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Pressioni commerciali. Iniziative mirate e scelte di fondo

Nei giorni scorsi, due tra i non pochi lavoratori che ci avevano chiesto i link per poter vedere l’assemblea che abbiamo organizzato il 9 marzo a Torino su assunzioni ibride” e “pressioni commerciali” ci hanno riscritto domandando, quasi con le stesse parole, se il nostro reiterato appello a pensare e mettere in campo unitariamente delle iniziative di mobilitazione per contrastare le devastanti politiche aziendali che avvelenano sempre più il clima lavorativo nella Rete (e non solo) avesse sortito qualche effetto tra le altre sigle sindacali.

Ci è sembrato naturale girare loro il materiale prodotto dalla Fisac dell’Area Torino e Provincia a sostegno della loro campagna contro la “Vendita malata” che è stata recentemente lanciata con tanto di video interviste ai dirigenti sindacali locali.

La cosa ha fortemente sconcertato i due colleghi (non nostri iscritti e che lavorano rispettivamente nel Veneto e nelle Marche) che, ancora una volta con accenti molto simili, ci hanno risposto che anche da loro il problema è gravissimo ma che i sindacati firmatari, dopo aver scritto volantini di fuoco, non hanno fatto nulla di nulla e che il tran tran non è certo cambiato negli ultimi tempi.

Perché si muove qualcosa solo a Torino?

Confessiamo di nutrire anche noi qualche dubbio.

Ad una prima lettura, infatti, abbiamo giudicato l’iniziativa della Fisac con un certo compiacimento. Per il luogo, i tempi, per alcune delle modalità di lavoro previste e persino per qualche passaggio testuale ci è sembrato del tutto evidente che essa avesse (anche) il carattere di una risposta alle nostre sollecitazioni (o meglio a quelle di tanti lavoratori).

Ma perché di fronte ad un problema di ovvia rilevanza nazionale un’organizzazione potente e ricchissima di mezzi come la Fisac si limita ad un’iniziativa locale? A cosa serve? Quali spazi di contrattazione e possibilità di mobilitazione apre? E non ci si dica che è un “pilota” destinato ad essere poi replicato in altre aree territoriali! Abbiamo già perso sin troppo tempo, abbiamo bisogno di agire ora!

E allora, perché solo Torino?

La questione è rilevante per provare a capire se siamo di fronte ad una cosa utile e seria oppure no.

Un fatto è certo. Noi, proprio in provincia di Torino, dove siamo maggiormente radicati, abbiamo davvero lavorato tanto sull’argomento. E lo abbiamo fatto, pur nelle difficilissime condizioni “operative” alle quali siamo costretti, alternando parole a fatti: dalla distribuzione dei questionari sulle pressioni commerciali agli esposti alle Asl sullo “stress lavoro correlato”; dalle assemblee con nuclei omogenei di lavoratori (ex-assistenti alla clientela, gestori personal, gestori e addetti imprese, ecc..) ai volantinaggi alla clientela.

E tutto questo ha ovviamente generato un’attenzione ed un consenso ampio anche da parte di tante/i iscritte/i ad altre sigle che hanno apprezzato il nostro modo di operare e le nostre iniziative quanto meno rispetto agli imbarazzi ed all’inconcludenza di altri.

Non è che il problema vero che si vuol risolvere è questo?

Ognuno può ovviamente pensarla come meglio crede. Non ci piace scadere nella dietrologia e comunque sabbiamo bene di non essere “al centro del mondo”. Tuttavia le perplessità ci sembrano fondate anche se, fossimo inclini all’autocompiacimento, dovremmo essere soddisfatti in ogni caso. Sarebbe l’ennesima dimostrazione che laddove il sindacalismo di base è più forte non solo ottiene risultati diretti ma riesce talvolta ad influenzare le stesse dinamiche sindacali complessive. (E ovviamente lo diciamo in primo luogo a chi ci segue da territori dove siamo più deboli).

Ma naturalmente il punto centrale non è questo quanto la capacità di produrre risultati concreti per migliorare le condizioni di lavoro nostre e di tutti i colleghi. E allora, in questa prospettiva, non possiamo che ribadire che i nostri quadri sindacali e militanti più attivi sono sempre disponibili a collaborare, nei singoli punti operativi, con qualsivoglia iniziativa abbia finalità condivisibili e possa rivelarsi utile quanto meno ad un risveglio collettivo delle coscienze.

Riteniamo tuttavia di dover ancora una volta precisare che, quello che rende poco credibili le iniziative delle strutture locali dei sindacati “firmatari” sul tema delle pressioni commerciali non è né la tempistica né la (presunta) strumentalità e nemmeno la loro reale efficacia. E’ la profonda contraddittorietà con le scelte e le strategie delle “case madri” soprattutto se si è contribuito a sostenerle e non si è mai fatta alcuna autocritica.

Ci limitiamo a tre esempi macroscopici.

  • La recente “verifica” tecnica dell’accordo sui percorsi professionali dell’ottobre 2015 (che ha confermato la farraginosità e la totale unilateralità aziendale nella gestione dei meccanismi che lo governano) nonché le esperienze che cominciano a maturare dalla sua concreta applicazione in filiale non possono che rafforzare il giudizio negativo che ne abbiamo sempre dato. Per le tante nuove “opportunità” che garantisce alla catena di comando aziendale e, d’altro canto, per il peso di flessibilità, incertezze e ricattabiltà che scarica proprio sulla filiera di vendita esso ci è sempre apparso pienamente funzionale al rafforzamento dell’efficacia dell’esercizio delle pressioni commerciali.

 

  • Anche l’accordo che introduce le assunzioni “ibride” (metà dipendente e metà promotore) è tutt’altro che neutro rispetto ai problemi di “clima aziendale” e di “vendita malata” e questo persino a prescindere dalla valutazione complessiva che ne diamo in quanto potenzialmente devastante per il futuro della categoria. E ricordiamo che è un fatto scandaloso e senza precedenti che i sindacati “firmatari” non abbiano indetto le assemblee né per informare né (tanto meno) per votare.

 

  • E’ ormai all’ordine del giorno il legame tra “pressioni commerciali” e salute psicofisica dei lavoratori. Per contrastare l’azienda efficacemente occorrono anche RLS (Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza) autorevoli, liberi e riconosciuti. Eppure ancora pochi giorni fa abbiamo assistito allo scandalo di elezioni-farsa alle quali non solo hanno potuto partecipare esclusivamente le sigle “firmatarie” ma dove il loro inciucio preventivo non ci ha permesso nemmeno di selezionare i più meritevoli e scartare i più inutili di loro. X candidati per X posti. Disinteresse generale, percentuale di votanti bassissima, credibilità zero. Tutti eletti sia quelli bravi sia i nullafacenti.

