutionis causa): il precetto di tassa­tiva indisponibilità, di cui all'art. 2115 c.c., esclude, come è evidente, che il contributo di legge possa essere sottratto alla sua destinazione.

   Deve, dunque, riconoscersi che il riferimento, che detta clausola re­golamentare fa al contributo che la legge pone a carico del lavoratore per l'assicurazione obbligatoria INPS, ha unicamente il senso di indi­care il parametro per la determinazione di quanto di competenza del lavoratore stesso per l'alimentazione finanziaria del Fondo CRR. Ap­porto che, come è nella natura delle cose, non può che realizzarsi, nei fatti, attraverso una corrispondente riduzione (trattenuta) della retribu­zione o un contenimento alla fonte del livello del trattamento retribu­tivo tempo per tempo accordato.

   D'altra parte, a maggior chiarimento, va considerato che anche per il contributo della Cassa – già definito, al pari di quello del lavoratore, "comprensivo" di quello INPS[1] – ben presto (1971) si è provveduto a correggere la dizione, ridefinendolo (questa volta correttamente) "ag­giuntivo" del medesimo: cfr. delibera del 9 novembre 1971, confer­mata dalla delibera n. 5 del 23 giugno 1988 del Comitato esecutivo della Cassa di risparmio, in atti[2]. Ed era quanto ci si doveva attendere, non potendo esservi "confusione" alcuna tra quanto da versare al Fondo e quanto inderogabilmente dovuto all'INPS, ai sensi di legge.

   E, d'altra parte – lo si ricorda qui per mero scrupolo -, se non fosse così, si sarebbe verificata una situazione del tutto assurda: cioè, sa­rebbe stato implicito l'annullamento di fatto del contributo stesso al Fondo, giacché (anche a non voler considerare gli oneri per l'indennità di anzianità, comunque a carico del Fondo, fino a che non è intervenuta la legge n. 297 del 1982) l'aliquota della contribuzione INPS è notoriamente superiore a quella suindicata[3].

   B) Aliquote contributive.

   Quanto alla percentuale di detta contribuzione e alla sua riparti­zione, dai testi regolamentari qui posti a confronto risulta quanto se­gue.

Testo del 1953: i contributi a carico della Cassa (art. 9, commi 2 e 3) "non potranno essere inferiori al 16% della retribuzione e debbono ritenersi comprensivi del contributo da versare all'INPS. Il contributo a carico del lavoratore è fissato nella misura del 4% comprensivo di quello dovuto dal lavoratore stesso per l'assicurazione obbligatoria di invalidità e vecchiaia" (del significato da riconoscere a detto richiamo al contributo INPS, si è già detto sopra).

Testo del 1976: "La Cassa di risparmio verserà al Fondo un contri­buto ordinario pari al 21% delle retribuzioni", mentre, per quanto ri­guarda il lavoratore, si prevede un contributo "calcolato e versato a parte" (art. 9), determinato secondo la formula parametrale, trascritta sopra.

   E' da notare che la percentuale datoriale – per una evidente presa d'atto da parte della stessa Banca della florida situazione del Fondo – è stata ridotta dal 21% al 15% dalla già ricordata delibera n. 5 del 23 giugno 1988, con la quale il Consiglio di amministrazione della Cassa di risparmio ha accolto la conforme e documentata proposta, resa in pari data dal Comitato esecutivo[4].

   C) Accantonamenti.

   E' previsto che i fondi raccolti tramite la contribuzione siano "effettivamente accantonati" (art. 6, Reg. 1976).

   Ne viene dato atto, per la regolamenta­zione del 1953, dall'art. 4, comma 1, Reg. 1976 ("La dotazione ini­ziale del Fondo, alla data del 1° gennaio 1970, è costituita dagli ac­cantonamenti effettuati alla stessa data …", o, per la regolamentazione successiva, dall'art. 6, lett. b, del Reg. citato ("Gli investimenti in beni immobili non debbono superare il 50% dei fondi di previdenza effetti­vamente accantonati ed esposti in situazione …").

   Considerato che, giusto quanto sin qui evidenziato, si danno una dotazione iniziale del Fondo e (come risulta dai bilanci) investimenti in beni mobili e immobili, si può affermare che detti cespiti, in concorso con i suddetti accantonamenti di contribuzione, hanno dato luogo alla formazione di riserve finanziarie: situazione che è il nocciolo dei sistemi a capitalizzazione (cfr. Cass. n. 5094/2008).

   E, difatti, come risulta già dalla Tabella A, allegata al Regolamento 1971 (cfr. documento in atti, riprodotta sub n. 3 degli allegati al presente ricorso), è stata prevista la "conversione di capitale in rendite", come risulta dalla intestazione di detta tabella.

   D) Contabilizzazione.

   Infine, quanto alla contabilizzazione e all'utilizzo della contribu­zione, sia nel testo regolamentare del 1953 (art. 23), sia in quello del 1976 (art. 24), si stabilisce – in palese riferimento al precetto che im­pone "gestione e contabilità separate" (art. 1, tanto dell'un testo che dell'altro) – quanto segue:

   "Alla chiusura di ogni anno verrà compilato uno stato dimostrante la situazione del Fondo, da allegare al bilancio dell'Istituto" (sottoli­neature aggiunte).

   Tale clausola (ma anche quella considerata sub C, che precede) pa­lesemente rinvia al fatto che con la costituzione del Fondo CRR si è realizzata una situazione di autonomia o separazione patrimoniale in senso proprio, rispetto al patrimonio della Cassa di risparmio di Roma, prima, e della Banca di Roma s.p.a., poi, ed ora, in esito alle vicende societarie intervenute nelle more del giudizio, di Unicredit s.p.a.

   Tale dato, comunque, introduce all'ulteriore questione controversa: quella relativa a natura e caratteristiche del Fondo CRR.

*

Segue: II) sull'applicabilità dell'art. 2117 c.c.

7.- il Fondo CRR è da annoverare tra quelli di cui all'art. 2117 c.c., cioè tra i fondi costituiti dall'imprenditore per la previdenza e l'assistenza "anche senza contribuzione dei prestatori di lavoro", e che "non possono essere distratti dal fine al quale sono destinati e non possono formare oggetto di esecuzione da parte dei creditori dell'imprenditore o del prestatore di lavoro"

   Detto articolo del codice civile è la norma di legge che separa i beni del Fondo dal patrimonio dell'Istituto bancario.

   Non appare revocabile in dubbio, infatti, che detta norma configuri un fenomeno di autonomia o separazione patrimoniale in senso pro­prio, e che i fondi da essa previsti debbano, sotto questo profilo, di­stinguersi dai semplici "accantonamenti" (quelli, ad esempio, di cui già agli artt. 2424, n. 5, 2425 bis, n. 12, 2429, 2429 bis c.c.).

   Le disposizioni regolamentari richiamate sopra, d'altra parte – punti 5 e 6 del presente atto -, risultano essere manifestazione e, insieme, conferma di tale configurazione.

   Come è noto, il vincolo di indisponibilità e di destinazione al fine previdenziale e assistenziale, posto dal succitato art. 2117 c.c., trova il suo diretto e puntuale antecedente – può essere utile ricordarlo qui – in una disposizione di legge risalente all'ordinamento liberale, passata indenne nell'ordinamento corporativo: l'art. 15, d.lgs. 9 febbraio 1919 n. 112, poi trasfuso nell'art. 19, legge 18 marzo 1926 n. 526, sul con­tratto di impiego privato.

   Nello stabilire che "il patrimonio delle istituzioni di previdenza a fa­vore del personale delle aziende private sarà amministrato a parte e rimane assoggettato ai fini per i quali è venuto costituendosi, anche in corso di fallimento, liquidazione o trasformazione dell'azienda, escluso qualsiasi diritto o pretesa dei creditori dell'azienda stessa", detta originaria norma si proponeva di evitare che i dipendenti di im­prese private, destinatarie di fondi di previdenza, potessero restare pregiudicati nella soddisfazione delle proprie pretese radicate in detti fondi, in caso di assoggettamento dell'impresa datrice di lavoro a pro­cedura esecutiva concorsuale[5]. Ed è proprio in tale prospettiva che detta norma disponeva la separazione dei fondi di previdenza dal pa­trimonio aziendale, dando vita, così, ad una autonoma realtà patrimo­niale.

   Detta disciplina precodicistica è stata consolidata e, per alcuni versi, ampliata dalla disposizione del codice civile, che qui si considera.

   Destinatari dell'art. 2117 c.c., infatti, sono divenuti gli imprenditori in genere, non più soltanto le imprese private; il vincolo di indistraibi­lità, già opponibile ai soli creditori dell'azienda, è stato reso estensi­bile anche nei confronti dei creditori del lavoratore; la medesima ga­ranzia è stata riferita, infine, anche ai fondi con finalità assistenziali.

   Il vincolo di destinazione e indisponibilità, è, dunque, giustificato dal fine previdenziale e assistenziale. La norma in riferimento – la cir­costanza va sottolineata, anche se la lettura della stessa non lascia adito a dubbi – non subordina il vincolo ad alcun'altra condizione, e, tanto meno, al fatto che la gestione delle risorse avvenga a capitalizza­zione, in conti individuali o meno, oppure che sia prevista la commi­surazione del trattamento erogabile alla contribuzione versata al Fondo stesso.

8.- Se, giusto quanto sopra, deve intendersi che detto vincolo di desti­nazione e indisponibilità sussiste indipendentemente dalla struttura o dalla concreta configurazione del "fondo speciale", per lo stesso mo­tivo è da riconoscere che quel medesimo vincolo non può dipendere dalla ricorrenza di un atto negoziale aggiuntivo, diretto a stabilire de­terminate modalità, o a sanzionare particolari occasioni di impiego delle risorse del fondo (all'effettivo accantonamento o conferimento di determinati cespiti o beni).

   Detto vincolo di destinazione e indisponibilità, in sostanza, va rico­nosciuta anche nell'ipotesi in cui il fondo speciale sia una "mera posta di bilancio" o un "fascio di obbligazioni del datore di lavoro", come si suol dire. Cioè (per riferirsi espressamente al caso di specie), detto vincolo andrebbe ritenuto anche nell'ipotesi in cui tale dovesse real­mente essere – come sostiene la difesa di controparte – la configura­zione da riconoscere al Fondo CRR.

   In realtà (come risulta, d'altra parte, dagli atti di causa, da quanto già esposto nei precedenti punti – e anticipando, comunque, quanto forma oggetto dei motivi di gravame,che seguono -), il Fondo CRR non po­trebbe in alcun caso essere riconosciuto come "posta di bilancio". Ba­sti considerare che le risorse finanziarie raccolte sono state investite – in conformità, del resto a quanto previsto dalle disposizioni regola­mentari già più volte richiamate (v. supra, sub punti 5 e 6) – in beni immobili, come risulta inequivocabilmente dagli stessi bilanci della Banca[6].

   Ne consegue che, tenuto conto della dotazione iniziale, degli investimenti (vedi sopra), in beni mobili e immobili intervenuti e degli ac­cantonamenti, si può tranquillamente assumere che detto Fondo è co­stituito da un patrimonio autonomo (rilevante ai sensi dell'art. 2117 c.c.), basato su una vera e propria riserva finanziaria.

   Comunque sia, l'assunto che qui (pur disconoscendosene la riferibi­lità al caso di specie) si prospetta – essere soggetti al vincolo di cui all'art. 2117 c.c. anche i "fondi speciali" di previdenza e assistenza strutturati come "poste di bilancio" – trova conforto e radicamento nell'insegnamento della Suprema Corte.

