firmacontrattodi Renato Strumia

Il ragionamento sul contratto non può prescindere né dal contesto in cui si è svolto, né dalla vicenda dell’ultimo precedente rinnovo, che esponeva le segreterie al rischio di un nuovo e pesante flop. Lo sviluppo degli avvenimenti è stato per certi aspetti sorprendente, non era scontato né attendersi uno scontro vero (che invece in certi momenti è andato in scena non solo per finta), né una conclusione che per quanto mi riguarda è ben riassunta dal titolo “contratto prorogato” (nel bene e nel male, checché ne dica “Infoaut”).

Le banche questa volta sembravano decise ad andare fino in fondo, “cambiando verso” ad una storia di concertazione sociale “da manuale” che aveva permesso di gestire, per circa 15 anni, oltre 50.000 esodi con un patto da gentlemen, all’insegna del “non facciamoci del male”. I sindacati invece  non riuscivano a credere all’evidenza, cioè a farsi una ragione del fatto che la pacchia potesse essere finita e che le cose andassero riconquistate ripartendo da zero, cominciando proprio dal loro diritto a trattare (che avevano sempre considerato acquisito in via definitiva). Per riuscire a portare a casa la pelle, cioè a ripristinare lo status quo, questa volta è stato necessario battersi o perlomeno minacciare di farlo in modo serio e organizzato, peraltro riuscendoci abbastanza bene e a volte anche oltre i prevedibili esiti.

Il rinnovo del contratto, se visto alla luce della situazione del primo semestre 2013,  poteva essere immaginato in forma molto diversa: nel CCNL 19.1.2012 le banche avevano ottenuto quasi tutto, senza colpo ferire. I sindacati avevano persino truccato le carte per sostenere di avere il consenso a firmare un bidone. L’orchestrazione delle assemblee, il tentativo di sterilizzare la Campania e la Liguria ribelli, il rinvio alle calende greche delle assemblee nel Lazio, per evitare esiti letali, la generale mistificazione dei risultati non verificabili, avevano alla fine portato ad un risultato addomesticato presentabile (60-40%), ma poco credibile.

Al rinnovo del contratto era seguito il tradizionale riassorbimento della FISAC dissidente (che, nella più classica tradizione CGIL, ha considerata chiusa l’esperienza, una volta esaurita, e ha ricontrattato il riposizionamento interno), e la normalizzazione accelerata della Unisin-Falcri, ansiosa di riaccreditarsi come soggetto affidabile per il 1^ tavolo.  Del Comitato per il No è rimasto in piedi,  isolato e ignorato,  solo lo spezzone CUB-SALLCA.

Si poteva quindi pensare che ABI avrebbe “capitalizzato la capitolazione” dei sindacati anche per il rinnovo successivo, quello che si è appena concluso. In fondo in tutti i gruppi bancari sono stati impostati, nei mesi immediatamente successivi  al CCNL 19/1/2012, piani industriali di ampia portata, con esuberi ed esodi, riduzioni degli organici, solidarietà difensiva, esaurimento delle ferie, giornate di sospensione obbligatoria e/o volontaria, blocco dei percorsi professionali, non pagamento dello straordinario, peggioramento dei trattamenti di missione. Nei casi più gravi, laddove la situazione patrimoniale era così deteriorata da mettere in forse la stessa sopravvivenza dell’azienda come entità autonoma, abbiamo addirittura assistito  a forti riduzioni nelle prestazioni del welfare aziendale, al blocco o alla mancata erogazione del VAP, alla riduzione dei contributi previdenziali integrativi. Quasi ovunque, si è fatto ampio ricorso a forme di utilizzo del premio sociale, a carattere assistenziale, per ridurre il peso di tasse e contributi. Il tutto ha contribuito ad una forte riduzione del costo del lavoro, che alcuni istituti hanno quantificato in almeno il 10%. Uno studio di Prometeia, ripreso dall’ABI, quantifica un calo della componente stipendi nel settore di circa 5 miliardi (da 27 a 22 miliardi) nel periodo 2007-2017. Buona parte di questo calo è ascrivibile al CCNL 19/1/2012!

ABI avrebbe quindi potuto scegliere una linea soft, puntare ad un rinnovo a basso impatto sociale, con modalità silenti e consensuali. Invece sin dalla disdetta del settembre 2013 si è capito che non sarebbe stata una passeggiata rituale.

Se andiamo a sgranare la cronologia della sequenza contrattuale, in realtà, vediamo la costante presenza di un doppio binario, la vecchia tattica dei due forni, un continuo stop & go.

