banchefallitebdi Renato Strumia

Il caso delle quattro banche fallite (Banca Etruria, Banca Marche, Carichieti, Cariferrara) ha messo in subbuglio il sistema bancario e portato un allarme generale tra i piccoli risparmiatori: per l’ennesima volta ci troviamo di fronte ad un caso grave di crack, come quello dell’Argentina,  di Parmalat, di Cirio. Le dimensioni del fenomeno sono questa volta più circoscritte ma le sue conseguenze non meno gravi. Quello che colpisce è ancora una volta la latitanza pluriennale delle istituzioni deputate a vigilare e intervenire, da una parte, e l’interventismo autoritario del governo, dall’altra. Senza questi due elementi devastanti, si sarebbero potute trovare soluzioni diverse, meno dannose per i piccoli risparmiatori (uno per la disperazione si è già suicidato), e più utili per una stabilizzazione sistemica. Al di là delle speculazioni politiche sul ruolo dei parenti della ministra Boschi nel fallimento di Banca Etruria (giustificabile vista la personale antipatia che sprigiona la più arrogante delle serve di Renzi), è utile provare a ragionare su quello che la vicenda esprime sul piano politico, economico e finanziario.

Le quattro banche coinvolte erano in dissesto da tempo e alcune commissariate fin dal 2013. La crisi dei “distretti” industriali (la dorsale adriatica, l’oro di Arezzo, ecc.) si è accompagnata al crollo dei prezzi degli immobili (tradizionale garanzia degli impieghi bancari). A tutto questo si è probabilmente aggiunta la responsabilità di amministratori incapaci, inadeguati nel valutare il cambiamento di scenario e superare i limiti dell’eccessiva concentrazione su attività locali destinate al fallimento. La “banca del territorio” si è dimostrata un modello superato ed ha finito per tradire proprio quella realtà locale da cui aveva tratto linfa e ricchezza, come già era accaduto, su scala ancora più ampia, con il Monte dei Paschi di Siena, minato da ambizioni di crescita e arroccamento locale. Inutile dire che in tutto questo marasma il ruolo dei politici, locali e nazionali, è stato pesantissimo, attraverso quelle Fondazioni che adesso hanno, anche loro, perso tutto: soldi, cariche, potere.

Poteva anche finire diversamente, abbiamo detto. La soluzione delle crisi bancarie ha sempre avuto in Italia una storia diversa: i depositi, i conti correnti, le obbligazioni, venivano garantite dal Fondo Interbancario di tutela dei depositi (un consorzio tra banche che mutualmente intervenivano per sostenere i risparmi affidati a istituti in difficoltà); le sofferenze venivano incluse in una “bad-bank” e messe a carico del bilancio

pubblico; la continuità aziendale veniva garantita attraverso l’assorbimento delle banche in dissesto da parte di qualcuna più sana e solvibile. Così erano stati affrontati storicamente i casi patologici: Banco Ambrosiano, Banco di Napoli, Banco di Sicilia, insieme ad una miriade di casi minori che non hanno neanche fatto cronaca, se non per riempire i giornali di provincia. In questi casi, escludendo gli azionisti, nessuno si era “fatto male”: si salvava capra e cavoli e si ripartiva con bilanci ripuliti, anche e soprattutto a carico del contribuente, cioè della fiscalità generale. Era un sistema discutibile, ma certamente “mutualistico”.