   Ed, invero, con sentenza del 12 marzo 2002 n. 3630 la Sezione la­voro della Corte di cassazione ha inequivocabilmente precisato che non sarebbe corretta l'interpretazione della "disposizione di cui all'art. 2117 cod. civ. senza tenere in alcun conto la prima parte, giacché la norma, oltre a disporre certamente l'insensibilità dei fondi di previdenza nei confronti degli attacchi dei terzi, ossia dei creditori del datore di lavoro e del lavoratore, prescrive altresì che i medesimi non possano essere distratti dal fine al quale sono destinati. Si tratta di una norma di evidente garanzia a favore di coloro che sono o sa­ranno beneficiari dei relativi trattamenti di assistenza e previdenza, giacché quando il fondo è privo di personalità giuridica i beni che lo compongono non possono non rimanere nel patrimonio del datore, il quale, pertanto, ove detta norma non esistesse, potrebbe in ogni mo­mento, e legittimamente, disporne a suo piacimento, operandone la commistione con gli altri, e quindi sottrarli del tutto o in parte al fine specifico cui sono preordinati, anche se poi il medesimo datore di la­voro deve rispondere ai sensi dell'art. 2740 con tutti i suoi beni pre­senti e futuri a titolo di responsabilità patrimoniale (ove lo statuto non preveda limitazioni). Si tratta di una garanzia apprestata direttamente dalla legge, che è ulteriore rispetto a quella di portata generale co­stituita dall'art. 2740 cod. civ., la quale peraltro potrebbe ben essere frustrata in caso di insolvenza del datore di lavoro".

   E con detta sentenza la Suprema Corte ha chiarito anche che la "sottoposizione al vincolo di destinazione dei beni facenti parte del Fondo non abbisogna di un atto di autonomia negoziale, perché nasce direttamente dall'art. 2117 cod. civ., di talché non possono esistere fondi speciali di previdenza ed assistenza costituiti dall'imprenditore che siano privi del vincolo di destinazione; questo infatti opera auto­maticamente in tutti i casi in cui un fondo di tale natura venga costi­tuito, e d'altra parte la norma non avrebbe di fatto alcuna utilità se per imprimere detto vincolo fosse richiesto un atto di volontà, mentre la ratio della norma è invece quella di approntare la garanzia anche se non contemplata nell'atto istitutivo del fondo".

   E, d'altra parte – aggiunge la Corte, con notazione che appare anch'essa puntualmente attagliarsi al caso in esame nel presente giu­dizio -, "il suddetto vincolo di destinazione opera su tutti i beni che i contraenti indicano come necessari per il perseguimento dello scopo, e nella specie l'art. 8 del regolamento stabiliva che detti beni erano costituiti dalla dotazione iniziale assegnata dall'Istituto, dai contributi a carico del datore e dei lavoratori, nonché dal reddito degli investi­menti" (le sottolineature sono stata aggiunte).

   Si può passare, a questo punto, alla terza questione di fondo, sulla quale parimenti si controverte: quella che riguarda il rapporto dei "fondi preesistenti" con la struttura "binaria" assunta dal sistema pre­videnziale nazionale.

*

Segue: III) sul rilievo della disciplina legale

della previdenza complementare

9.- In quanto costituito prima che la specifica materia venisse espres­samente regolata con legge (d.lgs. n. 124 del 1993 e successive modi­ficazioni), il Fondo CRR va definito come "fondo preesistente": nella specie del "fondo interno" (in quanto gestito dallo stesso datore di la­voro).

   Ed è quest'ultima – "fondo preesistente" – l'unica qualificazione propria dei fondi pensione costituiti prima della data di entrata in vi­gore della legge n. 421 del 1992 (cioè, prima del 15 novembre 1992), che valga ad evidenziare, già attraverso la terminologia, la diversità rispetto ai fondi costituiti – ab origine – nelle forme con le quali la legge ha regolato, a partire dagli anni '90, la specifica materia.

   Non avrebbe giustificazione, d'altronde, se non fosse così, la previ­sione, da parte di quella innovativa legislazione, di disposizioni ad hoc (l'art. 18, d.lgs. n. 124 del 1993 ed, ora, l'art. 20, d.lgs. n. 252 del 2005), dirette all'adeguamento di detti preesistenti fondi alla nuova disciplina, in parte in via immediata, in parte in via graduale. Così come non avrebbe giustificazione la riserva per essi di una sezione spe­ciale dell'albo tenuto dalla COVIP (artt. 19, comma 1, e 20, comma 2, d.lgs. n. 252 del 2005).

   Ed, invero, il Fondo in riferimento (così come, in generale, quelli ex art. 2117 c.c., analogamente strutturati) non appare poter essere ricondotto, innanzitutto, alla categoria che la vigente legislazione identifica con l'espressione "fondo a prestazioni definite".

   In via generale tale qualificazione si attaglia (come quella, contrapposta, di "fondo a contribuzione definita") solo a fondi puntualmente costituiti secondo quanto stabilito dal d.lgs. n. 124 del 1993: cioè, si attaglia a quei piani pensionistici, di rilievo assicurativo, che stabiliscono a priori il risultato cui pervenire, con conseguente aggiornamento periodico (al variare della situazione economica o, in generale, delle condizioni di rischio) della contribuzione, e l'accesso ai quali, proprio in considerazione delle maggiori oscillazioni dei relativi oneri che comportano, è stato riservato dal legislatore ai titolari di reddito variabile, cioè ai liberi professionisti e ai lavoratori autonomi (cfr. art. 2, d.lgs. n. 124 del 1993), con esclusione, quindi, dei lavoratori subordinati, in quanto percettori di reddito fisso.[7]

   In ogni caso, che il Fondo CRR, per come è stato ab origine confi­gurato, non sia, in concreto, destinato ad erogare "prestazioni definite" propriamente dette, lo si ricava agevolmente dalla surrichiamata disci­plina regolamentare, che prevede contributi fissi e pretazioni variabili o addirittura eventuali: si rinvia, per brevità, ancora una volta, ai punti 5 e 6 del presente atto.

   Appare difficilmente contestabile, infatti, che, ai sensi di quella regolamentazione, la prestazione pen­sionistica del Fondo varia in relazione al variare della pensione INPS; può, in determinati casi essere sostitutiva di quest'ultima; può, addi­rittura, risultare pari a zero, se all'atto della cessazione del rapporto di lavoro la pensione INPS dovesse superare certi parametri (v. art. 17 del Regolamento). E il tutto senza alcuna necessitata, corrispondente incidenza o variante in merito all'apporto contributivo: l'aliquota contributiva è stata determinata una volta per tutte, così come la base imponibile.

   Meno impropriamente, dunque, se si considera quest'ultima circostanza, il Fondo CRR potrebbe essere qua­lificato come "fondo a contribuzione definita". A condizione, però, che fosse giustificato – ma non lo è – tener conto soltanto del fatto dell'invarianza delle aliquote contributive[8] (nella specie la contribuzione è rimasta ferma quanto meno dal 1988)

   In realtà, con l'espressione "fondo a contribuzione definita" si indica propriamente una forma previdenziale che non determina la prestazione finale: l'importo di questa dipende dal capitale versato, ma, sopratutto, dalle strategie e dai risultati della gestione e degli investimenti delle risorse accumulate nel tempo. Il presupposto è, dunque, inevitabilmente, la capitalizzazione.

   Né si potrebbe propriamente attagliare al Fondo in questione la col­locazione classificatoria tra i "fondi a ripartizione".

   Come si ricava dal regime di alimentazione e gestione finanziaria, quale configurato dalla fonte regolamentare in riferimento (e riepilo­gato sub punto 6 del presente atto, cui nuovamente si rinvia), nella specie non è previsto un meccanismo che puntualmente adegui il carico contributivo corrente alle variazioni dell'ammontare complessivo della spesa per le prestazioni correnti, meccanismo che è elemento specificativo di quel regime tecnico-finanziario[9]. Non si realizza, quindi, quel vincolo solidaristico, per effetto del quale il costo delle pensioni dei lavoratori non più attivi viene sopportato dagli attivi (e, dunque, tra di essi "ripartito"), che rappresenta la pecularietà di quel criterio di gestione finanziaria.

   Non può sfuggire, d'altra parte, che il Fondo è rimasto pienamente ope­rativo anche dopo che la Banca ha arbitrariamente sospeso ogni ver­samento contributivo: circostanza, questa, che rende fin troppo evidente come il Fondo in questione non possa essere qualifi­cato nei termini suddetti. E la circostanza è impli­citamente riconosciuta, di fatto, dalla stessa Banca, proprio là dove af­ferma (sia pure senza fondamento) che il Fondo sarebbe una mera "posta di bilancio", realtà oggettivamente incompatibile, appunto, con un "fondo a ripartizione".

   Il Fondo CRR, invero, potrebbe essere classificato, semmai, come "fondo a ca­pitalizzazione". E' vero, infatti, che le prestazioni del Fondo non sono calcolate sul rendimento di capitali investiti; resta, tuttavia, il fatto che la relativa regolamentazione (vero quanto osservato sub punti 6 e 8 del presente atto) prevede la formazione di riserve finanziarie: il che rappresenta il nucleo della "capitalizzazione"[10].

   Il fatto è che, in via generale, la gestione a capitalizzazione delle risorse "può" essere una modalità, ma non certo un criterio identifica­tivo, e quindi "necessitato" del "fondo speciale" ex art. 2117 c.c. Così come non può essere criterio identificativo la corrispondenza, in ter­mini di corrispettività, tra contributi e prestazioni, non potendosi a priori escludere la compresenza, nel fondo, di finalità solidaristiche.

   Giusto quanto sopra, si può assumere che l'appartenenza alla categoria dei "fondi preesistenti" comporta un regime, che sconta l'applicazione delle norme che la legislazione in mate­ria ha dedicato specificamente per quei fondi: al fine di un loro graduale adeguamento alla disciplina generale, ma anche al fine dell'applicazione ad essi di tutte quelle disposizioni che – una volta assunta la previdenza complementare nella struttura destinata a realizzare la garanzia di cui all'art. 38, comma 2, Cost. – il legislatore (alla stregua dell'art. 18, d.lgs. n. 124 del 1993 e, poi, dell'art. 20, d.lgs. n. 252 del 2005) ha ritenuto, nell'ambito delle sue scelte sovrane, meri­tevoli di avere immediata operatività, e tra queste (per le ragioni tutte delle quali appresso si dirà) quelle relative alla "portabilità"[11].

*

L'assunto del Tribunale

10.- Il Tribunale di Roma, con la sentenza indicata in epigrafe, riunite le varie cause, ha re­spinto il ricorso, richiamandosi pedissequamente alle tesi difensive della Banca e del Fondo BDR, sulla base, in sintesi, dei seguenti argomenti, tutti, in realtà, ampiamente e agevolmente contestabili, oltre che contraddittori (come appresso sarà dimostrato, ma come può ricavarsi già da quanto fin qui esposto).

   a) La sentenza sostiene, innanzitutto, che il finanziamento del Fondo grava esclusivamente sulla Banca di Roma s.p.a.

   b) Quanto alla struttura del Fondo, il Tribunale dichiara che si tratta di un fondo negoziale interno a prestazione definita, regolato con il metodo a ripartizione; infatti – osserva il Tribunale (il corsivo virgolettato è testuale) -, "il livello della prestazione viene predefinito in rapporto al reddito del lavoratore e non di un fondo a c.d. contribuzione definita, in cui, invece, è la contribuzione ad essere preventivamente definita secondo una misura predeterminata, solitamente in misura percentuale del reddito da lavoro, mentre il livello delle prestazioni dipende dai rendimenti delle somme via via accantonate", ed è "fondo a ripartizione", perché "la contribuzione raccolta, versata esclusivamente del datore di lavoro non essendo previsto alcun contributo a carico del lavoratore, viene «ripartita», suddivisa, sotto forma di prestazioni previdenziali", in modo tale che "le prestazioni dei pensionati sono pagate con i contributi degli attivi, cioè la contribuzione viene immediatamente utilizzata per pagare i trattamenti pensionistici"  (così la sentenza a pag. 5).

   c) La "conferma della rispondenza della struttura del Fondo al modello «a ripartizione» – aggiunge il Tribunale – è fornita dall'art. 4/2° c. del regolamento, in base al quale «l'impostazione contabile del Fondo è basata sulla tenuta di un unico conto denominato «Conto riserva matematica generale» e dall'art. 24, per il quale «nessuna operazione di credito in genere per nessun titolo e per nessun motivo, può essere fatta dal Fondo agli iscritti ed in specie non può venire ad essi fatta anticipazione di sorta», nonché dalla previsione che in caso di cessazione dell'iscrizione senza la maturazione dei requisiti per l'accesso alle prestazioni previste nulla è dovuto" (così la sentenza, a pag. 6).