 

E’ tempo di 730. Frotte di sindacalisti, di alcuni dei quali si erano perse le tracce dall’anno scorso, si aggirano tarantolati nel fare la spola tra scrivanie e CAF, con in tasca qualche tessera in bianco pronta alla bisogna. E’ l’occasione buona per chiedere loro cosa pensano di accordi sbagliati, assemblee sparite e diritti scippati.

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Intesa Sanpaolo RSA Torino e Provincia

Cassa di Previdenza Sanpaolo: si vota dal 16 al 29 maggio. AMALIA PICCININO (titolare) e PIERGIUSEPPE MERLO (supplente) sono le candidature della CUB-SALLCA per il Consiglio di Amministrazione: ecco i motivi per cui sceglierle

La newsletter che recentemente hanno ricevuto tutte/i le/gli iscritte/i alla Cassa ci dice che, in base ai dati provvisori, il rendimento del patrimonio nel 2016 è stato del 6,25% circa. Nel 2014 il risultato era stato del 14,06%, nel difficile 2015 si era comunque arrivati al 2,85%. Indubbiamente anche nell’ultimo triennio non si può che dare un giudizio positivo sulla gestione finanziaria della Cassa, anche per la maggior oculatezza con la quale è stato gestito il comparto immobiliare che, come noto, ha portato invece parecchi dispiaceri in altri Fondi Pensione del Gruppo. Il patrimonio quindi continua a crescere e, a fronte dello strutturale sbilancio attuariale, c’è comunque la fidejussione con la quale la Banca garantisce i propri impegni.

Tutto bene, quindi, se non fosse che quello che ti chiede, un po’ preoccupato, il vecchio sanpaolino che incontri non è un qualche ragguaglio tecnico sul rendimento del comparto “growth” piuttosto che di quello “immunizzazione” quanto se è vero che i vertici aziendali e dei sindacati “firmatari” si sarebbero già accordati per procedere, in tempi brevi, allo scioglimento (“zainettizzazione”) della Cassa. Ed il perché ed il percome.

Di certo c’è solo che l’attuale CdA non ne ha mai formalmente discusso ma è significativo, tuttavia, che nessuno abbia mai voluto (potuto) smentire le voci che circolano. Né alcun candidato delle sigle, ovviamente, ha ritenuto di dire la propria opinione sull’argomento, cosa che sarebbe quanto meno doverosa in campagna elettorale!

Da parte nostra non possiamo che ribadire quanto già affermato in precedenti occasioni. Qualsivoglia “progetto”, per poter essere discusso, deve partire dall’integrale rispetto degli interessi e delle aspettative di tutte/i le/gli iscritte/i alla Cassa (ivi compresi gli attuali Pensionati) e quindi prevedere la volontarietà della scelta e non comportare alcun risparmio per la Banca rispetto a quanto coperto dalla fidejussione.

E, ovviamente, a prendere la decisione finale non potranno che essere le/gli iscritte/i che dovranno ricevere un’informativa chiara, esauriente e tempestiva.

Quello che ci preoccupa maggiormente è la “tentazione” che potrebbero avere i vertici aziendali e sindacali di operare qualche scambio improprio (non sarebbe certo una novità) con altre partite aperte e, in particolare, nella prospettiva di un nuovo ricorso al “fondo esuberi”.

Da questo punto di vista il nostro ruolo di controllo e, nel caso, di denuncia è più che mai essenziale. Da sempre, per i CdA degli enti previdenziali, abbiamo scelto di candidare persone in primo luogo competenti sul piano tecnico e professionale ma anche dotate di autonomia di giudizio e prive di quei “conflitti di interessi” nei quali sono immersi i consiglieri che vengono nominati dalle gerarchie aziendali e sindacali cui devono alla fine rispondere.

Nel contesto descritto ci pare che solo un vistoso successo delle candidature proposte dal sindacalismo di base (come peraltro avviene ormai dal 2008) possa essere un imprescindibile elemento di garanzia per tutti.

C.U.B.-S.A.L.L.C.A.  Intesa Sanpaolo

RUOLI PROFESSIONALI IN INTESA SANPAOLO: L’ALGORITMO SOSTITUISCE LA CONTRATTAZIONE

In aprile Intesa Sanpaolo e sindacati firmatari hanno “verificato” l’applicazione dell’accordo sui ruoli professionali siglato nell’ottobre 2015 e rivisto le norme sul consolidamento delle indennità di ruolo.

Intanto venivano ricalcolati gli indici di complessità di filiali e portafogli, comunicando a tutti i gestori la nuova situazione. Le slides rese note consentono un primo bilancio di questo accordo sperimentale, che scadrà il 31.12.2017, con evidenti riflessi sulla contrattazione in sede nazionale.

Va detto innanzitutto della parzialità dei dati forniti: per 99 filiali oggetto di interventi organizzativi nel periodo novembre-dicembre 2016 la complessità non è ancora disponibile; inoltre si afferma che “nel ricalcolo dell’indice di complessità delle filiali si è tenuto conto dell’impatto negativo che il contesto macroeconomico ha avuto sull’andamento dei ricavi medi per cliente”, ma non si spiega come è stato cambiato il meccanismo di calcolo, o quali parametri siano stati utilizzati.

Non si può negare l’impressione che l’azienda faccia quello che vuole, assuma le variabili che ritiene utili, informi i sindacati di decisioni già prese e che non di contrattazione si tratti, quindi, ma semplici comunicazioni di servizio.

Il confronto tra la situazione di partenza in sede d’impianto e ricalcolo all’1.1.2017 risente quindi di corposi difetti comparativi, tuttavia si può provare ad imbastire una griglia di lettura per provare a spiegare meccanismi che restano nebulosi ed astratti.

L’interesse dei colleghi per queste vicende è sempre alto, mentre la loro possibilità di capire sempre più scarsa. Ad aprile alcuni colleghi hanno avuto la gradita sorpresa di vedere salire il livello di complessità gestita, e magari anche ottenere qualche forma di riconoscimento economico e professionale (il più delle volte parziale, tardivo e non consolidato); altri invece hanno visto questo livello ridursi e magari anche subire uno storno, in sede di conguaglio, di spettanze non più dovute a partire da febbraio-marzo 2017.

Cominceremo con un ripasso: mentre la complessità di filiale tiene conto di dati organizzativi e di dati commerciali, la pesatura dei portafogli individuali viene eseguita nel modo che segue.

Ogni cliente viene classificato in un sotto segmento (es. argento full), ogni  sotto segmento ha un peso in base alla complessità di gestione ed ogni tipologia di portafoglio (es. retail) ha un suo  moltiplicatore che tiene conto della competenza richiesta per seguire quel cliente. Moltiplicando:  (Numero di clienti)  x  (sotto segmento di appartenenza) x (peso associato al “territorio”) =   COMPLESSITA’ DEL PORTAFOGLIO.

