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27 OTTOBRE: SCIOPERO GENERALE

Lo sciopero generale indetto per venerdì 27 ottobre da molte Organizzazioni Sindacali di Base, tra cui la C.U.B., riveste una particolare importanza per tutto il mondo del lavoro in Italia. Vuole essere una giornata di lotta che riporta in campo il conflitto, che non è uno strumento del passato, obsoleto ed inefficace, ma l’unico modo che abbiamo per difendere e far valere i nostri interessi. Vogliono farci credere che lottare sia inutile, che dobbiamo rassegnarci all’insicurezza, alla paura, alla precarietà, alle decisioni altrui, al dispotismo delle aziende, alla subalternità dei sindacati collaborativi, alla mancanza di democrazia sindacale, alle leggi che reprimono gli scioperi, all’assenza di alternative.

Invece scioperando noi diciamo che vogliamo un futuro diverso, stipendi più alti, pensioni decenti, vite lavorative più brevi, contratti di lavoro più stabili, orari ridotti, modelli di sviluppo espansivi e sostenibili. Anche in banca è ora di dire basta e chiedere una svolta: ritornare ad assumere e sostituire gli esodati (senza i contratti “ibridi”); eliminare le pressioni commerciali; alzare gli stipendi, in particolare del personale più giovane; ripristinare livelli di servizio adeguati, riprendere a fare credito all’economia reale, che non è certo mettere un camper sportello nelle zone terremotate (questa è solo pubblicità).

Impegnarsi tutti per una buona riuscita dello sciopero significa anche ribadire il ruolo centrale che devono avere gli interessi dei lavoratori in un settore investito dalla crisi, che dovrà affrontare a breve un CCNL delicato e impegnativo. Alleghiamo il nostro volantino che espone in modo analitico le ragioni dello sciopero.

Monte dei Paschi: la carota delle parole, il bastone dei fatti

Se la realtà fosse costituita dalle parole, i dipendenti del Monte dei Paschi di Siena non avrebbero eguali tra tutti i lavoratori, in termini di considerazione da parte dei vertici aziendali. A loro è stato più volte riconosciuto il grande merito di avere permesso alla banca di navigare nei mari tempestosi che conosciamo.

Ma la realtà, purtroppo, ha il brutto vizio di non riuscire ad adeguarsi al vestito che le parole le cuciono addosso. Per quanto il miglior sarto si prodighi nell’occultarne le vere forme, queste rimangono tali.

E’ così che, dagli strappi di quel vestito fatto di parole piene di gratitudine, encomio, riconoscimento, è fuoriuscito un vecchio e nodoso bastone.

Una prima cucitura è saltata con la proposta di introdurre, in via sperimentale, l’utilizzo del badge. I passaggi registrati non saranno solo ad inizio e fine giornata. Ma anche quelli intermedi.

Quei lavoratori che nell’eloquio aziendale sono quasi degli eroi, vanno controllati nei loro movimenti, minuto per minuto. Perché? I sindacati firmatari, che potrebbero essere interessati a porre questo quesito, non sono dello stesso avviso, evidentemente.

Una seconda cucitura si è lacerata attraverso le modalità utilizzate per “convincere” i colleghi ad aderire all’esodo volontario. E’ stata adottata la forma più raffinata delle relazioni aziendali: la minaccia. A chi lasciava intendere una mancata adesione, è stato prospettato un trasferimento in luoghi disagiati e logisticamente difficili da raggiungere.

Anni infernali, quelli vissuti dai lavoratori del Monte dei Paschi, che hanno lasciato, in molti di loro, segni profondi. Esaurimenti o vere e proprie depressioni, vissute spesso in silenzio.

Assume quindi un valore beffardo l’invio di lettere di revoca della franchigia relativa alla presentazione di certificato medico per i primi tre giorni di malattia. Il comunicato unitario dei sindacati firmatari, pur evidenziando l’odiosità di una misura che colpisce, nella quasi totalità, dipendenti che rientrano al lavoro prima del previsto per senso di responsabilità, non va oltre la blanda richiesta di aumentare il periodo di riferimento del monitoraggio a due anni, senza nemmeno provare ad argomentare che la regola della franchigia non ha impedito lo sviluppo della banca e che nessun nesso, a meno che non si voglia mistificare completamente la realtà, è mai esistito tra questioni attinenti la quantità e la qualità del lavoro dei dipendenti del Monte dei Paschi e le sabbie mobili in cui esso si è impantanato. Dunque perché, adesso, divengono centrali aspetti concernenti il controllo della forza lavoro?