Nell’agosto 2013 ABI (gestione Micheli) rende noto un documento corposo in cui dipinge un quadro drammatico della situazione del settore, ne individua le cause nell’eccesso di costo del lavoro e chiede un cambiamento radicale della struttura contrattuale. A settembre 2013 segue formale disdetta del CCNL con ben 9 mesi di anticipo rispetto alla scadenza naturale. I sindacati indicono uno sciopero per il 31 ottobre 2013. Lo sciopero riesce con alte ed estese adesioni.

La trattativa riprende e si arriva ad un nuovo accordo sul Fondo di sostegno al reddito: vengono peggiorate le prestazioni per i lavoratori che hanno ancora  il sistema retributivo pieno, con penalizzazioni differenziate in base al reddito, ma lo strumento resta come principale ammortizzatore sociale di settore nel gestire lo svecchiamento della categoria e la gestione degli esuberi. Nello stesso tempo si sigla un accordo che individua un percorso di rinnovo del CCNL: entro il 28 febbraio 2014 deve essere presentata la piattaforma sindacale,  entro il 31 marzo 2014 deve iniziare la trattativa.

Alla fine di gennaio compare la “bibbia”: si tratta di un documento di fonte ABI, non ufficiale, probabilmente circolato nei contatti informali tra ABI e segreterie nazionali, che si decide di non diffondere e non rendere pubblico. Difficile però smentirne l’esistenza e l’autenticità: difficile soprattutto abiurarne i contenuti, che altro non sono che la trasposizione del documento di agosto in richieste operative, declinate con puntuali e precise rivendicazioni padronali in tema di riforme contrattuali da esigere.

Il documento crea imbarazzi e smentite, è evidente e palese che ha l’intento di condizionare o sovrapporsi all’elaborazione autonoma della piattaforma rivendicativa da parte dei sindacati, che invece procedono per conto loro a predisporre un documento sufficientemente generico ed accattivante per affrontare il percorso assembleare al riparo da brutte sorprese.

I tempi slittano, ma di poco: la piattaforma è pronta per inizio aprile, le assemblee la votano a grandissima maggioranza ed entro maggio viene inviata alla controparte: ci sarebbero i tempi per cominciare a discuterne, insieme al “nuovo modello di banca” che viene proposto dai sindacati alla controparte, all’opinione pubblica, al sistema delle imprese e dei risparmiatori. L’iniziativa dei sindacati è ad ampio raggio: si propone ai lavoratori una piattaforma che punta a difendere l’area contrattuale, a limitare le iniziative aziendali su appalti ed esternalizzazioni, a condizionare i piani industriali, a difendere l’occupazione, a recuperare il potere d’acquisto attraverso una richiesta economica pari a 175 euro al mese da acquisire entro la scadenza del contratto, prevista al 30.06.2017. Nello stesso tempo si propone alle banche un patto in difesa dell’occupazione basato sull’aumento dei ricavi, sull’apertura a nuove figure professionali e a nuovi servizi (consulenza fiscale e amministrativa, intermediazione immobiliare, offerte di nuovi pacchetti di servizio, ecc.), mentre si cerca di rendersi simpatici a imprese e consumatori, sponsorizzando l’uso della leva del credito come strumento di sostegno all’economia reale, in luogo della finanziarizzazione spinta del modello economico di riferimento.

La trattativa però stenta a decollare: in ABI scade il mandato di Francesco Micheli come presidente del CASL e subentra Alessandro Profumo, che prende in mano la trattativa dalla fine di luglio 2014. Il primo scoglio da affrontare è il consolidamento in tabella degli aumenti retributivi del CCNL 19.1.2012: il famoso EDR. L’accordo del 6.10.2014 prevede l’inserimento in tabella con decorrenza 1.1.2015 e la “saldatura” del contratto scaduto il 30.6.2014 con quello nuovo che si andrà a rinnovare, auspicabilmente, entro la fine dell’anno. Ma nel merito della trattativa, a questo punto, non si è ancora entrati.

Gli incontri riprendono senza costrutto fin quando,  a inizio novembre 2014, l’ABI presenta un documento di 6 cartelle che ripropone in versione stringata e sintetica le richieste che da oltre un anno “girano” attorno alla trattativa senza mai essere formalizzate. ABI chiede di depotenziare il CCNL ad una semplice cornice, che stabilisca norme e minimi retributivi base, per lasciare alla contrattazione di 2^ livello gli spazi opportuni per adattare la struttura contrattuale alle specifiche esigenze aziendali. Chiede di poter applicare ai back office trattamenti compatibili con i “mercati di riferimento”, cioè orari aumentati e retribuzioni ridotte. Propone di separare più nettamente i servizi amministrativi dalla rete commerciale, con l’introduzione di forme di lavoro autonomo.   Chiede di rivedere la struttura degli inquadramenti, accorpando i livelli da 13 a 6  e porre rimedio alla situazione di eccessivo addensamento delle figure professionali nell’area dei quadri direttivi. Chiede di rinnovare il contratto a costo zero, precisando che non ci sono margini economici per concedere aumenti retributivi. Partendo da una ricostruzione degli indici d’inflazione effettiva e dalla previsione di una situazione deflattiva, offre un aumento economico dell’1,85%, precisando che nell’offerta economica devono essere inclusi anche gli effetti del ripristino degli scatti di anzianità, mentre resterebbe il blocco del TFR con il conteggio delle soli voci previste nell’ultimo triennio.