Se proviamo a quantificare, vediamo che a livello di filiali non è successo molto: l’84% circa è rimasto dov’era, mentre un 8% è salito di livello ed un altro 8% è sceso. Più intenso il movimento nelle filiali imprese, dove solo il 7,5% è salito, mentre il 14,5% è sceso. Nel retail/personal si riscontra più stabilità, ma se avessimo il dato di quelle 99 filiali “razionalizzate” probabilmente vedremmo situazioni in movimento anche qui.

Le cose cominciano a farsi più interessanti se esaminiamo la platea dei direttori e dei loro inquadramenti: qui vediamo che in meno di due anni sono calati di 45 unità i QD4, di 14 unità i QD3 e di 19 unità i QD2, mentre restano stabili QD1 e Aree Professionali. Chiusure, accorpamenti e destinazione ad altre mansioni di direttori “spompati” hanno presumibilmente abbassato il numero dei lavoratori meglio inquadrati e  meglio pagati. Anche tra i Coordinatori Commerciali è accaduto lo stesso: calo di 44 unità tra i coordinatori con inquadramento compreso tra QD1 e QD4.

Se poi entriamo nel dettaglio dei 20.062 gestori PAR e Imprese, vediamo altri dati meritevoli di attenzione: ben il 38% ha “goduto” di un innalzamento di complessità del portafoglio gestito. Questa media è molto sventagliata tra le tre filiere: 31% nel Retail, 47% nel Personal, 57% nelle Imprese. Addirittura sono saliti dal 4,2% all’11,5% i gestori che hanno per le mani un portafoglio “A”, per un totale di 2308 colleghi. L’incremento più significativo si è verificato nelle Imprese (dal 2,9% al 11,2%) e nel Personal (da 13,1% al 32,9%). Dato questo generale innalzamento di complessità, sarebbe logico aspettarsi un generale avanzamento di ruolo. Invece i dati parlano di ben altro.

Infatti,  tra i gestori PAR la fascia di lavoratori dal QD1 al QD4 è calata di 107 unità, quella dei   3A/4L di 126 unità, quella dei 3A/3L di 61 unità e così via. Pare dunque di assistere a un fenomeno largamente contraddittorio, sebbene prevedibile: saturando i portafogli e le filiali, aumenta la complessità gestita, ma diminuisce la professionalità riconosciuta e pagata. Lavori di più, ma ti pagano meno; l’azienda ti spreme meglio e risparmia pure.

A tutto questo vanno aggiunte alcune considerazioni/interrogativi che aumentano ancora, se possibile, le perplessità sul funzionamento dell’accordo:

  • Che impatto avrà la revisione dei portafogli che è stata attuata con decorrenza 18 gennaio 2017, per renderli più “puri” e coerenti?
  • Perché non viene spiegato nei dettagli, di volta in volta, l’algoritmo utilizzato per procedere al ricalcolo della complessità delle filiali?
  • Perché non viene fornita ai gestori e ai direttori una scheda dettagliata dei dati utilizzati?
  • Perché i responsabili aziendali (in particolare del Personale) brancolano nel buio quando sono richiesti di chiarimenti?
  • Perché non vengono corrette le numerose disparità evidenti tra portafogli A che includono bassi volumi di a.f.i. ed elevata dispersione di clienti in “sviluppo”, e portafogli B e C con clientela “pesante” molto più complessa e strutturata rispetto alla prima?
  • Quali meccanismi di raccordo esistono o vengono applicati quando al gestore viene proposto/imposto un trasferimento su pari mansione in altra filiale?

Concludendo, abbiamo la netta impressione che l’azienda abbia costruito un modello farraginoso, complicato, incongruente, rigido e meccanico e quindi non adattabile alle norme del buon senso. I sindacati firmatari  hanno “comprato a scatola chiusa”, senza alcuna padronanza o controllo dei meccanismi, utilizzati alla fine per abbassare il costo complessivo del lavoro di rete e soprattutto ottenere un generale ribasso dei livelli di inquadramento applicati.

Dagli uni e dagli altri, sarebbero gradite risposte e chiarimenti.

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. INTESA SANPAOLO

INTESA SANPAOLO. FORMAZIONE: DOVE VUOI, QUANDO VUOI

Molti colleghi e colleghe avranno, forse, avuto la possibilità di vedere un video (contenuto in una mail inviata dal servizio Formazione) dove, tra le altre cose, appaiono signorine intente a fissare, con aria estasiata, un tablet aziendale mentre aspettano il bus o stravaccate sulla poltrona di casa.

L’idea che viene suggerita è che con i tablet dedicati alla formazione sarà possibile effettuare la stessa in ogni momento ed in ogni luogo. Peccato, aggiungiamo noi, che questa straordinaria opportunità dovrebbe essere in sostituzione delle ore di lavoro nel proprio punto operativo e non in aggiunta, come il filmato sembrerebbe suggerire.

 

Questa notizia va abbinata con quella per cui l’azienda ha illustrato, il 30 Marzo, ai sindacati firmatari, il progetto sulla distribuzione dei tablet ai colleghi per la formazione da casa.

Si tratta di 8000 tablet mentre per il 2017 l’azienda si propone di acquistarne altri 16000 per estendere sempre più questo sistema innovativo.

In un suo comunicato al riguardo, la Fisac Cgil afferma  che “è  stato ovviamente ribadito che la formazione flessibile” da casa va svolta in orario di lavoro.

 

Dirlo però non è sufficiente. Tutti sanno che il lavoro supplementare non compensato è un fenomeno diffuso, Basta leggere i resoconti sindacali dai territori per capire che la causale NRI imperversa. Anche lo smart work (lavoro da casa) si presta ad abusi difficilmente controllabili.

La soluzione del problema non è agevole, non sempre le denunce agli organismi che dovrebbero vigilare vanno a segno.

 

Nel caso dei tablet però si poteva, forse, fare qualcosa di meglio. Sempre dai comunicati dei sindacati firmatari si apprende che l’acquisto degli stessi è avvenuto con l’uso dei fondi del FCA.

Se non andiamo errati l’utilizzo di questi fondi richiede la firma di accordi sindacali. Ma allora, visto che per una volta un po’ di potere i sindacati firmatutto al tavolo lo avevano, perché non lo hanno usato per imporre clausole e vincoli sull’uso dei tablet in modo da garantire che la formazione a casa sia sostitutiva e non aggiuntiva rispetto all’orario di lavoro?

 

Inutile ricordare che la formazione è diventata un requisito indispensabile, in base all’ultimo contratto aziendale, per chi deve consolidare il proprio ruolo.

Dopo le assunzioni miste, in parte  come dipendenti e in parte come consulenti finanziari, che risolvono il problema per l’azienda delle pressioni commerciali (perche’ i consulenti pagati in base ai risultati si spremono da soli), questa “innovativa” iniziativa potrebbe risolvere per la banca il problema di come erogare formazione senza distogliere i dipendenti dal lavoro: semplicemente potrà essere una formazione fai da te, pagata dal dipendente con il suo tempo di vita, che si confonde e si unifica con il tempo del lavoro.