   d) Ne consegue, a dire del Tribunale, che "non è consentito all'interno del Fondo individuare alcuna «posizione previdenziale individuale», perché «non esiste … alcun conto individuale del quale gli iscritti possono disporre" (così, ancora a pag. 6).

   e) Tale impossibilità di computo (e quindi di trasferimento) delle "posizioni previdenziali individuali" non è smentita dall'operazione che la Banca di Roma ha effettuato a favore dei dipendenti trasferiti nel 2003 alla Banca Antoniana Veneta, perché "la Banca di Roma non ha affatto trasferito «conti individuali», bensì ha quantificato e trasferito la riserva matematica", ed è, anzi, confermata – precisa il Tribunale – dal fatto che nel bilancio della Banca si attesta che "a fine esercizio il fondo è stato integrato con contribuzione da parte della Banca, a copertura della riserva matematica" (così a pag. 8).

   f) L'esclusione dell'applicabilità "ai fondi preesistenti regolati con il metodo c.d. a ripartizione" e, quindi, al Fondo CRR, del principio di portabilità, di cui all'art. 10, d.lg.s n. 124 del 1993 è confermata – sostiene il Tribunale (a pag. 7 e seg.) – dalle sentenze della Suprema Corte n. 13111/2007, n. 17657/2002, n. 5094/2008 e n. 6042/2008, nonché dal decreto ministeriale n. 62/2007 e dalla COVIP (delibera 15 febbraio 2001 e circolare 17 gennaio 2008).

    g) Alla stregua di quanto sopra, è irrilevante accertare – argomenta il Tribunale – "se nella specie il Fondo vada qualificato come patrimonio di destinazione ex art. 2117 c.c. o mera posta contabile", così come è superfluo accertare la "natura del contributo versato (retributiva o previdenziale) o anche se detto contributo comprenda o meno la quota di contribuzione ago" (così a pag. 9).

   h) Infine – conclude il Tribunale -, quanto alla "questione di legittimità (costituzionale) prospettata in sede di discussione, non è fondata, poiché non tiene conto della diversità di funzionamento dei fondi, posta da S.C. a fondamento delle sue decisioni e che ben giustifica una diversità di trattamento" (così a pag. 11).

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   Detta sentenza, in quanto illogica, erronea e gravemente lesiva degli interessi dei ricorrenti, viene qui impugnata, giusti i seguenti

Motivi di gravame

11.- I punti salienti della motivazione della sentenza, trascritti sopra, evidenziano, innanzitutto, come l'intero ragionamento del Tribunale si fondi su di una petizione di principio.

   Nel regime speciale di previdenza nel quale gli accantonamenti versati al fondo tempo per tempo non vengano contabilizzati in conti individuali, relativi a ciascuno degli iscritti, non è in alcun modo possibile determinare – dà per scontato, in sostanza, il Tribunale nel suo ragionamento – un "valore" monetizzabile da accre­ditare al singolo iscritto che intenda riscattare o trasferire ad altro fondo (alle condizioni di anzianità di legge) quanto da lui e per lui fino a quel momento apportato o maturato. Cioè, non è determinabile, a dire del Tribunale, quella "posizione previdenziale individuale", cui fanno riferimento tanto l'art. 10, d.lgs. n. 124 del 1993, quanto l'art. 14, d.lgs. n. 252 del 2005.

   Ed è per questo che il Tribunale – una volta assunto che il sistema di alimentazione finanziaria del Fondo CRR non si basi su "conti individuali", e nel presupposto che "posizione previdenziale individuale" equivalga a "conto individuale" – conclusivamente sostiene che, anche ove non vi fossero ragioni di diritto positivo (la ritenuta – ma, erroneamente, per quanto si dirà – non applicabilità ai "fondi preesistenti" dell'art. 10 d.lgs. n. 124 del 1993, sulla "portabilità" delle posizioni individuali), nella specie il richiesto trasferimento sarebbe impossibile, stante l'inesistenza di una "posizione previdenziale individuale" da trasferire (cfr., la sentenza, a pag. 6).

   In realtà, il "prin­cipio" che la sentenza dà per scontato, semplicemente, non esiste.

   Ogni fondo pensione genera un "valore" per l'iscritto: "valore" che, pur tenendo conto delle circostanze e delle caratteristiche della speci­fica disciplina di ciascun fondo, può essere tradotto in termini mone­tari.

   Detto "valore", invero, ha motivo di variare a seconda della durata del periodo di iscrizione dell'interessato, dell'apporto contributivo complessivo e di altri fattori (tra i quali, indubbiamente, la quantità e la qualità degli eventi dannosi, rispetto ai quali la tutela venga con­cretamente assicurata dalla disciplina del fondo, nonché il livello delle prestazioni garantite dalla relativa normativa), e può essere comunque calcolato. Anche se – può darsene atto – con difficoltà variamente gra­duate a seconda delle circostanze[12].

    In sostanza, si può dire che il primo vizio logico nel quale, al proposito, il Tribunale risulta essere incorso è di aver scambiato per "impossibi­lità" quanto, in realtà, costituisce una mera "difficoltà".

12.- L'inattendibilità della sentenza, peraltro, si rivela anche sotto altri profili.

   Ed, invero, in sentenza si danno per presupposte circostanze – assunte come determinanti -, la cui esistenza, però, risulta smentita dai fatti o dalla documentazione acquisita agli atti; e stupisce che il Tribunale non se ne sia accorto sol che si consideri quanto segue.

   A) Contribuzione dei lavoratori.

   Innanzitutto, in sentenza si assume che il finanziamento del Fondo grava esclusivamente sulla Banca di Roma s.p.a., restando l'iscritto totalmente esonerato da oneri contributivi.

   In realtà, come si è posto in evidenza già nella "premessa" del pre­sente atto, sub n. 6 – e comunque può essere in ogni momento verificato, sol che si abbia la pazienza di porre a raffronto le ver­sioni del testo regolamentare, che si sono succedute nel tempo -, è previsto che il finanziamento del Fondo si realizzi anche attraverso la contribuzione dei lavoratori.

   Il fatto che nel testo regolamentare del 1976 (art. 7, comma 3) si af­fermi che "il contributo a carico del lavoratore – che sarà calcolato e versato a parte – è costituito unicamente da quello dovuto all'assicurazione obbligatoria di invalidità, vecchiaia e superstiti (INPS), nelle misure e con le modalità tempo per tempo stabilite dalla legge", come si è già avvertito (v. sopra sub punto 6, lettera A), non deve trarre in inganno.

   E, d'altra parte, nel testo regolamentare ana­loga equivoca formulazione risulta essere stata usata anche in riferi­mento alla contribuzione del datore di lavoro: senza che, però, possa esservi dubbio alcuno (per quanto già illustrato in "premessa") che detta contribu­zione al Fondo fosse ab origine del tutto distinta da quella destinata all'INPS, e, dunque, "aggiuntiva" rispetto a quest'ultima.

    Il contributo INPS va comunque pagato, per vincolo inderogabile di legge – anche per la quota a carico del lavoratore -, e non certo per ef­fetto di un atto di autonomia collettiva.

   Né detto contributo potrebbe essere stornato al Fondo, stante il principio di indisponibilità ex art. 2115 c.c. E, tuttavia – recita la norma -, detto contributo del lavora­tore al Fondo CRR deve essere "calcolato e versato a parte".

   Dal confronto chiaramente si evince, ad avviso di questa difesa, che non può che trattarsi di due aspetti di­stinti. Il contributo di legge, richiamato da detta clausola regolamen­tare, non può essere inteso che quale parametro per la determinazione in concreto dell'importo con il quale il lavoratore è tenuto a contri­buire al Fondo (ferma la quota di contributo INPS, per la quale il da­tore è adiectus solutionis causa): apporto contributivo variabile nel tempo, a seconda del variare dell'aliquota di quel contributo.

   La necessità di detto materiale versamento al Fondo, d'altra parte, è esplicita, come si ricava dal suddetto inciso: "calcolato e versato a parte"

   Determinante è il fatto che tale versamento – da effettuare, ovviamente, tramite trattenuta (diretta o indiretta) sulla retribuzione da parte del datore, al pari di quello di competenza dell'INPS – fosse dovuto. Gli attuali appellanti, infatti – la circostanza va subito sottolineata -, hanno comunque diritto ad essere tenuti indenni dagli effetti del relativo (eventuale) inadempimento, questo dovendo imputarsi unicamente al datore di lavoro.

   Il controvalore di detto contributo dei lavoratori andrà in ogni caso considerato nel computo di quanto forma oggetto della domanda per la quale è causa, e, in ogni denegata ipo­tesi, comunque rimborsato con accessori, ex art. 2123 c.c.

   B) Riserva finanziaria e posizioni individuali.

   La sentenza, inoltre, assume che "non esiste … alcun conto individuale del quale gli iscritti possono disporre", giacché "l'impostazione contabile del Fondo è basata sulla tenuta di un unico conto denominato «Conto riserva matematica generale»" (così a pag. 6).

   In realtà, fermandosi a tale dato "di superficie", e ricavando da esso la convinzione che non sono ravvisabili "posizioni previdenziali individuali", la sentenza di fatto perviene a disconoscere, del tutto ingiustificatamente ed immotivatamente, dati incontrovertibili, che attestano una realtà ben più complessa ed effetti ben diversi da quelli che essa dà per scontati.

   Precisamente, la sentenza ingiustamente non considera, o sottovaluta, le seguenti, rilevanti circostanze:

1) il fatto che (come testé osservato), per espressa, mai abrogata disposizione regolamentare, "il contributo a carico del la­voratore … sarà calcolato e versato a parte" (art. 7, comma 3, Reg. 1976);

2) il fatto che detto contributo è comunque soggetto (al pari del con­tributo del datore), e per esplicito vincolo regolamentare, a "gestione e conta­bilità separate da quelle della Cassa" (art. 1, comma 3, Reg. 1976);

3) l'ammissibilità del computo nominativo dei contributi è espressa­mente riconosciuta dallo stesso testo regolamentare: basti considerare la disposizione dettata al proposito per il personale in prova (art. 9, Reg. 1976).

4) la necessità che tutti detti contributi vengano "effettivamente accanto­nati" (art. 4 e 6, Reg. 1976).

   La sostituzione – operata di fatto dalla Banca – del versamento della contribuzione commisurata alla retribuzione pensionabile con lo stanziamento in bilancio degli importi di volta in volta ritenuti necessari ad adeguare la riserva matematica, non potrebbe certo essere addotta come "equivalente" di quanto stabilito dalla disciplina regolamentare, e, dunque, come iniziativa valida ad escludere l'inadempimento del quale la Banca stessa si è resa responsabile.

   E' proprio in tale sostituzione, infatti, che si concretizza la distrazione degli importi da destinare al Fondo, e, dunque, la violazione all'art. 2117 c.c. La natura contrattuale del Fondo, per altro verso, esclude la legittimità di tale sostituzione, ove difetti (come difetta nella specie) di uno specifico accordo sindacale in merito, o, eventualmente, in alternativa, il consenso espresso individualmente da ciascuno degli interessati.

   Alla stregua di quanto sopra, si evidenzia quanto lacunosa e superficiale sia stata la valutazione operata dal Tribunale: valutazione per effetto della quale paradossalmente si perviene ad  at­tribuire, di fatto, il valore di "regola" – la assenza di "contabilizzazione a parte" (cioè, per singolo lavoratore, e con contabilità separata) – ad una situazione in realtà imputabile ad un comportamento palesemente e pesantemente inadempiente della Società datrice di lavoro.