A questa impostazione dell’ABI i sindacati reagiscono con la rottura delle trattative, anche se l’indizione di scioperi è preclusa in quanto deve trascorrere il semestre di raffreddamento del conflitto previsto dal protocollo di settore del 24.10.2011. La proclamazione del 2^ sciopero di categoria viene così rinviata al nuovo anno e viene fissata al 31.01.2015, con l’indizione di 4 manifestazioni di piazza, che si svolgeranno a Milano, Ravenna, Roma e Palermo, mentre la CUB-SALLCA manifesta a Torino.

Lo sciopero ottiene un’ottima adesione e sorprendentemente anche le manifestazioni di piazza riescono bene, con una buona copertura mediatica. In particolare la manifestazione di Milano vede sfilare, oltre ad una nutrita delegazione di sindacalisti di mestiere, sia del settore che confederali, anche molti lavoratori ruspanti e partecipativi.

Il contratto dei bancari diventa per qualche settimana l’emblema di una situazione più generale in cui oltre 7 milioni di lavoratori hanno il contratto scaduto e l’azione congiunta di governo e padronato contribuisce ad alzare la tensione sociale anche in settori dove la presenza, seppure ridotta, di utili e margini potrebbe favorire la ripresa della domanda e un ruolo della contrattazione. La scarsa popolarità di cui godono i banchieri, la moderazione della piattaforma  e la determinazione dei lavoratori nel partecipare alle lotte, alla fine convincono l’ABI a riprendere il negoziato con obiettivi più contenuti. La trattativa finisce per concentrarsi sui tre soli nodi della parte economica, della revisione degli inquadramenti e delle garanzie da mantenere sull’area contrattuale. Di fatto lo scambio avviene, dopo la convulsa settimana precedente alla possibile disapplicazione del contratto, tra parte economica e parte normativa.

La durata del contratto viene prorogata al 31.12.2018, gli aumenti vengono scaglionati su tre anni, con prima decorrenza 1.10.2016, la consistenza è dimezzata rispetto alla richiesta iniziale e una parte rilevante degli aumenti viene finanziata dal permanere del blocco delle voci su cui viene conteggiato il TFR. Nel corso dell’intera vigenza del contratto, che diventa quadriennale, così come la contrattazione integrativa aziendale, l’impatto economico è contenuto al 3% circa. Si tratta di un aumento infimo per la stragrande maggioranza dei lavoratori.

Gli unici ad avere qualche motivo di soddisfazione per la parte economica sono naturalmente i lavoratori di nuova assunzione, che vedono ridursi l’abbattimento del salario d’ingresso dal -18% al -10%. Per  coloro che sono già in servizio, in quanto assunti/confermati sulla base del CCNL 19.1.2012,  il recupero avviene a spese del FOC, che come sappiamo è finanziato per il 90% dai lavoratori (in termini di banca ore/festività soppresse) con modalità obbligatorie e per il resto dal Top management che versa con modalità volontarie il 4% della propria retribuzione contrattuale, mentre le aziende non contribuiscono per nulla (ente bilaterale molto anomalo!).

Le contropartite per l’esito umiliante della parte economica consistono nella “tenuta” dell’area contrattuale e nel “rinvio” della manovra sugli inquadramenti. Sul primo versante le aziende hanno rinunciato ad ampliare in modo incontrollato l’area dei contratti complementari, che peraltro sono previsti in contratto sin dal 1999 e che dovrebbero funzionare soprattutto nell’improbabile fase dell’insourcing, cioè quando si riportano dentro il perimetro societario delle lavorazioni appaltate all’esterno. Sul secondo versante si è deciso di aprire un “cantiere di lavoro”, che entro 12 mesi dovrebbe produrre una sintesi, da applicare poi nel contratto successivo: intanto però le banche possono contrattare nuovi inquadramenti in sede aziendale, stabilendo situazioni ex-novo.