Lo stesso metodo è stato applicato su scala amplissima in ambito europeo dopo la crisi Lehman. Tutti i principali paesi hanno infilato centinaia di miliardi di euro nelle banche in crisi, dai 250 miliardi della Germania, ai 600 miliardi del Regno Unito, passando per Francia, Belgio, Olanda, Spagna, Irlanda, Portogallo e così via. Il paese ad essere intervenuto di meno è stata proprio l’Italia, che varò i Tremonti Bond, utilizzati per 4 miliardi di euro dal Monte Paschi e in misura molto minore da altre tre banche: fondi a tassi d’interesse elevatissimi,  restituiti quasi tutti dopo poco tempo e sostituiti da aumenti di capitale, finanziati dagli azionisti privati e dalle fondazioni. E’ così che il sistema bancario italiano è stato aggredito e penetrato, come tutti gli altri principali settori industriali, dal capitale internazionale, dai fondi sovrani di matrice araba, cinese o norvegese, dai fondi privati di matrice anglosassone e così via. Mentre si ridimensiona, per vicende di mercato o per decreto legislativo, il ruolo delle fondazioni (presidio ormai sempre più fragile nella difesa degli assetti societari), cresce il ruolo degli investitori internazionali nel controllo del sistema italiano: la più solida delle banche italiane (Intesa Sanpaolo) ha il 65% di soci esteri; la più grande (Unicredit) annovera come principale azionista Abu Dhabi (6%), seguito da Libia (3%), Cina (2%), Allianz (2%), Abn-Amro (2%), mentre le fondazioni italiane, tutte insieme, pesano meno del 10%.

Il paradosso di tutto questa vicenda è lo sviluppo degli avvenimenti che ha preso il nome di “bail-in” (salvataggio interno). Se infatti le più grandi banche europee, minate dai titoli tossici, sono state salvate nel 2008-2009 dal “bail-out”, cioè l’intervento pubblico finanziato dai contribuenti, ora si è deciso che questo non deve accadere più. Dal 2014 è in atto questa direttiva, che doveva essere recepita negli ordinamenti nazionali entro il 1.1.2016. Era evidente a tutti che il governo italiano avrebbe dovuto salvare le quattro banche con il sistema tradizionale prima di quella data: tutti davano per scontato l’intervento del Fondo Interbancario e la loro messa in sicurezza prima della fine dell’anno, come era stato fatto poco tempo prima con la Tercas (la Cassa di Teramo). Invece è accaduto qualcosa di inverosimile: sondati non meglio precisati “ambienti europei”, sembra sia emerso un parere negativo che avrebbe considerato aiuti di stato un eventuale intervento del governo attuato con le modalità tradizionali. Da qui il blitz del governo, che a metà novembre ha recepito in anticipo le norme sul bail-in e quattro giorni dopo ha deciso di applicarlo immediatamente alle quattro banche, azzerando il valore sia delle azioni che delle obbligazioni subordinate. Come vedremo, questo è l’aspetto più sconcertante dell’intera vicenda, perché va a toccare una categoria di risparmiatori che, nella loro stragrande maggioranza, non sono speculatori professionisti e non avevano gli strumenti per pesare ciò che stavano sottoscrivendo.

Il decreto che applica il bail-in chiama all’intervento le 208 banche italiane che intervengono pro-quota in base ai propri depositi, viene varata una nuova holding che eredita le nuove banche in attesa di piazzarle sul mercato, viene creata una bad-bank dove vengono infilati 8.5 miliardi di sofferenze, e viene versata una cifra pari a 3.6 miliardi di euro (come anticipazione) da parte di Intesa Sanpaolo, Unicredit e UBI. Se qualcosa va storto la Cassa Depositi e Prestiti interviene alla fine garantendo fino a 1 miliardo di euro (quindi lo zampino di intervento di Stato c’è eccome). In questo modo vengono salvati i conti correnti, i depositi e le obbligazioni (senior), mentre vengono di fatto cancellate le azioni e le obbligazioni subordinate emesse dalle precedenti banche.

Su questo occorre aprire un’ampia parentesi, perché è qui che si tocca la parte più sensibile dell’intera operazione e si vedono le caratteristiche più scandalose della manovra.

Che una serie di banche (forse tutte) siano sottocapitalizzate, è evidente da tempo. I criteri con cui le autorità europee giungono a queste conclusioni sono spesso indifendibili: i derivati di cui è piena Deutsche Bank non vengono considerati alla stessa stregua dei crediti delle banche italiane, o portoghesi, o greche. La raccomandazione è stata quindi quella di rafforzare il capitale con strumenti ibridi: un mix di nuove azioni e obbligazioni particolari, definite “subordinate”, perché nel caso di fallimento, la loro restituzione è subordinata al veder prima soddisfatti gli altri creditori. Sono strumenti che rendono un po’ di più, ma hanno associato un rischio che si è dimostrato altissimo. Ma quelle obbligazioni sono state offerte allo sportello a risparmiatori ignari di ciò che compravano e del resto era opinione diffusa (anche nei bancari che le vendevano) che in fondo in Italia non si era mai vista una banca fallire senza salvataggio alcuno.