 

Per evitare tale esito, vista l’assenza di segnali di vita da parte dei sindacati  “ufficiali” che ormai nelle loro dichiarazioni evidenziano la loro impotenza, è necessario che i lavoratori si autorganizzino per far rispettare le regole. Non dubitiamo vi siano responsabili coscienziosi che stabiliranno turni per stare a casa a fare la formazione. Ma immaginiamo anche che vi sarà chi si limiterà a ricordare che la formazione va finita entro una certa data.

 

Dobbiamo vigilare e segnalare situazioni anomale: fare la formazione a casa, al posto di andare al lavoro e nel limite delle 7 ore e 30 minuti di adibizione dovrà essere la regola. Ricordiamo, inoltre, a chi non ha problemi di consolidamento del ruolo, che la formazione “obbligatoria” è da intendersi come obbligo a carico non del lavoratore, ma dell’azienda, che deve metterci nelle condizioni di fruirne durante l’orario di lavoro.

Deve diventare un impegno collettivo, responsabili … più “responsabili” compresi, quello di mettere un freno al lavoro supplementare non compensato e riprenderci gli spazi di vita che ci spettano, senza più  regalare ore di lavoro gratuito.

 

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Intesa Sanpaolo

INTESA SANPAOLO: QUESTIONARIO SULLE PRESSIONI COMMERCIALI SULLA RETE DI TORINO E CINTURA

Alla fine del 2016, su un buon numero di filiali di Torino e cintura, è stato distribuito un questionario, con poche domande (una decina) legate al tema delle pressioni commerciali e dei relativi problemi di salute.

Il questionario aveva l’obiettivo di raccogliere alcuni informazioni e fare conoscere meglio il lavoro del nostro sindacato, non aveva pretese scientifiche come un recente studio dell’Università di Pisa (reso noto dall’articolo di Gramellini, “stressato come un bancario”, comparso sul Corriere della sera del 15.03.2017), ma verosimilmente era più attendibile degli studi commissionati da Intesa Sanpaolo all’Università di Milano, che si concludono immancabilmente senza rilevare particolari criticità.

La distribuzione ha ricalcato quella di un precedente giro dei nostri quadri sindacali sulle filiali, durante il quale era stato diffuso il volantino “Lettera aperta a Stefanio Barrese” (infatti la prima domanda chiedeva se il testo era stato letto). Il recupero dei questionari compilati è stato affidato (salvo rari casi), all’”autogestione” di ogni punto operativo, con buoni risultati  in termini di tasso di restituzione.

Infatti il numero dei questionari compilati e ritornati è stato rilevante, superando le 300 unità.

Dati i criteri di distribuzione, non stupisce che il 92% abbia dichiarato di avere letto il nostro volantino e che di questi l’86% ne abbia condiviso i contenuti (evidentemente abbiamo rappresentato in termini realistici la situazione spesso drammatica del clima aziendale).

Subito dopo si passa alle domande sulle spinte verso gli obiettivi commerciali.

E’ interessante notare che, in una scala da 1 a 5,  il 52% colloca le pressioni del proprio punto operativo tra il 4 ed il 5 (e comunque con un 31% a livello 3), ma oltremodo significativo che questo dato aumenti ancora quando la domanda è riferita ai direttori di area:  il 62% dei colleghi  crocetta 4 e 5 (per un 20% di loro le pressioni sono intollerabili) ed il 26% si attesta sul livello 3.

Non è stato tempo perso ricordare ai lavoratori e alle lavoratrici che l’accordo sul sistema incentivante riferito al 2016 aveva alzato consistentemente la quota spettante ai direttori di area: il 63% non ne era conoscenza e supponiamo che non l’abbia presa bene…

I dati evidenziano qualche differenza tra filiali retail, personal e imprese, con le ultime due che danno risultati leggermente meno critici. Sarebbe peraltro interessante ripetere le domande oggi, dopo l’inizio scoppiettante del nuovo anno commerciale, per vedere se nel frattempo qualcuno non abbia già cambiato idea e si allinei al retail…

Interessante anche il dato sui problemi di salute legati allo stress lavoro correlato. In una scala da 0 a 5, la diffusione di questi problemi viene collocata dal 67% dei rispondenti tra 3 e 5 nel proprio punto operativo e la percentuale aumenta al 87% se riferito alla banca nel suo complesso. Anche in questo caso, nessuna pretesa di scientificità, ma una “percezione” molto forte della gravità del problema.

Alla domanda se i lavoratori e le lavoratrici dovrebbero coalizzarsi contro politiche commerciali troppo aggressive, il 64% risponde che sarebbe utile ma difficilmente praticabile, mentre quasi il 33% dice di sì e ci pare un bel dato da cui partire.

Allo stesso modo, alla domanda se la situazione lavorativa in azienda richiederebbe la risposta di un’azione di sciopero (e, soprattutto se c’è disponibilità ad aderirvi) oltre il 56% risponde in modo affermativo.

Quest’ultimo punto, che rappresenta un po’ il culmine di tutta l’indagine, è in sintonia con una voglia piuttosto diffusa di reagire, anche se questa si accompagna ad una richiesta di azione unitaria con sindacati che, a partire dalla fallimentare esperienza della casella “iosegnalo”, non mostrano una reale volontà di opporsi ad un sistema che, strutturalmente, poggia su un modello di servizio orientato a politiche commerciali aggressive. Ci riferiamo qui ai vertici dei sindacati firmatutto, restando ferma la nostra disponibilità a discutere e fare iniziative comuni con delegati di base degli altri sindacati che vogliano impegnarsi seriamente su questo terreno. Non a caso, anche nell’assemblea fuori orario del 9 marzo a Torino questo argomento è stato toccato più volte.

E’ ineludibile ormai un’iniziativa vertenziale, ben costruita da una tornata di assemblee, sul tema delle pressioni commerciali e del clima aziendale. Chiediamo ai lavoratori ed alle lavoratrici di aiutarci a spingere le organizzazioni sindacali, che hanno il potere di indirle in orario di lavoro,  di farsi carico di questo compito e passare dalle parole ai fatti.

 

C.U.B.-S.A.L.L.C.A.  Area Torino Intesa Sanpaolo

INTESA SANPAOLO. NUOVO FONDO PENSIONE A CONTRIBUZIONE DEFINITA PARTE 2 – LA GOVERNACE VA RIDISEGNATA

 

Ci sono molte cose ancora da fare, ma ci sono due punti in particolare sui quali vogliamo concentrare la nostra attività: sono quelli che caratterizzano la nostra presenza e che rappresentano la cartina di tornasole sulla quale andremo a valutare la nostra permanenza negli organi del Fondo.