Ovviamente viene dato molto rilievo al FOC, che da fondo bilaterale destinato a produrre o stabilizzare nuova occupazione dovrebbe estendere la sue prerogative anche al riassorbimento di lavoratori espulsi in seguito a situazioni di crisi, o alla loro riqualificazione professionale. Di fatto le aziende potranno attingere, senza obbligo, a questo bacino, se vi troveranno le competenze che cercano, mentre le risorse saranno, come prima, a carico dei lavoratori, come abbiamo già ribadito.

In  sostanza le aziende portano a casa un contratto “snello”, molto distante da quello su cui puntavano, ma anche poco costoso rispetto agli impegni esigibili. Nei fatti hanno ottenuto nell’arco di tempo in cui si è svolta la vicenda contrattuale, innumerevoli e imprevisti vantaggi “extra-contrattuali”, che hanno in parte abbassato le loro pretese e intercettato le loro reiterate richieste alla “politica”. Basti pensare ai 2,5 miliardi di euro che nel triennio riusciranno a recuperare come conseguenza del nuovo trattamento fiscale riservato all’ammortamento dei crediti incagliati. Basti pensare ai 3,7 miliardi che riusciranno a risparmiare in base alla legge di stabilità e all’esenzione della base imponibile IRAP. Basti pensare ai 7,5 miliardi che hanno ottenuto come rivalutazione patrimoniale delle quote detenute in Banca d’Italia. Basti pensare agli 8.000 euro annui che riusciranno a risparmiare, per i primi tre anni,  per ogni lavoratore neo-assunto, come effetto della de-contribuzione (sommando, vengono fuori 24.000 euro a cranio). Per non parlare dei vantaggi del nuovo contratto a tutele crescenti per i lavoratori assunti dopo il 7.3.2015 e delle possibilità che si aprono con le norme applicative del Jobs-Act.

I sindacati chiudono la vicenda cantando vittoria e non perdono occasione per auto-incensarsi. In realtà la trattativa si chiude con un sostanziale pareggio, che lascia totalmente irrisolti i problemi pregressi, dal peso non certo irrilevante.

Si pensi alla vicenda degli orari, di lavoro e di sportello, che sono stati liberalizzati con l’ultimo contratto e non hanno conosciuto alcuna rivisitazione critica, nonostante siano evidenti gli impatti devastanti nell’organizzazione dell’unica banca (Intesa Sanpaolo) che li ha applicati in modo esteso e massiccio.

Si pensi alla vicenda dei Consorzi ed al loro utilizzo per costituire in società pezzi di lavorazione da cedere poi a soci esterni al perimetro contrattuale del credito (Unicredit, Banca MPS, Bnl), con le fragili tutele che tendono ad indebolirsi ulteriormente nel tempo e che anche le nuove previsioni in termini di Area Contrattuale non possono impedire.

Si pensi allo spazio enorme concesso sul terreno del salario, spazio che sarà riempito da nuovi e corposi sistemi incentivanti su iniziativa aziendale, in barba a tutti gli impegni contro le politiche commerciali aggressive.

Si pensi ai nuovi modelli distributivi, che fanno ogni giorno carta straccia degli accordi esistenti in tema di inquadramenti, indennità, mansioni, e che vengono usati per anticipare nuovi schemi contrattuali, mai discussi con  i rappresentanti dei lavoratori.

Non si tratta quindi di vedere il bicchiere mezzo vuoto (come fa la Fisac malpancista) o mezzo pieno (come fa “Infoaut”), ma di cogliere il senso di questo rinnovo sul piano politico e sindacale.

Un’occasione sprecata per riconquistare il terreno perduto, nonostante i rapporti di forza messi in campo in categoria di fronte alla protervia dei banchieri.

Un ulteriore passaggio verso un sistema più deregolato, dove la riduzione al minimo del recupero retributivo lascerà a mani vuote i lavoratori delle imprese in forte crisi (Mps, Carige, Banca Marche, Pop. Etruria e via commissariando) ed apre grandi spazi di discrezionalità aziendale laddove i margini restano (o tornano) più alti e la situazione patrimoniale più solida. Gli ammortizzatori sociali continueranno ad essere finanziati dal contributo dei lavoratori, in una fase dove si vedrà poca nuova occupazione e nuovo intensificarsi del flusso in uscita (anche come conseguenza delle nuove aggregazioni connesse alla riforma delle banche popolari).

Denunciare questo stato di cose anche attraverso il voto negativo sull’ipotesi di rinnovo mi sembra una scelta coerente, seppure complicata da articolare e spiegare. L’auspicio è che non tutti i quadri sindacali abbiano la mente ottenebrata da questo apparente successo e che resti un po’ di materia grigia e senso della realtà per valutare le cose nel merito e intravvedere gli scenari di mutamento radicale che si aprono nel settore.

Torino, 16.4.2015                                                                                              RENATO STRUMIA

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