   Ed è sintomatico e rivelatore dell'inattendibilità della pronuncia in riferimento, il fatto che, riferendosi alle questioni sollevate dai ricorrenti, sia in ordine alla violazione da parte della Banca del principio di indistraibilità di cui all'art. 2117 c.c., sia in ordine all'entità della contribuzione a carico della Banca, sia in ordine ad altre questioni che qui non merita elencare, la sentenza non si periti di dichiarare, appunto, che "le prospettate questioni sottendono piuttosto una velata censura di non corretta gestione del Fondo da parte della Banca di Roma s.p.a., che all'evidenza esula dal thema decidendum e che con esso non ha alcun rapporto di pregiudizialità (se anche la Banca datore di lavoro avesse violato gli obblighi rispetto al Fondo, ciò non servirebbe a riconoscere ai ricorrenti ciò che essi rivendicano, ma che lo statuto e la legge loro non attribuiscono)" (così, testualmente, a pag. 9).

   In realtà, è un po' come se si volesse sostenere, o che il Regolamento del Fondo CRR non ha mai vincolato la Banca, o che l'inadempimento da questa posto in essere è causa estintiva dell'obbligazione!

   C) Computabilità degli apporti.

   E' incredibilmente sfuggito al Tribunale, inoltre, che la disci­plina regolamentare offre i necessari criteri per il calcolo del quale qui si discute.

   Innanzitutto, la parametrazione del contributo del lavoratore al con­tributo INPS, "nelle misure e con le modalità tempo per tempo stabi­lite dalla legge" (ancora art. 7, comma 3, Reg. 1976), rende agevol­mente calcolabile – contrariamente a quanto si assume in sentenza -l'ammontare complessivo dell'apporto individuale per ciascuno degli attuali appellanti.

   Ma, a ben considerare, analoga operazione è possibile anche per quanto riguarda l'apporto contributivo di competenza datoriale, atteso che si conoscono la base imponibile per ciascun dipendente, l'aliquota contributiva e il numero di anni di iscrizione di ciascun interessato.

   Meno agevole – ma pur sempre possibile – è calcolare l'apporto co­stituito dai frutti degli investimenti in beni immobili o in titoli: diffi­coltà che consegue alla confusione del patrimonio del Fondo con quello della Banca, operata da quest'ultima in violazione, come già osservato, di specifica norma di legge imperativa (art. 2117 c.c.), nonché delle di­sposizioni regolamentari (v. sopra); difficoltà, tuttavia, anch'essa non insormontabile.

   Per la determinazione degli importi di cui sopra, della quale ci si è occupati in prime cure, si fa rinvio alla do­cumentazione contabile in atti. Comunque, potrà codesta Corte, si oportet, disporre consulenza tecnica d'ufficio – accogliendo la richiesta già ritualmente formulata in prime cure, che, qui, ad ogni buon conto, si rinnova, sia pure in via subordinata -, da riferire sia a quanto riguarda il calcolo globale, sia a quanto riguarda le singole componenti: compresa, quindi, la contribu­zione imputabile agli stessi lavoratori, stante che questa va in ogni caso restituita, ex art. 2123 c.c.

   D) Patrimonio del Fondo.

   La sentenza, richiamato espressamente l'art. 4, comma 2, Reg. 1976, ai sensi del quale "l'impostazione contabile del Fondo è basata sulla tenuta di un unico conto denominato «Conto riserva matematica generale»" (cfr. a pag. 6), ritiene (come già osservato) "superfluo l'esame delle ulteriori deduzioni svolte dai ricorrenti, in relazione, ad esempio, … se nella specie il Fondo vada qualificato come patrimonio di destinazione ex art. 2117 c.c. o mera posta contabile …" (così, testualmente, a pag. 9). 

   Ad avviso di questa difesa (e come già anticipato sub punto 7 del presente atto), detto assunto del Tribunale è da ritenere illogico ed ingiusto. Ma di ciò sarà discusso specificamente più avanti.

   Per il momento interessa sottolineare, piuttosto, come i presupposti di fatto della tesi accolta in sentenza siano inequivoca­bilmente smentiti da dati oggettivi, da considerare acquisiti al giudi­zio:

1) innanzitutto, quei presupposti sono smentiti dal testo regolamen­tare, dal quale risulta che il Fondo CRR è stato destinatario, fin dal 1953, di una dotazione iniziale (art. 4, comma 1, Reg. 1976), costituita da cespiti specificamente individuati ed elencati nella natura (buoni del tesoro novennali, titoli a debito dello Stato, titoli garantiti dallo Stato, libretti della Cassa di risparmio, beni immobili) e nel valore (art. 5, Reg. 1953): dotazione successivamente incrementata (artt. 5 e 6, Reg. 1976);

2) quei presupposti, poi, sono contraddetti anche dalla documenta­zione prodotta in giudizio, dalla quale risulta l'elencazione dei beni immobili, per il cui acquisto sono state utilizzate le disponibilità del Fondo CRR (in conformità al disposto dell'art. 6, Reg. 1953 e dell'art. 6. Reg. 1976);

3) infine, si dà inequivocabilmente atto nel vigente Regolamento (artt. 4 e 6, Reg. 1976) che i fondi (cioè la contribuzione) debbono essere "effettiva­mente accantonati" (come, infatti, si enuncia testualmente sub lettera d del succitato art. 6).

13.- Poiché tutto il ragionamento del Tribunale si fonda sui suddetti erronei presupposti, ne consegue la radicale inattendibilità della sentenza da esso pronunciata.

   Occorre, dunque, riformulare completamente, su altre basi, il ragio­namento diretto alla soluzione di quanto oggetto della presente con­troversia, e partire proprio da quanto l'impugnata sentenza ha ritenuto "superfluo" o esulante dal thema decidendum (cfr. lo stesso, ancora a pag. 9); occorre partire, cioè, proprio dall'inadempimento della Banca.

   Ed, in effetti, la Banca datrice di lavoro, da un certo momento in poi:

   a) sospendendo sia la contribuzione di pro­pria competenza, sia le trattenute corrispondenti alla quota di contri­buto a carico dei dipendenti, ha cessato di alimentare il Fondo CRR, in violazione delle specifiche norme dettate al proposito dal Regolamento di detto Fondo;

   b) ha usato come propri i beni e le somme che avrebbero dovuto es­sere (o erano già) di pertinenza di detto Fondo, in violazione di legge (art. 2117 c.c.) ed, ancora, delle norme regolamentari.

   Si tratta di circostanze non certo irrilevanti a fini della soluzione della presente controversia, atteso che il diritto del quale si discute – il diritto al riscatto o, più in generale, alla "portabilità" della posizione previdenziale individuale – si determina in base ai versamenti dovuti, ancorché non effettuati.

   D'altra parte, gli effetti pregiudizievoli di detto comportamento inadempiente si sono concretizzati in tutta la loro evidenza e gravità, quando, in seguito all'assunzione della previdenza complementare nella struttura protet­tiva, espressione della garanzia di cui all'art. 38, comma 2, Cost. (d.lgs. n. 124 del 1993 e successive modificazioni), il legislatore ha imposto (sia pure – per una parte di disciplina – in via graduale) l'adeguamento dei fondi preesistenti di previdenza aziendale al nuovo sistema.

   E, infatti, in quel nuovo contesto che si è determinato a partire dal 1993, la posizione soggettiva dei lavoratori iscritti e, reciprocamente, quella del datore di lavoro non sono rimaste insensibili – non potevano restare insensibili – all'intervenuta nuova disciplina[13].

14.- Il fatto che l'assetto finanziario del Fondo CRR non sia regolato su "conti individuali", bensì su di un accumulo indifferenziato di risorse, beni e titoli, contrariamente a quanto si dà per scontato in sentenza, non impedisce di determinare quanto i ricorrenti richiedono nel presente giudizio.

   Ed, invero, nella presente controversia si fa questione delle "posi­zioni previdenziali individuali": cioè, di un concetto e di una realtà ben di­versi dai "conti individuali" (unicamente dei quali si è interessato, invece, il Tribunale).

   Mentre con l'espressione "conti individuali" si fa riferimento ad una tecnica (tra quelle possibili) per la raccolta, la gestione e il computo delle risorse finanziarie del fondo previdenziale in considerazione, il riferimento alla "posizione individuale" evoca finalisticamente il valore che per il singolo riveste la sua partecipa­zione allo specifico regime previdenziale. "Valore" che (come già osservato) sussiste ed è determinabile, anche quando la "tecnica" usata non sia quella dei "conti individuali", ma, in ipotesi, quella della raccolta in­divisa delle risorse, in un complessivo "coacervo".

   Ed è, appunto (e giustamente), alle "posizioni individuali", e, cioè, al "valore" – non certo alla "tecnica" di contabilizzazione delle ri­sorse – che fanno espresso riferimento le disposizioni di legge: tanto l'art. 10, d.lgs. n. 124 del 1993, che, successivamente, l'art. 14, d.lgs. n. 252 del 2005. E non poteva che essere così, trattandosi di dare attuazione alla garanzia di cui all'art. 38, comma 2, Cost.

   Gli argomenti del Tribunale, incentrati sulla inesistenza di conti individuali, non possono avere alcuna forza di convincimento, stante il loro apriorismo.

   Ed, in effetti, la sentenza perviene al disconoscimento del diritto alla portabilità di cui all'art. 10 del d.lgs. n. 124 del 1993 sulla base di due argomenti: a) il fondo è alimentato esclusivamente del contributo aziendale; b) è contabilizzato in un conto unico. Ma, in tal modo, essa cade in una vera e propria petizione di principio.

   Infatti, di fronte al dato normativo testuale che riconosce l'applicabilità del succitato art. 10 – in quanto non escluso espressamente dall'art. 18 del medesimo accordo – ai fondi preesistenti, la sentenza afferma che – di per sé – l'inesistenza di una posizione individuale nel Fondo CRR impedisce il riconoscimento del diritto alla portabilità. Ma è proprio la premessa che non può essere accolta, perché, come già osservato, viziata dalla confusione tra la nozione di "conto individuale" e la nozione di "posizione previdenziale individuale".

   L'esistenza di un "conto individuale" effettivamente consegue ad un sistema di capitalizzazione dei contributi versati per ogni singolo iscritto in funzione del calcolo della prestazione previdenziale. Ma questo non significa che, al di fuori dei sistemi di capitalizzazione, non esista una posizione contributiva individuale.

    E ciò anche a non voler considerare che, come già sottolineato, anche la disciplina del Fondo CRR prevede la "formazione di risorse finanziarie" da accumulare: cioè, da capitalizzare.

   Va ribadito, dunque, che l'esistenza stessa dell'obbligazione previdenziale, assunta dal datore con la costituzione del Fondo, determina la creazione in favore dei singoli iscritti di un valore. Ed è proprio tale valore l'oggetto del diritto di credito dei lavoratori iscritti, corrispondente alla quota di contributi versati o semplicemente dovuti; e ciò anche nell'ipotesi in cui dovesse ritenersi che obbligata alla contribuzione fosse solo l'azienda.

   Né, d'altronde, potrebbe confondersi il diritto di trasferimento o di riscatto – il quale riguarda l'intero valore della posizione previdenziale individualmente maturata dagli attuali appellanti nel Fondo (nei termini dei quali si è testé detto) – con la mera restituzione della parte di contribuzione già a loro carico, giusto quanto risulta dall'art. 7, comma 3, Reg. 1976: restituzione alla quale, comunque, i medesimi hanno diritto (argomento ex art. 2123, comma 2, c.c.)[14], come qui, sia pure in via subordinata, formalmente si ribadisce e ri­chiede.

15.- Quanto sopra trova conforto nella disciplina di legge, applicabile al Fondo CRR, in concorso con la disciplina regolamentare.

   Dell'applicabilità dell'art. 2117 c.c. si è già detto: per evitare inutili ripetizioni, si rinvia al punto 7 del presente atto.

   Del pari si è già detto dell'applicabilità del vincolo posto dalla succitata norma, anche nella denegata ipotesi in cui detto Fondo dovesse ritenersi costituito come mera "posta contabile": si veda il punto 8 del predente atto, cui parimenti si rinvia.

   In realtà, come si è già più volte osservato, basta scorrere con atten­zione il Regolamento che lo riguarda, per rendersi conto che il Fondo CRR è stato configurato non già come "posta contabile", bensì come un "ac­cantonamento reale": emblematico il richiamo, ancora una volta, agli artt. 4 e 6, Reg. 1976.