Il primo aspetto è certamente quello di esercitare la massima pressione affinché questo CdA di nominati lasci spazio ad una rappresentanza realmente elettiva. Siamo infatti assai preoccupati che sia passato ben più di un anno ed ancora non siano nemmeno iniziati i contatti per definire modalità e tempi con cui indire democratiche elezioni dei rappresentanti dei lavoratori, come peraltro previsto negli accordi del 2015. Ricordiamo ai colleghi meno addentro alle questioni sindacali che tale contrattazione spetta unicamente alle organizzazioni che si autodefiniscono “istitutive” e non al CdA. Il termine istitutive è in realtà sostitutivo di “firmatarie di contratto”, in quanto è ormai ben chiaro a tutti (azienda in primis) che la nostra organizzazione sindacale è quantomeno altrettanto istitutiva delle altre, anche se ai tempi della nascita dei primi fondi pensione aziendali non eravamo presenti semplicemente perché ancora non esistevamo. Sono le antidemocratiche regole della rappresentanza sindacale, quindi, che non ci consentono di incidere direttamente su questo aspetto, anche se il nostro impegno sarà ovviamente rivolto a far si che le regole elettorali del nuovo Fondo consentano la più ampia partecipazione dei colleghi che vogliano auto-organizzarsi e una rappresentanza democratica e proporzionale.

Un secondo aspetto che riteniamo fondamentale cambiare è quello relativo alla gestione delle strutture del Fondo pensione. Nonostante la Banca abbia l’onere di garantire e finanziare le spese di struttura, occorre che venga data maggiore autonomia gestionale in capo all’ente previdenziale. Se è ovvio che la Banca voglia mantenere il controllo delle risorse, il CdA non può essere privo di voce in capitolo nel valutare l’adeguatezza delle strutture a disposizione e deve poter valutare l’operato quantomeno delle figure apicali (Direttore e primi riporti). A partire dalla nomina del Direttore, che come da consuetudine viene proposto dall’Azienda e sul cui nominativo si è sostanzialmente “liberi di essere d’accordo”, la stessa componente aziendale afferma che le risorse distaccate presso il Fondo Pensione sono in tutto e per tutto alle dipendenze del Fondo stesso. Se però le valutazioni, i premi, la carriera sono elementi che vengono gestiti unicamente dalla Banca, come tuttora avviene, è chiaro che, nella sostanza, il riferimento per chi lavora è l’Azienda e non il CdA.

Dopo aver ottenuto che vi sia l’alternanza nella nomina del Presidente del CdA (una volta appannaggio esclusivo dell’Azienda), occorre ora che anche la componente sindacale sia coinvolta nel processo di gestione delle risorse, in modo da consentire un effettivo controllo delle stesse, a prescindere da chi sostiene la spesa. Teoricamente, l’Azienda dovrebbe dichiarare il budget disponibile e poi lasciare che sia il Fondo stesso ad amministrare le risorse distaccate. Più concretamente, e come minimo, all’interno del CdA si dovrebbe costituire una commissione che si occupi delle questioni relative all’organizzazione ed alla gestione del personale, che svolge un ruolo fondamentale nella vita del fondo (i consiglieri passano, loro restano), e che dovrebbe contraddistinguersi per la piena autonomia operativa, senza alcun legame specifico con questa o quella componente. Potrebbe sembrare una questione marginale, ma in realtà l’indipendenza delle strutture, e dell’ente previdenziale in generale, è una garanzia per tutti e consentirebbe di conseguire una reale equiparazione tra le componenti aziendale e sindacale.

 

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Intesa Sanpaolo

 

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INTESA SANPAOLO. NUOVO FONDO PENSIONE A CONTRIBUZIONE DEFINITA. PARTE 1 – DOVE SIAMO E COSA SI STA FACENDO

Habemus papam. Iniziano così due mail che ci sono arrivate successivamente alla riattivazione del sito del fondo pensione. Altre parlano di parto “trigemellare”. In effetti, come spesso succede per molti progetti di questa Banca, alle roboanti ed entusiastiche affermazioni dei grandi capi seguono poi lunghi e faticosi percorsi per chi deve nella realtà dei fatti far funzionare le cose. Trasferire decine di migliaia di posizioni previdenziali che si sono consolidate negli anni, soggette a legislazioni tempo per tempo vigenti, è stato ovviamente un percorso tutt’altro che semplice e lineare. Ad oggi sono pochissime le posizioni ancora oggetto di verifica e questo dimostra che presto e bene raramente si possono accoppiare. È facile firmare accordi, mentre attuarli è, sempre più spesso, quasi impossibile. In questo caso la presenza di precise regolamentazioni non ha consentito, come per altri accordi, di sorvolare sulle questioni più scomode e spinose ed ha imposto un rigido protocollo di realizzazione.

Se un primo passo è stato fatto, ora diventa necessario concludere il lavoro attivando anche la parte dispositiva, ma molto probabilmente questa non verrà resa disponibile prima dell’introduzione dei nuovi comparti di investimento ai quali i colleghi potranno aderire.

La costruzione delle Asset Allocation dei comparti ha richiesto un percorso molto complesso ed anche in questo caso si è dovuto imporre una calendarizzazione dei lavori più estesa rispetto a quella inizialmente prevista. Anche in questo caso la fretta ed il rispetto dei tempi imposti dagli apparati hanno spesso condizionato il processo di definizione dei nuovi comparti ed è nostra opinione che alcune decisioni avrebbero meritato un maggiore approfondimento.

Ad esempio, la scelta di rinunciare al veicolo Sicav, è stata effettuata sulla base di considerazioni più politiche che tecniche e senza una valutazione prospettica di lungo periodo, privilegiando una soluzione che contiene i costi, ma che impone di rinunciare ad una maggiore efficienza operativa ed a una struttura di controlli più articolata. Purtroppo alcuni tentativi esterni di vincolare le scelte del CdA e la necessità di una revisione del veicolo lussemburghese “ereditato” dalla gestione del fondo ex SanpaoloImi, hanno sostanzialmente imposto di rinunciare a questo percorso. Siamo comunque convinti che la costituzione di una Sicav garantisca sia una maggiore efficacia nell’accesso dei mercati attraverso mandati specialistici, che di mantenere un maggiore controllo da parte del Fondo sull’allocazione strategica, piuttosto che demandarla a gestori multiasset. Per questi motivi auspichiamo che, una volta avviato il Fondo Unico e costituito un nuovo CdA, si possano ripensare e rivedere le scelte attualmente fatte.

Inoltre, la decisione di non attivare un comparto etico toglie un elemento distintivo dell’offerta agli aderenti ed è stata un’occasione persa per trasformarlo in un più moderno comparto “socialmente responsabile” ma anche su questo punto crediamo sia possibile, in considerazione della sensibilità dimostrata da molti consiglieri, intervenire nel prossimo futuro.

Anche la scelta di investire in azioni Banca d’Italia è avvenuta in maniera affrettata, senza alcuni dovuti approfondimenti, che sono stati richiesti, ma ancora non soddisfatti, e sulla base di ipotesi di adesione ai vari comparti che potrebbero essere anche smentite dal comportamento dei colleghi. Su questo tema abbiamo ricevuto diverse richieste di chiarimento da parte di colleghi giustamente sospettosi.