Come noto, la totale assenza di democrazia sindacale nel settore bancario ha pesato fortemente sulla perdita di diritti e salario dei lavoratori, nel periodo apertosi con la privatizzazione del sistema creditizio. Adesso però risulta arduo non vedere la trasformazione delle organizzazioni sindacali firmatarie in enti para-aziendali, organicamente integrati nell’esecuzione della governance dettata dal management.

Un fulgido esempio ce lo offre un punto dell’accordo sui prepensionamenti, nella parte che prevede un finanziamento della banca per i lavoratori esodati, nel caso in cui una legge intervenga nel frattempo, modificando i requisiti di accesso alla pensione. Una sorta di anticipo pensionistico oneroso, analogo a quello realizzato dal governo. Vale la pena ricordare, visti i tempi che viviamo, che la pensione è salario differito. Far pagare un interesse, sul proprio salario, che non si riesce a percepire, nell’ipotesi che una norma di legge varata dai rappresentanti politici del capitale, ne posticipi il godimento pur dopo 42, 43 o più anni di lavoro, è un’infamia che si traduce nella cessione di pezzi di quel salario alla rendita finanziaria.

Anche in questo caso i sindacati firmatutto non hanno nulla da eccepire sull’introduzione perniciosa del principio. Chiedono solo che il tasso d’interesse, previsto al 4,50%, venga…ridotto.

Quello a cui si assiste al Monte dei Paschi è un avvitamento autoritario, repressivo, che configura una forte regressione nei rapporti capitale-lavoro. E questo proprio nel momento in cui quel capitale diviene sostanzialmente pubblico, con il Ministero dell’Economia e delle Finanze assurto ad azionista di riferimento. Una nazionalizzazione finora accompagnata da forme di attacco ai diritti e alla dignità dei lavoratori, che nulla di buono lascia presagire. Ma su questo aspetto, la nazionalizzazione e le possibili azioni dei lavoratori che facciano perno su di essa, ritorneremo. La nostra voce non si spegnerà. Ma per farla pesare, abbiamo bisogno del vostro sostegno.

 

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Gruppo MPS

RESET G7

Dal 26 settembre al 1^ ottobre i ministri di Italia, Francia, Germania, Stati Uniti, Canada, Giappone e Regno Unito si riuniranno alla Reggia di Venaria per discutere ufficialmente di scienza, industria e lavoro, ma in realtà per proseguire nel progetto politico che prevede lo smantellamento totale dei diritti dei lavoratori, la compressione dei salari, la polverizzazione del welfare e dei servizi sociali e previdenziali. Lo sviluppo tecnologico nel modello economico dominante diventa uno strumento per aumentare i profitti e contemporaneamente ridurre gli occupati. Il governo italiano persegue questa politica in obbedienza ai diktat europei e la attua da tempo tramite leggi che svuotano i diritti del lavoro (Fornero, Jobs Act), impoveriscono lo stato sociale e i servizi pubblici (“buona scuola”, riduzione dell’assistenza sanitaria, tagli alle pensioni e allungamento dell’età pensionabile), stravolgono i cardini democratici e costituzionali (obbligo del pareggio di bilancio, riforma della Costituzione – sonoramente bocciata dal Referendum popolare del 4 dicembre 2016). Il G7 Lavoro si svolge a Torino (anzi a Venaria, per paura di proteste): un’area metropolitana che dopo aver subito 100 anni di sfruttamento industriale è ora avviata ad una complicata trasformazione, che implica anche desertificazione produttiva e marginalizzazione sociale di massa. A Torino la Fiat si sta ritirando da ogni impegno produttivo, mentre le istituzioni pubbliche sono gravate da debiti mostruosi, che possono portare al dissesto. Intanto servizi e investimenti rappresentano occasione di appalti e di saccheggio da parte di consorzi e gruppi economici, che propongono contratti di lavoro in cui tutto (orari, turni, preavviso di chiamata, ferie, permessi) è aleatorio e in cui l’unica cosa certa per il lavoratore è l’obbligo a rimanere sempre e comunque “a disposizione”, ringraziando per il tozzo di pane guadagnato. Qui si utilizzano i trasferimenti a centinaia di chilometri di distanza come arma di ricatto per fare accettare sconvolgimenti di orari e sottrazione di diritti, oppure si impongono ai lavoratori come “incentivo” all’esodo. La più sfrenata “flessibilità” in mano ai padroni non frena affatto la chiusura di fabbriche e uffici, ma anzi la incentiva e la rende logica e naturale. Contro tutto questo il sindacalismo di base organizza un corteo dei lavoratori Venerdì 29 settembre con partenza alle ore 17.30 da Porta Palazzo (Corso Giulio Cesare – Ex stazione Torino Ceres) in direzione Giardini di Via Montanaro (Barriera di Milano)