   Ed, invero, come già sottolineato, detto Regolamento descrive in dettaglio la composizione della dotazione iniziale; stabilisce la contribuzione da versare e da "computare a parte"; prescrive che detta contribuzione vada ad inte­grare le disponibilità del Fondo (al pari del reddito derivante dagli in­vestimenti) e sia "effettivamente accantonata"; delimita gli investi­menti consentiti, e la relativa percentuale, in rapporto al complesso delle risorse accantonate; prescrive che alla chiusura di ogni esercizio venga "compilato uno stato dimostrante la situazione del Fondo, da allegare al bilancio dell'Istituto" (si rinvia, per puntuali riferi­menti testuali, ancora una volta al punto 6 del presente atto).

   Non può, dunque, negarsi (ed appare strano che la circostanza possa essere stata così platealmente travisata dal Tribunale) che il Fondo CRR è stato reso destinatario di un complesso di beni mobili e immo­bili, cioè di risorse realmente accantonate.

   Ed è, appunto, del valore di detti cespiti (comunque ricostruibile, quali che possano essere state le vicende o gli inadempimenti) che qui si discute, stante la riferibilità anche al Fondo CRR sia degli artt. 2117 e 2123 c.c., sia della disciplina dettata dal d.lgs. n. 124 del 1993 e suc­cessive modificazioni.

   D'altra parte – e lo si aggiunge qui per mero scrupolo -, la distinzione tra la fattispecie dei fondi interni costituiti come patrimonio di destinazione e la figura dei fondi interni rappresentati da poste di bilancio societario (e in definitiva, depositati presso la Società bancaria) – sicuramente ammissibile nel regime dei fondi preesistenti alla riforma del 1993 – varrebbe semmai a smentire, e non già a confermare, la tesi avversaria. La distinzione, infatti, non sottrae i fondi interni al vincolo dell'art. 2117 c.c., come, se non altro, risulta dal fatto che detto vincolo viene conservato, ed anzi rafforzato, dalla riforma, che, infatti (art. ex art. 18, comma 4, d.lgs. n. 124 del 1993), espressamente impone ai fondi preesistenti "di adottare la forma del patrimonio separato di destinazione".

16.- Nella specie, inoltre, trova applicazione, ratione temporis, la disciplina dettata dall'art. 18, d.lgs. n. 124 del 1993. Trova applicazione, cioè, anche per i "fondi preesistenti", la stessa disciplina delle forme di previdenza complementare costituite ai sensi di quel decreto.

   E' vero che tale norma prevede una certa gradualità in detto processo di adeguamento, e la possibilità di prorogare il regime transitorio. Quanto forma oggetto del contendere nella presente controversia, tuttavia, non viene interessato dalle disposizioni la cui applicazione risulta  espressamente differita o derogata da quella stessa norma.

   Innanzitutto, infatti, il suddetto Fondo non può considerarsi interessato dal regime di proroga, di cui all'art. 5, d.lgs. n. 585 del 1993, giacché tale regime, che consente ai "fondi preesistenti" di differire il proprio adeguamento alla disciplina gene­rale, è riservato alle ipotesi di "rilevanti squilibri finanziari": situa­zione nella quale il Fondo CRR non versa, né ha mai versato. Tanto confermano, contro ogni possibilità di dubbio (e come già ricordato), i risultati di bilancio e, comunque, le ragioni addotte a giustificazione della riduzione di aliquota contributiva, dalla medesima autonoma­mente disposta con la delibera del 1988 (cfr. punto 6, lettera B, del presente atto): delibera mai revocata o seguita da delibere o richieste di diverso tenore.

   Vero è, inoltre, che la legislazione in riferimento prevede anche disposizioni di applicazione generale; e tra queste si colloca l'art. 10 del d.lgs. n. 124 del 1993, che (all'interessato in possesso dei requisiti di cui al comma 3 bis di quella stessa norma) consente di optare per il riscatto o per il trasferimento ad altro fondo della propria posizione individuale.

   Ed è proprio a quest'ultima norma che gli attuali appellanti fanno riferimento, a sostegno della loro pretesa.

   Ma la sentenza ha "escluso l'applicabilità del disposto dell'art. 10 d.lgs. n. 124/93 (il cui testo coincide, per quanto qui rileva, con quello dell'art. 14 d.lgs. del 2005) ai fondi preesistenti regolati con il metodo c.d. a ripartizione, qual'è quello in oggetto", assumendo che "la peculiarità di tale forma di organizzazione … non rende direttamente ed immediatamente applicabile il diritto alla portabilità" (così, testualmente, a pag. 11).

   Detta affermazione resa dal Tribunale nella sentenza avverso la quale qui si ricorre è gravissima ed ingiusta.

   E' affermazione gravissima, perché implica una vera e propria spoliazione del diritto alla portabilità, che la norma, invece, non può non riconoscere anche ai lavoratori iscritti anche ai fondi preesistenti.   

   Al proposito vale la pena di ricordare, ancora una volta, che il diritto alla portabilità è un diritto di rilievo costituzionale (ex art. 38 Cost.), dato il raccordo "strutturale" che il d.lgs. n. 124, prima, e il d.lgs. n. 205, poi, hanno istituito tra la previdenza complementare – che pure mantiene la sua natura privata – e il sistema della previdenza sociale obbligatoria. E va altresì ricordato, al medesimo proposito, come il diritto alla portabilità della posizione individuale sia – per una ben precisa scelta del legislatore – l'interfaccia di un altro fondamentale diritto del lavoratore, quale è la libertà di adesione ai fondi di previdenza complementare: il disconoscimento in questione confligge, quindi, anche con il principio di libertà, caratterizzante, come è ben noto, l'intera, attuale disciplina della previdenza complementare.

   La conseguenza voluta dal Tribunale, inoltre e comunque, è ingiusta, perché non tiene conto del dato testuale: e, cioè, che l'art. 18, d.lgs. n. 124 del 1993 non include il suddetto art. 10 nell'elenco delle norme che non sono applicabili ai fondi preesistenti. E quanto testé osservato sulla rilevanza costituzionale della tutela previdenziale complementare vale anche a chiarire ampiamente, crediamo, la ratio di detta esclusione, e, dunque, della immediata applicabilità della disciplina della "portabilità", in questione.

17.- La sentenza avverso la quale qui si ricorre ritiene di poter trovare conforto al proprio assunto nella giurisprudenza di legittimità: precisamente in Cass., n. 17657/2002 (cui si è conformata la successiva sentenza n. 13111/2007) e in Cass. n. 5094/2008 (seguita negli stessi termini della sentenza n. 6042/2008).

   Quanto alla sentenza n. 17657/2002 della Suprema Corte, il Tribunale adduce, a sostegno della propria tesi (l'applicabilità dell'art. 10 d.lgs. n. 124 del 1993, soltanto ai fondi a capitalizzazione, alla cui categoria esclude che appartenga il Fondo CRR), la massima dalla stessa espressa. Recita, infatti, detta massima: "In tema di previdenza complementare, le tre opzioni previste dall'art. 10 d.lgs. 21 aprile 1993 n. 124 … si applicano all'intera posizione individuale, comprensiva di tutti gli accantonamenti …, per i fondi a capitalizzazione preesistenti, anche nel caso in cui gli statuti prevedono modalità di rimborso dei capitali difformi dalla norma legale".

   Così contenendosi, tuttavia, deve ritenersi che il Tribunale sia caduto in errore, non avendo tenuto conto:

a) che detto dictum è destinato al Giudice del rinvio, chiamato appunto a giudicare di un fondo a capitalizzazione (nella specie, come si ricava dalla narrativa in fatto, il Fondo era alimentato dalla contribuzione tanto dei lavoratori che del datore, e detta contribuzione veniva capitalizzata), sicché la Corte non poteva che far riferimento a detta caratteristica;

b) che anche il Fondo CRR prevede accantonamenti effettivi e la costituzione di riserve finanziarie (cfr. punti 6 e 8 del presente atto), sicché anche ad esso, volendo, potrebbe ben riferirsi quel dictum;

c) che, comunque, dalla motivazione di detta importante sentenza si ricava che l'art. 10, d.lgs. n. 124 del 1993 ha portata generale e "trova applicazione immediata" (così testualmente), espressamente ivi riconoscendosi che una diversa conclusione porterebbe alla sostanziale vanificazione della disciplina legale[15].

   Quanto alla sentenza n. 5094/2008, va innanzitutto osservato che la stessa si riferisce ad un fondo preesistente (il "Fondo di previdenza per i dipendenti di aziende commerciali e di spedizione e trasporto «Mario Negri»"), che ha caratteristiche del tutto particolari (basti dire che si tratta di un fondo intercategoriale) e, comunque – come espressamente la sentenza riferisce in motivazione -, versa in una situazione di crisi finanziaria.

   E' da ritenere, pertanto, che del tutto legittimamente detto Fondo sia  stato riconosciuto destinatario del regime di proroga previsto tanto dall'art. 18 d.lgs. n. 124 del 1993, quanto dell'art. 20, d.lgs. n. 252 del 2005, e, dunque, anche della facoltà di differire l'applicazione della disposizione di legge sulla "portabilità", in questione.

   Il Fondo CRR, viceversa, non rientra – come già sottolineato – tra i fondi preesistenti destinatari del regime di proroga: id est, di differimento dell'adeguamento alla disciplina generale.

   Deve, pertanto, riconoscersi, per coerenza, che il richiamo che, a proposito di quest'ultimo, il Tribunale ha effettuato a detta pronuncia della Suprema Corte è tutt'altro che pertinente.

   Inoltre, ad avviso di questa difesa, merita rilevare anche come la suddetta sentenza n. 5094/2008 – nonostante l'autorevolezza del Consesso che la ha pronunciata – oggettivamente risulti poco attendibile.

   Ed, invero, nell'apprezzare quanto in merito statuito dalla sentenza n. 17657/2002, detta più recente pronuncia incorre, innanzitutto, nella stessa parzialità di valutazione nella quale è incorso il Tribunale di Roma.

   Inoltre, è da ritenere che la Corte, in detta occasione, non abbia fatto buon uso di nozioni e distinzioni metagiuridiche, quali quelle che si riferiscono, rispettivamente, ai "fondi a ripartizione" e ai "fondi a capitalizzazione": si rinvia al punto 9 del presente atto.

   Ma, sopratutto, la Suprema Corte con detta sentenza ha giustificato, in via generale, una nozione di "gradualità", ai fini dell'adeguamento dei fondi preesistenti al principio di portabilità, che, a convinto avviso di questa difesa, deve ritenersi del tutto irrazionale (quanto meno se applicata a Fondi che, come il Fondo CRR, non versano in situazioni di squilibrio finanziario). Basti considerare che sono ormai passati oltre 16 anni (ed altri prevedibilmente ne passeranno, se continua così) dal momento in cui il legislatore ha riconosciuto, in via generale, detto diritto, e la previdenza complementare è entrata nella sfera dell'art. 38, comma 2, Cost. (cfr. punti 9 e 21 del presente atto).

18.- In proposito, la sentenza del Tribunale deve ritenersi inattendibile e contraddittoria, anche laddove disconosce il rilievo di fatti materiali che, viceversa, attestano per tabulas la concreta possibi­lità di computo del "valore" delle "posizioni previdenziali individuali" degli attuali appellanti.

   Ed, infatti, anche se il Tribunale lo contesta (ma con argomenti insufficienti, per effetto di una evidente, incompleta lettura degli atti di causa, come subito si potrà constatare), dalla do­cumentazione versata agli atti risulta chiaramente che detto calcolo non è impossibile, ma che, anzi, esso è stato in più occasioni realizzato dalla Banca controparte nel presente giudizio, e non solo da essa.

   Il calcolo delle "posizioni previdenziali individuali", infatti, è stato concretamente effettuato dall'Istituto bancario controparte una prima volta nel 1997, nel contesto della cessione di quarantuno propri sportelli alla Banca Antoniana Popolare Veneta. In tale occasione, a favore dei trenta dipendenti che, per effetto della cessione di tale ramo d'azienda, sono passati, ex art. 2112 c.c. alle dipendenze di detta Banca Antoniana, la Banca di Roma s.p.a. (all'epoca ancora Cassa di Risparmio di Roma) ha trasferito alla predetta Banca la somma di un miliardo e quarantuno milioni – corrispondenti ad attuali euro 538.148,00 -, quale controvalore, a quel momento, delle "posizioni previdenziali individuali" dei singoli interessati dal trasferimento, complessivamente considerate: una più che evidente, concreta manifestazione della possibilità di tradurre in termini monetari dette posizioni!