Al fine di supportare il processo di ricollocazione delle quote di partecipazione e di garantire appetibilità agli investitori, sono stati predisposti dei meccanismi (riserve) che dovrebbero consentire di stabilizzare nel tempo gli utili netti. L’obiettivo è mantenere un livello di remunerazione minimo intorno al 4-4.5% e tale valutazione è supportata dalla sostanziale stabilità patrimoniale e reddituale di BdI. Tecnicamente, quindi, i flussi finanziari dell’investimento sono molto simili ad una obbligazione perpetua, piuttosto che ad un’azione tradizionale, ed il rendimento, almeno nel breve termine, è interessante, se equiparato a titoli governativi di pari standard. Per questo motivo è stato previsto che tali posizioni siano prioritariamente utilizzate nei comparti con maggiore componente obbligazionaria, al fine di migliorarne il profilo reddituale. Per quanto riguarda le perplessità legate alla liquidabilità della posizione, a valle del complessivo consolidamento della partecipazione azionaria, è stato previsto l’avvio di un mercato secondario nel quale 3 operatori garantiranno sia la formazione del prezzo, sia la scambiabilità, almeno fino ad un certo ammontare per settimana.

Il principale rischio di questi titoli è legato al limite di redditività ovvero al limite del 6% previsto come remunerazione massima del capitale. Infatti, in caso di rialzo dei tassi, è come avere un titolo a reddito fisso a lunga/lunghissima scadenza ed ovviamente in tali casi il prezzo ne risentirebbe ma la patrimonializzazione implicita (post aumento di capitale) dovrebbe garantire la tenuta. Un’altra variabile da tenere in considerazione è legata all’attuale struttura dei proventi che derivano in buona parte dalle operazioni di supporto al sistema … non è detto che dureranno per sempre! Per questi motivi, la posizione deve essere gestita con attenzione nel tempo, monitorando con attenzione i principali fattori di rischi impliciti.

In sintesi, in questo caso, non ci pare di ravvisare rischi particolari rispetto a quelli che già tutti sosteniamo nel momento in cui accettiamo che i nostri risparmi previdenziali siano esposti alle follie dei mercati finanziari …

Smarcate (in qualche modo, e si sarebbe potuto fare meglio) le tematiche più tecniche relative alla costruzione dei profili di investimento, sta per iniziare la delicata fase della scelta dei gestori a cui affidare i vari “pezzi” (la “asset class”) in cui è suddiviso il portafoglio di investimento. Anche in questo caso si prospetta una calendarizzazione serrata, che dubitiamo consentirà di analizzare a fondo i risvolti tecnici di alcuni complessi mandati, soprattutto a quei consiglieri con minore sensibilità e competenza sui temi finanziari.

Per nostra fortuna le masse investite sono così “appetibili” che molte tra le più grandi case di investimento hanno dimostrato il loro interesse ad acquisire i mandati sui quali è stata effettuata una pubblica offerta. Insomma qualunque sarà la scelta, essa non potrà che ricadere su primari intermediari ed il percorso stesso garantirà il rispetto di precisi standard. La definizione di un limite di concentrazione consentirà di differenziare i gestori e garantirà una almeno teorica concorrenzialità tra gli applicanti. Inoltre, il meccanismo di determinazione del gestore a cui affidare i nostri soldini è stato differenziato e, per alcune casistiche, il confronto avverrà analizzando più le performance e la qualità dell’operatore di mercato, che il mero profilo commissionale. Se ciò consentirà di scegliere il migliore, dipenderà dalle scelte dei consiglieri aziendali ed elettivi e dalle loro competenze …

L’attuale pianificazione prevede che già in estate i nuovi profili di investimento siano operativi e si avvicina quindi il momento nel quale ognuno di noi dovrà decidere se il nuovo comparto che gli verrà proposto in sostituzione all’attuale sarà di suo gradimento o meno. Restiamo comunque scettici sulle tempistiche, ma sarà nostra cura fare in modo che le scelte degli iscritti al Fondo possano avvenire nel modo più informato possibile, così da garantire ad ognuno la possibilità di decidere in modo razionale.

Diversamente da alcune altre sigle, che si sono arbitrariamente appropriate della primogenitura di alcuni passaggi della vita del Fondo, vogliamo sottolineare che praticamente tutte le scelte sono state largamente concordate. Non possiamo certo dire che sia stato semplice o indolore, ma sicuramente molte decisioni sono state assunte anche grazie alla nostra partecipazione, alle competenze anche tecniche che abbiamo garantito ed alle sensibilità che abbiamo rappresentato. Il nostro rappresentante ha dovuto, non raramente, ingoiare rospi indigesti; ma riteniamo che in alcuni passaggi la nostra presenza abbia avuto un ruolo tutt’altro che secondario ed il risultato finale ne esca sensibilmente migliorato.

 

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INTESA SAN PAOLO: OLTRE IL LIVELLO DI GUARDIA

L’inizio del nuovo anno ha comportato in Intesa Sanpaolo un altro giro di vite sulle pressioni commerciali. Archiviato il 2016 con le ultime operazioni straordinarie, spostati centinaia di direttori e capi area per tenere sotto pressione la truppa ed alta la motivazione dei manager, respinte le richieste governative d’intervento per tenere in piedi qualche altra banca fallita, i vertici aziendali hanno  ripreso a fare quello che sanno meglio: martellare il personale per aumentare le vendite.

Mentre matura l’o.p.s. amichevole sulle Generali per evitare che l’ennesimo gioiello italiano  prenda la strada dell’estero, c’è il problema di restare forti per non essere a propria volta scalati. Occorrono fatti concreti, non basta affabulare gli azionisti promettendo 3,4 miliardi di dividendi per il 2017. Per fare profitti record in un paese stremato, si può solo pigiare l’acceleratore sulla rete di vendita e continuare ad “estrarre valore” da una clientela il più delle volte  esausta, delusa, impaurita, sfruttata. Non solo le filiere personal o retail, ma anche le filiali imprese sono investite da un tornado di richieste impressionanti.

L’azienda ha voluto l’accordo sulle assunzioni ibride, per introdurre un precedente che modifica in prospettiva tutto l’assetto contrattuale: la banca si riduce a rete di vendita e lo stipendio si riduce  a commissione sul venduto. Il programma ABI del 2013 diventa realtà: s’introducono forme di lavoro autonomo, retribuite a provvigione. Al calo di redditività si risponde con un abbassamento dei costi fissi. L’incertezza e l’instabilità economica si scaricano sulle spalle dei dipendenti.