Il risveglio però è stato devastante: si parla di oltre 10.000 risparmiatori rimasti con il cerino in mano, dopo aver investito tutti i loro averi in questo tipo di strumenti.

La pavidità del governo nel non voler affrontare un eventuale giudizio negativo dell’Unione europea su un più tradizionale intervento di salvataggio ha messo sul lastrico migliaia di soggetti deboli, proprio in quelle regioni dove il consenso al PD era più diffuso e convinto. Dopo il latte versato, il governo sta affannosamente cercando di tamponare la rivolta popolare, varando un decreto da 100 milioni di euro per garantire un ristoro parziale (30%) alle persone che rischiano l’indigenza, ma la dimensione del disastro è ben più ampia (si parla di 800 milioni di bond subordinati, oltre al valore delle azioni andato in fumo).

Le stesse cifre sulle persone coinvolte sono molto ballerine: si va dai 10.000 ai 130.000. Comunque sia è stato inferto un durissimo colpo alla credibilità del sistema bancario, all’affidabilità del governo nel gestire in futuro situazioni similari e soprattutto al livello di sovranità ancora esistente sul piano politico.

Tutto quello che accade in Italia è deciso a Bruxelles, da un pugno di burocrati che credono (o fingono di farlo) che davvero i pensionati italiani vadano in banca a comprare strumenti speculativi, per lucrare interessi elevati, in piena consapevolezza di quanto possa accadere. E questa convinzione ipocrita viene di fatto avallata da un provvedimento del governo che preferisce tirare un colpo di spugna sulle responsabilità di Banca d’Italia, Consob e parenti dei propri ministri, mentre polverizza i risparmi di una vita di migliaia di famiglie incolpevoli.

Ora che il danno è stato fatto, non sarà facile ricostruire l’immagine di un sistema profondamente corrotto. Lo si vede nella classe politica, che esprime personalità connotate da istinti predatori. Lo si vede nella classe di governo, accomunata solo dalla sete di potere e dallo sfruttamento delle sue prerogative. Lo si vede nella classe imprenditoriale, assente e latitante rispetto alla tenuta di una struttura industriale in disfacimento.

Lo si vede nella casta sindacale, che ha di fatto tollerato lo smantellamento della struttura contrattuale (incluso il varo del jobs-act, che si applicherà anche ai 6.000 dipendenti delle quattro banche fallite). Lo si vede nel sistema finanziario in generale e in quello bancario in particolare, in cui manager ed amministratori percepiscono prebende milionarie anche quando creano buchi spaventosi, senza mai fare ammenda o chiedere scusa.

Le obbligazioni bancarie subordinate in circolazione superano i 60 miliardi di euro già solo in Italia: non sarà così facile convincere i risparmiatori che possono dormire sonni tranquilli, dopo quanto è successo. Il venir meno di ogni sicurezza, prima in campo lavorativo e previdenziale, ora anche nel campo degli investimenti

e del risparmio, porta ad un diverso ruolo dello stato: non più apparato solidale che redistribuisce in senso egualitario correggendo gli squilibri del mercato, ma istituzione ad uso esclusivo delle classi proprietarie, che ne traggono vantaggio per sé, mentre scaricano sui più deboli i costi di ogni ristrutturazione, di ogni “risanamento”, di ogni salvataggio.

Un salto in avanti rispetto al classico refrain “privatizzare i guadagni e socializzare le perdite”: qui siamo giunti al punto che anche la socializzazione delle perdite è mirata a colpire solo le categorie più indifese.

Un utilizzo dello stato sempre più imbarazzante, al servizio di meccanismi sempre più selvaggi di competizione per le risorse: questo è il paradigma che si va imponendo e che dovremo imparare a combattere.

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