   Ma vi è di più. In quella stessa occasione, la Banca Antoniana Popolare Veneta, all'atto stesso del suddetto trasferimento di ramo d'azienda, si è impegnato, con accordo sindacale, a rispettare, negli anni a venire, nei confronti degli ex dipendenti della Cassa di Risparmio di Roma, il Regolamento del Fondo CRR[16]. Ebbene, sei anni dopo, e cioè nel 2003, detta Banca Antoniana, nell'esporre a bilancio lo stato del Fondo relativo agli ex dipendenti della Cassa di Risparmio di Roma – cioè, lo stato del Fondo CRR -, ha indicato come quell'originario importo (corrispondente, lo si ripete, all'insieme delle posizioni previdenziali individuali di detti ex dipendenti) nel frattempo fosse praticamente triplicato, passando da euro 538.148,00 ad euro 1.453.000,00[17].

   Quanto sopra significa, inequivocabilmente, che il criterio di alimentazione finanziaria del Fondo CRR non poteva tecnicamente essere quello della "riserva matematica" (quale ritenuto, invece, dal Tribunale), perché altrimenti l'originario importo avrebbe dovuto diminuire, e non già aumentare, man mano che i singoli interessati si sono avvicinati alla pensione, o hanno raggiunto l'età pensionabile.

   Il suddetto incremento nel tempo della consistenza finanziaria del Fondo CRR, dunque, va imputato, al di là di ogni possibilità di dubbio, al puntuale adempimento da parte della Banca Antonveneta degli obblighi contributivi stabiliti dal Regolamento di detto Fondo. Ma tale incremento è, nel contempo, dimostrazione indiretta ed irrefutabile sia dell'inadempimento della Banca di Roma s.p.a., sia e comunque del fatto che è possibile ricostruire, ora per allora, la consistenza patrimoniale del Fondo stesso. Ed è anche dimostrazione che gli accantonamenti in questione sono da intendere come la risultante del "valore" (o, per usare un termine corrente, lo "zainetto") di pertinenza di ciascun singolo iscritto.

   La contestazione da parte del Tribunale della rilevanza nella presente causa della suddescritta vicenda relativa alla Banca Antoniana risulta, dunque, priva di ogni consistenza, in quanto fondata su argomenti incompleti e contraddittori, e comunque frutto di un sommario, errato apprezzamento della specifica vicenda e dei dati ad essa relativi.

   Oltretutto, non è questo l'unico episodio che il Tribunale ha indebitamente trascurato al proposito. Analogo calcolo, infatti, è stato effettuato dall'Istituto bancario attuale appellato, quando si è trattato del riscatto o del trasfe­rimento delle posizioni maturate presso detto Fondo CRR da parte di 24 dirigenti della allora Cassa di risparmio di Roma, come da documentazione in atti.

   E, comunque (cfr. ancora documentazione in atti), analogo calcolo è stato effettuato correntemente dalla Banca di Roma s.p.a., tutte le volte in cui si è trattato (e non sono stati pochi i casi) di determinare, in esito a specifica richiesta dei singoli interessati, gli oneri di riscatto di anzianità convenzionali.

19.- Quanto fin qui sostenuto in merito alla quantificazione della "posizione previdenziale individuale" e alla sua portabilità, è da ritenere valido anche per l'ipotesi in cui dovesse farsi riferimento al d.lgs. n. 252 del 2005, anziché (come qui si sostiene) al d.lgs. n. 124 del 1993.

   Ai sensi dell'art. 14, comma 6, d.lgs. n. 252 del 2005, infatti, "de­corsi due anni dalla data di partecipazione ad una forma pensioni­stica complementare l'aderente ha facoltà di trasferire l'intera posi­zione individuale": cioè acquisisce il diritto alla "portabilità" della stessa.

   Alla luce della suddetta disposizione – ma già di quella di cui all'art. 18, d.lgs. n. 124 del 1993 -, si evidenza (come già eccepito in prime cure) il vizio che inficia l'art. 36 dello Statuto del Fondo BDR, nella parte in cui stabilisce che ad esso possano iscriversi solo: "a) i dipen­denti che, all'entrata in vigore del presente Statuto, non risultino iscritti al Fondo pensione per il personale della Banca e che vantino periodi di occupazione anteriori al 28 aprile 1993; b) i dipendenti che non vantino periodi di occupazione anteriori al 28 aprile 1993".

   Infatti, detta clausola contrattuale – che sembra fatta apposta per pe­nalizzare i dipendenti che si trovano nella condizione degli at­tuali appellanti, e, dunque, per discriminarli – deve ritenersi nulla per illiceità, contrarietà a norme imperative, o comunque illegittima e/o inefficace.

   Essa, infatti, produce effetti discriminatori, e comunque si pone in netto contrasto con il dettato legislativo, giacché illegittimamente li­mita la portabilità delle posizioni individuali maturate presso il Fondo CRR, e, quindi, la realizzazione dell'interesse degli iscritti a godere di posizione previdenziale integrativa, costituita, sì, in epoca risalente, ma ormai divenuta di rilievo costituzionale (v. sopra, punto 3, ed, ap­presso, punto 21).

   Né si potrebbe far discendere l'inapplicabilità di detta norma, dal fatto che l'art. 20, comma 2, di quello stesso decreto, per l'adeguamento dei "fondi preesistenti" alla disciplina generale, rinvia ai criteri che dovranno essere dettati da emanandi decreti ministeriali "concertati".

   Infatti, come si ricava dal comma 1 di quella stessa norma, l'operatività anche per i "fondi preesistenti" della disciplina generale (salve le disposizioni espressamente eccettuate, tra le quali non figura la norma sulla "portabilità", di cui al succitato art. 14)  è immediata (cfr., ancora una volta, Cass. n. 17657/2002).

   "Fino alla emanazione del decreto di cui al comma 2, alle forme pensionistiche complementari istituite alla data di entrata in vigore della legge 23 ottobre 1992 n. 421, non si applicano gli articoli 4, comma 5, e 6, commi 1, 3 e 5", recita la norma in questione. E tale formulazione lascia chiaramente intendere che, per le modalità di ap­plicazione delle norme richiamate, occorre attendere le disposizioni dell'emanando decreto ministeriale. Invece, tutte le altre disposizioni del medesimo decreto legislativo, non espressamente menzionate (e, quindi, anche l'art. 14) trovano immediata applicazione.

    Ciò significa, ancora, che il legislatore, nell'ambito dei suoi sovrani poteri di scelta, ha inteso che l'adeguamento dei "fondi preesistenti" (non in squilibrio finanziario) alla nuova disciplina avvenisse per gradi e in due tappe: per un primo gruppo di disposizioni, particolar­mente caratterizzanti, in via immediata e diretta; per un secondo gruppo o, comunque, in seconda battuta, "secondo i criteri, le moda­lità e i tempi stabiliti, anche in relazione alle specifiche caratteristiche di taluna delle suddette forme, con uno o più decreti del Ministro dell'economia e delle finanze di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, sentita la COVIP" (comma 2).

   E' chiaro, per altro verso, che una norma secondaria (quale quella di cui al decreto ministeriale, oggetto di rinvio: in concreto e nella spe­cie, il d.m. n. 62 del 2007, del quale appresso specificamente si dirà), non potrebbe disporre in maniera diversa da quanto, al medesimo pro­posito, dettato dalla norma primaria.

20.- Il decreto ministeriale 10 maggio 2007 n. 62, destinato all'attuazione dell'art. 20, d.lgs. n. 252 del 2005 – entrato in vigore a giugno 2007 -, così dispone all'art. 3, primi due commi (sottolineature aggiunte):

   "I fondi pensione preesistenti adeguano i propri statuti alle disposi­zioni in materia di organizzazione e funzionamento di cui agli articoli 5, 8, 11 e 14 del decreto legislativo 5 dicembre 2005 n. 252, salvo le specifiche deroghe previste dal decreto" (comma 1). "Nel caso di fondi preesistenti a prestazione definita, ovvero in altri casi partico­lari in funzione della specificità dei fondi, la COVIP può consentire ai predetti fondi specifiche deroghe alle disposizioni di cui al comma 1 in funzione di esigenze relative all'equilibrio tecnico del fondo, al ri­spetto del criterio di sana e prudente gestione e alla tutela degli inte­ressi degli iscritti, ivi incluso il contenimento dei costi" (comma 2).

   Il Fondo CRR (e per esso la Banca) non ha chiesto alcuna deroga a COVIP: non ne avrebbe avuto motivo, stanti le floride condizioni, delle quali si è già riferito.

   Non vi è motivo alcuno per far riferi­mento al comma 2 della suddetta disposizione ministeriale (le altre di­sposizioni di deroga, contenute nell'art. 5 del decreto, parimenti non rilevano, riguardando materie e aspetti estranei a quelli in contesta­zione nella presente controversia).

   Quanto dettato dal comma 1 di quella medesima disposizione mini­steriale, d'altra parte, è di immediata operatività. Il decreto ministe­riale, infatti, nei casi in cui ha ritenuto ammissibile il differimento dell'adeguamento a una o più disposizioni dettate dalla disciplina di legge, lo ha espressamente enunciato: emblematici, al proposito, sono i commi 5 e 6 del relativo art. 5[18].

   Da quanto sopra consegue, dunque, a ben considerare, che il decreto ministeriale in ri­ferimento non può rappresentare un ostacolo al riconoscimento del di­ritto degli attuali appellanti. Il mancato adeguamento dello Statuto del Fondo CRR a quanto da esso prescritto potrà rilevare ad altri fini (provvedimenti sanzionatori di COVIP o altro), ma non potrà certo pa­ralizzare diritti primari – riconosciuti in via generale, e, dunque, anche agli iscritti a "fondi preesistenti" -, quali quelli previdenziali.

   Ne consegue, che, anche ove (in denegata ipotesi) dovesse discono­scersi il fondamento di quanto argomentato sub punto 19, che precede, dovrebbe comunque ritenersi l'immediata applicazione (anche) dell'art. 14, d.lgs. n. 252 del 2005 alla fattispecie (che è quanto qui specificamente interessa), stante l'avveramento della condizione (emanazione del decreto ministeriale), posta dall'art. 20 di quel de­creto. E' irrilevante, allo specifico fine, la succes­siva inerzia del destinatario dei relativi precetti.

   Quanto testé argomentato, comunque, resta assorbito, ad avviso di questa difesa, dal fatto che il decreto mi­nisteriale in riferimento deve ritenersi illegittimo, per le ragioni che qui brevemente si espongono (riservata successiva, più ampia illustra­zione, occorrendo, una volta note le difese avversarie).

   Detto decreto ha provveduto, senza tener conto del fatto che il comma 1 dell'art. 20, del d.lgs. n. 252 del 2005 ha differito alla data di emanazione del decreto stesso l'applicazione ai fondi preesistenti della disciplina di legge, soltanto limitatamente ad alcune disposizioni (precisamente, quelle di cui agli artt. 4, comma 5, e 6, commi 1, 3 e 5): implicitamente dichiarando, così, tutte le altre disposizioni imme­diatamente operative.

   Tale ingiustificata omissione, imputabile al decreto ministeriale,  risulta inequivocabilmente dal "pre­ambolo" del suddetto, nel quale si fa rife­rimento al comma 2, ma non al comma 1. D'altra parte, nel corpo del disposto normativo, detto decreto ministeriale fa espresso riferimento (si veda in particolare, l'art. 3, comma 1) a disposizioni del decreto legi­slativo diverse da quelle suindicate, e dal medesimo considerate.

   Il dettato normativo del decreto ministeriale in riferimento, dunque, deve considerarsi illegittimo, per un verso, in quanto falsato da detta omessa considerazione; per un altro verso e correlativamente, per aver disposto non in conformità delle norme di legge autorizzataria.