Il riposizionamento sul mercato procede anche attraverso nuovi salti in avanti: per allargare il giro di ricavi e clienti arriva la Banca dei Tabaccai  (la nuova “Banca 5”, che segna, di fatto, il fallimento dell’esperienza). La novità, poco sorprendente, è che bisogna vendere più di prima (molto più di prima) i favolosi prodotti del risparmio gestito  e della filiera assicurativa.

Detto, fatto: parte la campagna sulla priorità delle priorità con centinaia di clienti da contattare entro una settimana per raggiungere gli ennesimi obiettivi sfidanti, in primis  un miliardo di ricavi in più entro il 31 marzo! Si sa, c’è la trimestrale, e non  ci si può presentare  agli analisti con dei dati deludenti…

A inizio febbraio è trascorsa così la settimana più allucinante per i consulenti Intesa  Sanpaolo, che hanno dovuto abbandonare tutto il resto per concentrarsi sulle priorità: prestiti, a.f.i. e soprattutto risparmio gestito. Ordine di scuderia: contattare tutti i clienti in campagna entro venerdì 11 febbraio.  Prodotto d’eccellenza da offrire ad una selezionata platea di clienti:  una polizza ridicolmente denominata “La tua scelta”. Si tratta di una polizza mista, un po’ ramo I e un po’ ramo III, a vita intera  ed una protezione del capitale al 91% su un arco temporale di 7 anni: un prodotto adattissimo da proporre ad una clientela terrorizzata, che non se la sente neanche di investire in prodotti garantiti, con orizzonti temporali cortissimi!

L’ordine di scuderia “è già stato eseguito”: impossibile per i consulenti sottrarsi ai comandi, perché le Direzioni di Area, impegnate a monitorare giornalmente le percentuali di lavorazione, hanno minacciato di entrare sulle agende e sui clienti in campagna (come se non l’avessero mai fatto…), per verificare l’autenticità dei contatti!

Ci piacerebbe sapere come vengono selezionati i responsabili della fabbrica prodotti e soprattutto quelli che individuano i potenziali target di clientela interessata… sarebbe bello se venissero ogni tanto a farsi un giro in filiale e parlare con un cliente non solo “potenziale”!

E’ assurdo lavorare in questo modo, pretendere l’applicazione rigida di un metodo commerciale ormai sterile, inefficace e controproducente. Sei appuntamenti al giorno possono rivelarsi del tutto inutili se legati ad algoritmi modellizzati: è meglio un appuntamento solo, ma ben preparato, efficace, fruttuoso. Funziona meglio un metodo che si affidi alla professionalità del consulente, alla sua conoscenza della clientela, alla sua capacità di trovare soluzioni sensate ad esigenze specifiche, rispetto ad un metodo quantitativo che schiaccia le reali necessità dei risparmiatori dentro il tritacarne del nostro conto economico e l’impellenza di “riempire le caselle”.

A cosa serve assegnare  venti diverse priorità, tra a.f.i., risparmio gestito,  nuovi clienti,  focus commerciale, sei ok, e via delirando, quando manca  il tempo per reggere il quotidiano, le incombenze amministrative, le pratiche di successione, non parliamo di curare la formazione e conoscere davvero i prodotti che si vogliono vendere?

A che serve continuare a correre all’impazzata dentro un  treno fuori controllo, con conduttori sempre più isterici, che chiedono di continuo dati che avranno comunque in automatico dopo qualche ora, con l’unico effetto di stressare ulteriormente una rete di vendita già provata da anni di pressioni insostenibili?

E’ ora di dire basta a tutto questo e provare a reagire con strumenti nuovi. Abbiamo sperimentato sulla nostra pelle il fallimento dell’accordo sulle pressioni commerciali siglato ormai 16 mesi fa. L’istituzione della casella iosegnalo@intesasanpaolo.com non è servita a nulla: nessuno ha mai chiarito dove finissero le poche mail spedite da colleghi sfiduciati e diffidenti, da chi e come venissero gestite, quali conseguenze avessero sui responsabili di abusi, quali sanzioni venissero applicate. Quello che non ha funzionato in Intesa Sanpaolo viene oggi esteso a tutto il sistema, con un accordo in sede ABI, ma solo l’ipocrisia generale può vantare come un successo quest’ ulteriore passaggio che rappresenta l’ennesima presa in giro.

Centinaia di delegati sindacali e strutture territoriali delle sigle firmatarie dell’accordo, hanno scritto migliaia di volantini  da cui traspare la sua sostanziale e diffusa disapplicazione: è  l’ammissione implicita della sconfitta. D’altronde, i vertici sindacali che hanno appena firmato l’accordo sulle assunzioni miste hanno perso ogni credibilità nel contrasto delle politiche commerciali aggressive.

Serve un salto di qualità. I lavoratori ed i rappresentanti delle altre sigle in buona fede devono, insieme a noi, operare per documentare nella maniera più precisa possibile comportamenti inappropriati e al di fuori dei princìpi etici, formalmente definiti dall’azienda, quando, addirittura, non sanzionabili sul piano legale.

Di fronte a fatti provati cercheremo di  inchiodare i vertici aziendali alle proprie responsabilità. In ultima istanza resta sempre la possibilità di ricorrere ad esposti e denunce alle autorità competenti.

Dobbiamo coalizzarci per resistere, quotidianamente, in ogni punto operativo, a richieste assurde ed insensate.

Perché non esigere la reale applicazione dell’accordo con l’unico rimedio davvero risolutivo: rendere i budget assegnati coerenti con la reale capacità del mercato di assorbirli e dei lavoratori di realizzarli?

Bisogna mettere testa in quello che si fa e non sparare a casaccio: in guerra vince chi si concentra su pochi obiettivi, utili, ragionevoli, raggiungibili. Puntare a vendere tutto a tutti, senza neanche conoscere in dettaglio quello che si vuole collocare, è sintomo di approssimazione e delirio di onnipotenza.

Come  lavoratori dobbiamo cominciare ad agire sul tema delle pressioni, che è per noi tutti la priorità delle priorità: ne va della serenità del clima lavorativo, dell’integrità della nostra prestazione professionale e della sopravvivenza dell’azienda in cui lavoriamo. E’ urgente parlarne con tutti, iscritti, lavoratori, responsabili,  delegati di altre sigle sindacali “di buona volontà”.

A Torino, il 9 marzo, l’assemblea cittadina (di cui comunicheremo a breve il luogo di svolgimento) sarà la prima occasione per provarci.

 

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f.i.p. 21.02.2017

ACCORDO INTESA SANPAOLO SULLE ASSUNZIONI “MISTE”: COME PREPARARE LA DISTRUZIONE DELLA CATEGORIA RIVENDICANDO LA TUTELA DEI PROMOTORI

 

Il punto più importante e controverso dell’accordo sul Protocollo per lo sviluppo sostenibile del Gruppo Intesa Sanpaolo sono le nuove assunzioni di personale iscritto all’albo dei promotori. I
nuovi assunti lavoreranno part time come dipendenti, due o tre giorni alla settimana ed
i restanti come promotori, cioè lavoratori autonomi.