    Ed, infatti, nel dettare – secondo quanto previsto dal comma 2, dal d.lgs. n. 252 del 2005 – "i criteri, le modalità e i tempi" di adeguamento dei fondi pree­sistenti alle disposizioni di quel decreto legislativo, non risulta che detto decreto ministeriale abbia tenuto conto della immediata operati­vità (di parte) di quelle disposizioni, così come già accordata dal comma 1 di quella medesima norma di legge.

    In conclusione e riassumendo: detto decreto ministeriale non è rife­ribile alla fattispecie della quale qui si discute, e, nella denegata ipo­tesi in cui si dovesse ritenere il contrario, esso andrebbe comunque di­sapplicato, stanti le ragioni di illegittimità suindicate.

*

Eccezione di incostituzionalità parziale degli artt. 10 e 18,

d.lgs. n. 124 del 1993, e 14 e 20, d.lgs. n. 252 del 2005,

in riferimento agli artt. 3 e 38, comma 2, Cost.

21.- Ogni diversa interpretazione – e, sicuramente, quella sommini­strata dal Tribunale nella sentenza che qui si impugna – appare desti­nata a confliggere, a convinto avviso di questa difesa, con i precetti di cui agli artt. 3 e 38, comma 2, Cost.

   E' per questo motivo che, in via subordinata, si prospetta qui la que­stione di costituzionalità, in riferimento ai suddetti parametri:

a) degli artt. 10 e 18, d.lgs. n. 124 del 1993 e degli artt. 14 e 20 del d.lgs. n. 252 del 2005, nelle parti in cui debba ritenersi che dette norme escludono che gli iscritti a "fondi preesistenti" (cioè, costituiti in data anteriore all'entrata in vi­gore della legge n. 421 del 1992) possano avvalersi della "portabilità" della posizione previdenziale, alla stessa stregua degli iscritti agli altri fondi, e, quindi, possano esercitare, alla pari dei suddetti, ricorrendone le condizioni, le opzioni per il riscatto o per il trasferimento ad altro fondo, previa determinazione del "valore" delle rispettive posizioni previdenziali individuali;

b) dell'art. 18, d.lgs. n. 124 del 1993 e dell'art. 20, d.lgs. n. 252 del 2005, nella parte in cui debba ritenersi che dette norme, consentendo tuttora la differibilità (ad oltre 16 anni dal riconoscimento per legge della specifica prerogativa) dell'adeguamento dei fondi preesistenti alle disposizioni di cui, rispettivamente, all'art. 10, d.lgs. n. 124 del 1993 e all'art. 14, d.lgs. n. 252 del 2005, di fatto vanificano, o comunque gravemente menomano, il diritto alla portabilità delle posizioni previden­ziali individuali degli iscritti a detti fondi, e, conseguentemente, mortificano il diritto dei medesimi alla realizzazione di una piena tutela pre­videnziale.

   Dette questioni sono da ritenere non manifestatamente infondate, atteso che la previdenza complementare è divenuta strutturalmente parte integrante del sistema previdenziale, e che, dunque, anche attra­verso di essa si realizza, oggi, la garanzia di cui all'art. 38, comma 2, Cost. (cfr. Corte cost. n. 427 del 1990; n. 421 del 1995; n. 292 del 1997; n. 178 del 2000; n. 393 del 2000). E la deprivazione degli iscritti ai "fondi preesistenti" del diritto alla "portabilità", o comunque l'incertezza circa tempi e modi delle concrete possibilità di esercizio di detto diritto – a ben 16 anni, lo si ripete, dal suo riconoscimento per legge -, conseguenti alla subordinazione del medesimo ad ini­ziative discrezionali di terzi, differibili nel tempo senza scadenze pre­determinate, implicano (se realmente da ascrivere a dette norme di legge) la mortificazione della tutela garantita da quella disposizione costituzionale. Esse implicano, inoltre e comunque, una irrazio­nale disparità di trattamento – censurabile in riferimento all'art. 3 Cost. -, rispetto agli iscritti agli altri fondi, regolati in via generale dalla legge.

   Sia pur riferendosi a situazione diversa – ma con palesi analogie con quella in riferimento – Corte cost. n. 30 del 2004 ha di recente ribadito che, "mentre non esiste un principio costituzionale che possa garan­tire l'adeguamento costante delle pensioni al successivo trattamento economico dell'attività di servizio corrispondente, l'individuazione di meccanismi che assicurino la perdurante adeguatezza delle pensioni è riservata alla valutazione discrezionale del legislatore, operata sulla base di un «ragionevole bilanciamento del complesso dei valori e de­gli interessi costituzionali coinvolti (…), compresi quelli connessi alla concreta e attuale disponibilità delle risorse finanziarie e dei mezzi necessari per far fronte ai relativi impegni di spesa» (sentenza n. 119/1991; nello stesso senso, cfr. ordinanza n. 531/2002; sentenza n. 457/1998 e n. 226/1993), ma con il limite, comunque di assicurare «la garanzia delle esigenze minime di protezione della persona» (sentenza n. 457/1998)".

   Ed, in effetti, come la Corte ha più volte riconosciuto (cfr. Corte cost. n. 96 del 1993; n. 119 del 1993; n. 121 del 1993; n. 361 del 1996) sussiste un collegamento diretto tra art. 36 e art. 38 Cost.

   Nella specie, l'impossibilità di "valorizzare" la posizione previden­ziale accesa (e per lungo tempo coltivata) presso il "fondo preesi­stente" (Fondo CRR), e l'impossibilità di farne oggetto di riscatto o di trasferimento ad altro Fondo, implicano una grave ed irrazionale me­nomazione delle possibilità di godere della garanzia assicurata dall'art. 38, comma 2, Cost.; cioè di conseguire una prestazione "ade­guata", alle stesse condizioni generali che valgono per tutti gli altri iscritti a fondi di previdenza privata, parimenti regolati dalla legge.

   E detta menomazione appare tanto più grave ed ingiusta, se si consi­dera che la costituzione della forma di previdenza, della quale qui si discute, e il relativo assetto contributivo hanno scontato, nel tempo, come è intuitivo, un corrispondente contenimento del trattamento re­tributivo diretto, dall'Istituto bancario accordato ai propri dipendenti. E' scontato, infatti, che agli oneri contributivi che il datore di lavoro si è accollato per alimentare la previdenza complementare aziendale ha materialmente corrisposto un contenimento del trattamento retributivo riconosciuto ai medesimi; o, se si preferisce, che detto trattamento re­tributivo avrebbe sicuramente avuto motivo di essere di più elevato li­vello, ove il datore di lavoro non si fosse impegnato ad erogare ai pro­pri dipendenti quella specifica forma di tutela previdenziale aziendale.

   La questione è rilevante, atteso che l'esito della presente causa di­pende (anche) dall'applicazione delle suddette norme di legge.

   Comunque, fin d'ora si chiede l'autorizzazione al deposito di note, al fine di illustrare più ampiamente – ove se ne ravvisi l'opportunità, una volte note le difese di controparte, e in relazione al tenore di esse – la qui sollevata eccezione di illegittimità costituzionale.

*          *          *

      Per le ragioni tutte di cui sopra – integrate dall'eccezione, che qui si formula, di nullità della notifica della sentenza impugnata, in quanto effettuata in unica copia, nonostante la pluralità dei destinatari (Cass. n. 8639/2002), e dal richiamo, in toto, di dedu­zioni, eccezioni e richieste anche subordinate (anticipazioni e opzioni ex artt. 11 e segg. d.lgs. n. 252 del 2005, comprese) e istruttorie, avanzate negli atti difensivi di primo grado, nessuna esclusa -, si rassegnano le seguenti

conclusioni

   "Voglia codesta Corte, ogni contraria istanza disattesa, in accogli­mento del presente gravame e, dunque, in riforma dell'impugnata sentenza del Tribunale di Roma, indicata in epigrafe, accogliere integralmente o, even­tualmente, in parte, le domande proposte in ricorso dagli attuali ap­pellanti in via principale, o, in denegata ipotesi, quelle proposte in via subordinata;

previa, se del caso – ritenuta la non manifesta infondatezza, in riferi­mento agli artt. 3 e 38, comma 2, Cost, dell'eccezione di legittimità co­stituzionale degli artt. 10 e 18, d.lgs. n. 124 del 1993 e degli artt. 14 e 20, d.lgs. n. 252 del 2005, nelle parti in cui dette norme (se vera l'interpretazione che ne danno il Tribunale e le controparti) escludono o comunque irrazionalmente differiscono la possibilità, per gli iscritti ai fondi preesistenti, di esercitare in concreto il diritto alla "portabilità" delle posi­zioni previdenziali individuali, pur riconosciuto, in via di principio, dalla vigente legislazione -, adozione del provvedimento di sospensione del presente giudizio, con rimessione degli atti alla Corte costituzionale per il sindacato in­cidentale di competenza;

in ogni caso, con vittoria di spese e competenze di entrambi i gradi, e distrazione".

In via istruttoria

attesa la contestazione degli importi da parte della Banca, si rinnova la richiesta che venga disposta consulenza tecnica d'ufficio, per il cal­colo del valore delle posizioni previdenziali individuali degli attuali appellanti, in subordine anche ai fini di cui all'art. 2123, comma 2, c.c.

*

   Si allegano: 1) scheda di riepilogo delle operazioni societarie del Gruppo Unicre­dit; 2) Regolamento 1953 Fondo CRR;  3) Tabella di conversione di capitale in rendite ex art. 20 Regolamento 1971.

   Si depositano: a) copia autentica della sentenza impugnata; b) n. 16 fascicoli, ante riunione, componenti il fascicolo del precedente grado di giudizio.

*          *          *

Istanza di riunione

   Atteso che il presente gravame fa parte di un gruppo di ri­corsi proposti negli stessi tempi avverso altrettante sentenze del Tri­bunale di Roma, notificate da con­troparte tutte nello stesso periodo, ed aventi ad oggetto le medesime que­stioni, e precisamente, le sentenze n. 11870/08, n. 11871/08, n. 11873/08, n. 11869/08 e n. 11872/08, n. 16333/08,

si chiede

che l'Illustrissimo Presidente della Sezione lavoro di codesta Corte voglia provvedere al fine della riunione di detti procedimenti.

*

   Seguono, in fogli distinti, da considerare parte integrante del presente atto, le procure speciali degli appellanti.

   Roma, 29 aprile 2009

                                                           avv. prof. Maurizio Cinelli

                                                           avv. Carlo Alberto Nicolini


[1] Vedasi, infatti, il testo regolamentare del 1953 (art. 9): "Il contributo a carico del lavoratore è fissato nella misura del 4%, comprensivo di quello dovuto dal lavoratore stesso per l'assicurazione obbligatoria di invalidità e vecchiaia".

[2] Può essere interessante notare che, nel testo a stampa – datato 1980 (in atti) – del Regolamento, del Fondo CRR, quale definito dell'Accordo del 1976, figura ancora, sub art. 7, il termine "comprensivo" (cfr. doc. in atti), nonostante che il medesimo – come si è ricordato – fosse stato sostituito con il termine corretto già dal 1971; il che non può che avvalorare, come sembra a questa difesa, l'esigenza di "leggere" la corrispondente disposizione relativa alla contribuzione dei dipendenti nel senso indicato nel testo.

[3] Già nel 1971 l'aliquota dei contributi INPS si aggirava (seppure nell'ambito di "massimali") intorno al 18%. Non può, quindi, essere riconosciuto alcun fondamento razionale (lo si anticipa qui) all'assunto di controparte – evidentemente condiviso dal Tribunale -, secondo il quale il contributo del 21% (poi del 15%) di cui all'art. 7 del Regolamento serviva a coprire non soltanto i trattamenti integrativi di quiescenza, ma anche gli esborsi, nonché la quota di contribuzione INPS gravante sul datore di lavoro, e persino l'indennità di anzianità: e ciò nonostante che l'obbligo relativo a quest'ultima sia palesemente venuto meno da tempo, per effetto della legge n. 297 del 1982.

[4] Giacché nella Relazione che ha accompagnato detta proposta si fa riferimento alla già intervenuta trasformazione della contribuzione al Fondo da "comprensiva" a "aggiuntiva" di quella dell'INPS, della quale si è detto sopra, si ritiene opportuno trascrivere qui, nella sua integrità, detta Relazione."Le disponibilità con le quali il Fondo di quiescenza aziendale per il personale del credito assicura le prestazioni a favore degli aventi diritto sono costituite, tra l'altro, dal contributo ordinario versato al Fondo stesso da parte della Cassa. Tale contributo, inizialmente comprensivo di quello dovuto all'INPS, e successivamente aggiuntivo di quest'ultimo, è attualmente stabilito nella misura del 21% delle retribuzioni. Un recente studio del Consulente attuario esterno (atti segr. prot. n. 84), volto a verificare la congruità di tale contributo medio di equilibrio annuo per il trattamento di previdenza a favore del personale, ha determinato nella più contenuta misura del 15% la percentuale ottimale per assicurare l'effettiva e prudenziale copertura degli impegni a carico della Cassa. Ciò anche per effetto dell'applicazione dell'art. 21 della legge 11 marzo 1988 n. 67, c.d. «legge finanziaria», che, con l'abolizione del tetto pensionistico, ha consentito di calcolare la misura delle pensioni a carico dell'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti dei lavoratori dipendenti, anche sulla retribuzione imponibile eccedente il limite massimo previsto dalle norme previgenti. Tale nuova previsione legislativa ha determinato automaticamente minori oneri per il Fondo aziendale con riferimento al trattamento pensionistico integrativo riguardante il personale con più elevati livelli retributivi. Si propone pertanto di ridurre, a partire dal corrente anno 1988, dal 21% al 15% delle retribuzioni pensionabili, la misura del contributo annuo ordinario che la Cassa deve versare al Fondo aziendale per il trattamento di quiescenza a previdenza del personale del credito. Il provvedimento proposto comporterebbe un minore onere annuo a carico del conto economico dell'Istituto preventivabile in L. 9.850 milioni c.a.".

[5] Il fatto che per detti fondi fosse prevista una separazione amministrativo-contabile rispetto alla restante parte del patrimonio aziendale, infatti, non era sufficiente ad evitare che, in caso di fallimento, i dipendenti beneficiari di quei fondi si trovassero a dover intervenire nella procedura concorsuale alla stessa stregua di tutti gli altri creditori (cfr. U. Romagnoli, Natura giuridica dei fondi di previdenza, in Riv. trim dir. e proc. civ., 1960, p. 858 ss.).

[6] In particolare, tanto risulta, ad esempio, dal bilancio del 1974 (ma altrettanto vale per i bilanci degli anni successivi, ed almeno, a quanto consta, fino al 1982). Può leggersi, infatti, nella Relazione della Direzione generale della Cassa per l'esercizio 1974, quanto segue: "Gli «immobili» (L. 29.950.941.296) comprendono fabbricati ad uso ufficio per L. 17.742.210.557 e per L. 8.353.411.978 quelli relativi al Fondo di quiescenza"; e nell'allegato prospetto, sotto la voce "Immobili", quanto segue: "Sono costituiti da – immobili ad uso dell'azienda per 47.974.151.816; – immobili ad altro uso per 8 miliardi 497.861.446; – immobili per investimento del fondo di quiescenza del Personale – ramo credito per 12.164.121.759".

[7] Non può ritenersi esatta, dunque, la definizione fornita al proposito da Cass. n. 5094/2008 (e richiamata dalla qui impugnata sentenza), secondo la quale nel fondo a prestazione definita "l'ammontare della prestazione è determinato in funzione di particolare parametri, e non è strettamente connesso all'ammontare dei contributi versati, poiché, parte della contribuzione serve a finanziare le prestazioni; in tali fondi prevale, sulla corrispettività individuale, la funzione solidaristica". In realtà risultano impropriamente mescolati, in tal modo, concetti eterogenei, trascurando, in particolare, che detta classificazione, interna al d.lgs. n. 124 del 1993, attiene pur sempre a regimi a capitalizzazione; donde, ad avviso di questa difesa, l'inattendibilità, sul punto, di detta pronuncia (si rinvia, comunque, per più ampi ragguagli, al punto 17 del presente atto).

[8] In realtà, detta dizione, giusto quanto previsto dal d.lgs. n. 124 del 1993 e successive modificazioni, presuppone una fondo "a capitalizzazione", in senso proprio.

[9] Gli apporti straordinari, effettuati occasionalmente e discrezionalmente dalla Banca, non valgono, certo, a supplire detta carenza.

[10] E' questa, infatti, la caratteristica che la già più volte ricordata Cass. n. 5094/2008 giudica distinguere i fondi a ripartizione dai fondi a capitalizzazione (si rinvia ancora al punto 17 del presente atto).

[11] Salvo il caso di quei fondi preesistenti che vengono a trovarsi in una documentata situazione di crisi; che non è, però, per quanto si è già esposto e meglio si illustrerà appresso, il caso del Fondo CRR.

[12] E' evidente che dette difficoltà di computo sono diverse, a seconda che si tratti di fondi a capitalizzazione su conti individuali, oppure di fondi di diverso genere e struttura; ma ciò non vale ad escludere la possibilità (della quale qui si discute) di quantificare il "valore".

[13] La regolamentazione "eteronoma" da parte del legislatore, conseguente all'attivazione della previdenza complementare nell'arco dell'art. 38, comma 2, Cost., d'altra parte, è bidirezionale: basti considerare ai riflessi dell'art. 11, d.lgs. n. 503 del 1992, in tema di perequazione automatica; alle modifiche apportate alla disciplina dei fondi preesistenti dall'art. 15, legge n. 335 del 1995; alla parificazione della decorrenza delle pensioni complementari a quella delle pensioni del regime obbligatorio, ai sensi dell'art. 59, comma 3, legge n. 449 del 1997. Se tali interventi hanno "giocato" in negativo per gli iscritti ai "fondi preesistenti", l'applicazione a detti fondi dei principi dettati per la disciplina generale della previdenza complementare (tra i quali il computo in "conti di accumulo" delle disponibilità e la "portabilità") è da ritenere che rappresenti, per gli stessi, fattore di bilanciamento "in positivo".

[14] In termini, è la delibera COVIP 15 febbraio 2001, riferita dalla circolare COVIP 17 gennaio 2008 anche alla disciplina ex d.lgs. n. 252 del 2005.

[15]Appare opportuno trascrivere qui i brani salienti, sul punto, di detta sentenza n. 17657/2002 (sottolineature, aggiunte). "Sul piano dell'interpretazione letterale, si deve notare che le opzioni previste dall'art. 10, tra cui il riscatto, e cioè il rimborso delle quote versate, riguardano la posizione individuale, quale risulta dai finanziamenti indicati dal precedente art. 8, e cioè, sia del lavoratore, sia del datore di lavoro. La successiva precisazione dell'art. 3 bis, introdotto dall'art. 10, l. 8 agosto 1995 n. 335, secondo cui deve trattarsi dell'intera posizione individuale, è, su tale punto, meramente esplicativa, e non innovativa, perché tale norma si limita a consentire il trasferimento della posizione individuale ad altro fondo pensione anche al di fuori delle condizioni di cui ai commi precedenti (e cioè ai fondi c.d. aperti oltre che ai fondi chiusi). E poiché la legge considera le tre opzioni (trasferimento ad altro fondo pensione, trasferimento ad uno dei fondi c.d. aperti di cui all'art. 9 e riscatto) paritetiche e volontarie, il riferimento alla posizione individuale non può che essere sempre intesa come riferimento alla medesima intera posizione individuale. Sul piano dell'interpretazione funzionale, rileva il profondo mutamento di prospettiva e di ruolo che la legge delega 23 ottobre 1992 n. 421, e la successiva attuazione ad opera del d.leg. 21 aprile 1993 n. 124, hanno portato nel sistema della tutela pensionistica complementare viene a fare parte integrante". Quanto, poi, alla validità temporale della norma, detta sentenza testualmente afferma che "l'art. 10 trova applicazione immediata, il che significa che, con l'entrata in vigore del d.leg. 124/93, gli iscritti ai fondi preesistenti devono poter contare sulla triplice opzione prevista da tale norma, tra cui il riscatto. La norma legale che afferma tale diritto si sostituisce ad eventuali difformi clausole statuarie, ai sensi dell'art. 1339 c.c. E' ben vero che le misure, modalità e termini di esercizio del diritto di opzione devono essere stabilite dallo statuto del fondo, ma, non essendo posto alcun termine, a tale potestà, si applica il principio quod sine die debetur statim debetur, nel senso che tali modalità di esercizio del diritto di opzione, da stabilire al più presto, retroagiscono al momento in cui la legge conosce il diritto agli iscritti, ai sensi del combinato disposto degli art. 10 e 18 d.leg. 124/93. Peraltro, lo stesso art. 10, 3° comma, debbono essere effettuati entro il termine di sei mesi dall'esercizio dell'opzione. Opinare diversamente significherebbe consentire ai fondi, con la loro eventuale inerzia nel modificare gli statuti, di disattendere la norma legale, e ciò, ancora una volta, contro il tenore testuale dell'art. 18, che pone termini precisi per le modifiche statutarie, quando necessarie per l'entrata in vigore delle specifiche disposizioni indicate dallo stesso art. 18".

[16] Si legge nell'Accordo Antonveneta (documento in atti) quanto segue: "Con gli accordi del 21 e del 25 marzo 1997 la Banca Antoniana Popolare Veneta si è assunta l'impegno ad assicurare al personale proveniente dalla ex Cassa di Risparmio di Roma il trattamento disciplinato dal Regolamento di cui all'Accordo aziendale 30 luglio 1971 e successive modifiche, e, più precisamente, quanto al personale delle aree professionali, l'applicazione del suddetto Regolamento nei termini vigenti alla data della cessione, quanto al personale direttivo lo stesso trattamento previdenziale che avrebbe percepito presso la Banca alienante".

[17] Come dedotto e documentato in prime cure, nel contesto della cessione di quarantuno sportelli alla Banca Antoniana Popolare Veneta ai sensi dell'art. 2112 cod. civ., la Banca di Roma ha trasferito la somma di 1 miliardo e 42 milioni (pari a 538.148,00 euro). Si legge testualmente nel documento agli atti (stralcio bilancio Banca Antoniana Popolare Veneta): "b) Fondo di quiescenza del Personale (dipendenti ex Cassa Risparmio di Roma). Nell'ambito dell'operazione di acquisizione di n. 41 sportelli dalla Banca di Roma, attuata nel 1997, si è tra l'altro verificato il passaggio da quell'Istituto alla nostra Banca di n. 30 dipendenti ex Cassa di Risparmio di Roma e, come tali, iscritti al «Fondo di quiescenza» presso quest'ultimo costituito. La Banca di Roma (ora Capitalia), nata come è noto dalla fusione tra la Cassa di Risparmio di Roma, il Banco di Roma ed il Banco di S. Spirito, è subentrata pertanto nella conduzione del Fondo, e ha proceduto, in occasione della richiamata operazione di vendita dei 41 sportelli, a qualificare in lire 1.042 milioni la «riserva matematica» di pertinenza dei n. 30 dipendenti ceduti, trasferendola alla nostra Banca nell'intesa che venissero così garantiti i trattamenti previsti dal regolamento originario del Fondo, la cui prestazione consiste in un'erogazione integrativa di quella corrisposta dall'INPS, sino al raggiungimento di una corresponsione annua complessiva pari al 75% dell'ultima retribuzione pensionabile percepita dall'iscritto». A questa dichiarazione segue un Rendiconto in cui si legge:

"- La consistenza del fondo al 31.12.2002 era di (euro)          1.332

– Nel corso dell'esercizio sono state effettuate erogazioni           –

– A fine esercizio il fondo è stato integrato con contribuzione

da parte della Banca per (euro)                                                    1.453"

[18] Tre anni per l'adeguamento a quanto disposto dall'art. 6, comma 13, del decreto; cinque anni per l'adeguamento di quanto disposto dagli altri commi dell'art. 6, e dell'art. 7 del medesimo decreto n. 252 del 2005.

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