Quello che per i sindacati firmatutto è un positivo ed innovativo accordo, che consente ai lavoratori autonomi (i promotori assunti nell’occasione) di poter godere, in misura molto limitata, di malattia, infortunio e maternità, nonché del “welfare aziendale” (previdenza e sanità integrativa, ma solo nella “veste” di dipendenti), per noi è l’apertura di un processo che, nelle intenzioni aziendali, porterà ad avere lavoratori della rete commerciale con sempre meno stipendio fisso e garantito, su cui scaricare il rischio d’impresa (niente risultati, niente reddito) e risolvendo così il problema delle pressioni alla vendita (i nuovi assunti si “presseranno” da soli).

E’ il caso di ricordare che, in occasione dell’ultimo rinnovo del CCNL, nel documento sulle posizioni ufficiali dell’Abi era ben evidenziata la richiesta di utilizzo più ampio di rapporti di lavoro autonomo per gli addetti alla rete”.

Non ci pare un eccesso di dietrologia ipotizzare che questo accordo potrebbe essere la prima tappa per arrivare al risultato finale voluto dai banchieri. Altrimenti perché mai Intesa Sanpaolo ci teneva tanto a fare queste assunzioni stravaganti, mettendo insieme, nella stessa persona, le figure, totalmente diverse, del dipendente e del promotore?

La motivazione ufficiale dell’azienda di fare queste assunzioni come strumento per acquisire nuove masse gestite non ci convince, così come la possibilità per i nuovi assunti di chiedere, alla fine dei due anni, la conferma come dipendenti, che Intesa Sanpaolo potrà accogliere entro nove mesi con assunzione nell’ambito della regione o di quelle adiacenti.

La filosofia dell’operazione è ben visibile in queste dichiarazioni del segretario della Fabi Sileoni (ma immaginiamo condivise dagli altri firmatutto), rilasciate pochi giorni prima della firma dell’accordo  “In questi giorni, all’interno del gruppo Intesa, le organizzazioni sindacali stanno discutendo sull’opportunità di dare stabilità contrattuale e professionale a quei dipendenti assunti anche con contratto da promotori finanziari (in Intesa sono oltre 5mila, nel settore bancario italiano oltre 40mila). Prevedere nuove flessibilità contrattuali e nuove attività professionali sarà un percorso obbligato per mantenere gli attuali livelli occupazionali del settore e il movimento sindacale, tutto, se ne deve fare una ragione perché è nell’interesse del sindacato allargare il proprio campo d’azione e tutelare al meglio più tipologie di lavoratori, ad iniziare dai giovani. Il Contratto di lavoro scade a dicembre 2018 – conclude – ma le condizioni per un cambiamento radicale devono essere discusse ora perché, nei vari piani industriali, troppe aziende stanno andando in deroga al contratto collettivo nazionale di lavoro”.

E’ davvero grottesco che i sindacati al tavolo, incapaci di difendere i dipendenti di banca, si vantino di voler tutelare i promotori, finendo per agevolare l’obiettivo finale dei banchieri di avere una categoria sempre più debole e ricattabile.

Un obiettivo da raggiungere gradualmente, perchè i banchieri sanno che se la rana viene messa a cuocere nell’acqua tiepida, anziché bollente, non si accorgerà di cosa sta succedendo, ma gli scenari che si aprono sono inquietanti per tutta la categoria.

Grave il contenuto dell’accordo, grave il metodo: ancora una volta, senza consultare i lavoratori e senza chiedere alcun mandato, hanno fatto tutto da soli, come nel contratto del 2012, quando firmarono la manovra sugli orari, con le filiali aperte fino alle 20 ed al sabato mattina con i turni.

La democrazia sindacale è morta, la categoria è allo sbando, siamo rimasti solo noi a difendere il fortino. Aspettiamo i rinforzi.

 

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Banco di napoli: filiali al freddo INACCETTABILE

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Come accade almeno due volte l’anno, ancora una volta assistiamo alla pantomima dell’aria condizionata. Locali caldi in estate e freddi in inverno. Decine di telefonate alle strutture aziendali competenti, elenchi lunghissimi di punti operativi da visitare, attese di giorni e i disagi per i lavoratori persistono.

La risposta più irritante, in tali casi, è: se fuori aumenta il caldo evidentemente anche all’interno aumenta la temperatura. Viceversa con il freddo. Figuriamoci con il gelo di questi giorni.

Replichiamo a queste opinabilissime eccezioni che, in casa di ognuno di noi (almeno tra tutti quelli che hanno il privilegio di possedere climatizzatori) questo differenziale non esiste: se all’esterno la temperatura è caldissima, all’interno si regola il condizionatore in modalità corrispondente e non si avverte il picco esterno, seppur limitato nel tempo. Se all’esterno la temperatura è rigida e va sottozero, all’interno si può anche stare in maniche di camicia.

Perché tutto ciò non può accadere nei luoghi di lavoro e, segnatamente, in tanti punti operativi del Banco di Napoli? Perché non consentire, dappertutto incondizionatamente, che i punti operativi possano calibrare la temperatura interna sulla scorta delle proprie esigenze?

E‘ utile richiamare il codice etico (approvato dal CdA del gruppo) che al capitolo “Principi di condotta nelle relazioni con i collaboratori”, paragrafo “il rispetto delle persone”, al penultimo alinea così recita: “rendiamo più agevole il lavoro semplificando prodotti, procedure e forme di comunicazione e garantiamo la salute e la sicurezza con misure sempre più efficaci”.

E’ utile richiamare il D. Lgs. 81/2008 (T.U. sulla salute e sicurezza sul lavoro) che al Titolo II Capo I  All IV (requisiti dei luoghi di lavoro) al punto 1.9 (microclima) comma 1.9.2 (temperatura nei locali) così recita:

“la temperatura nei locali di lavoro deve essere adeguata all’organismo umano durante il tempo di lavoro, tenuto conto dei metodi di lavoro applicati e degli sforzi fisici imposti ai lavoratori. Nel giudizio sulla temperatura adeguata per i lavoratori si deve tener conto della influenza che possono esercitare sopra di essa il grado di umidità ed il movimento dell’aria concomitanti. Quando non è conveniente modificare la temperatura di tutto l’ambiente si deve provvedere alla difesa dei lavoratori contro le temperature troppo alte o troppo basse mediante misure tecniche localizzate o mezzi personali di protezione”.

E’ utile richiamare l’ l’INAIL che  raccomanda di mantenere negli uffici una temperatura di almeno 18° e massimo 22° in inverno. In estate la differenza tra temperatura esterna ed interna non deve superare i 7°.

Dobbiamo ancora fare leva sulla pazienza e tolleranza dei lavoratori, vederli in canottiera in estate e con i giacconi in inverno, o possiamo pretendere il rispetto delle norme vigenti e dell’esercizio del buon senso ?

 

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