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Credito e Assicurazioni

CARIGE: AGGIORNATO IL PIANO INDUSTRIALE

Il 14 settembre Carige ha reso noto un aggiornamento del piano industriale al 2020,
in sintesi una nuova cura “lacrime e sangue”. Altre 63 filiali da chiudere, in aggiunta
alle 58 già chiuse tra il 2016 e luglio 2017. 842 dipendenti in esubero, con la
previsione di scendere dai 4.742 attuali ai 3.900 finali (in pratica uno su cinque
viene messo fuori). Esodi incentivati, part-time e cessione di attività gli strumenti
individuati per portare l’azienda in utile già nel 2018, razionalizzando la rete e
facendo “efficienza operativa”. A latere un taglio delle obbligazioni subordinate di
entità ancora sconosciuta ed un aumento di capitale da 560 milioni di euro dall’esito
incerto, visto che l’esigente famiglia Malacalza, azionista di riferimento dopo i
disastri dell’era Berneschi, ha già perso nell’investimento in Carige 230 milioni di
euro e non sembra intenzionata a mettere altri soldi, né assistere indifferente al
diluirsi del suo 17,8% di quota. Nell’immediato, vendita dei pochi gioielli di famiglia
rimasti, come l’immobile che ospita la sede di Milano e che dovrebbe fruttare oltre
100 milioni di euro, per fare un po’ di cassa a breve.
Persino il segretario della FIRST-CISL si è sentito in dovere di intervenire nella
vicenda Carige:
“Siamo stupefatti che, nell’individuare quale elemento fondamentale di rilancio della
banca la presenza di una base di clienti resiliente e fedele, ci si accanisca contro i
lavoratori, ossia coloro che hanno permesso che questa fedeltà si mantenesse,
rimediando ai danni reputazionali provocati dalle cattive gestioni dei
vertici”.“Volontarieta’ e sostenibilita’ sociale devono essere i punti fermi della
gestione delle ricadute occupazionali – aggiunge Romani -, mentre e’ chiaro che
non ci sono spazi per ulteriori sacrifici retributivi in una banca che ha gia’ un livello
di costo unitario del personale al di sotto della media di sistema in virtu’ dello
straordinario senso di responsabilita’ mostrato in questi anni dai lavoratori e dal
sindacato.Piuttosto – conclude Romani -, osserviamo che ancora una volta ci
troviamo di fronte a stantie formule basate sul taglio di dipendenti e di filiali, sulla
cessione degli npl, su esternalizzazioni di professionalita’ e sulla mera
riorganizzazione dei processi e dei modelli organizzativi, mentre poco o nulla si
innova dal lato dei prodotti e dei servizi”.
Non c’è da stupirsi se viene sempre chiesto ai lavoratori di sacrificarsi: sono l’unico
soggetto che ha una rappresentanza sempre disponibile a cedere. I soci non
accettano di tirare fuori nuovi soldi, le autorità di governo accettano i diktat dell’UE
e le conseguenze del bail-in, le altre banche sono impegnate a tirarsi fuori dai guai
per conto loro, la Banca d’Italia sostiene di aver vigilato bene, il presidente dell’ABI
Patuelli professa ottimismo, sull’onda del mantra ”la crisi è finita”.
Per le sorti di Carige varrebbe la pena prendere in considerazione ipotesi di scenari
avversi e la necessità di puntare su soluzioni istituzionali sul modello Monte dei
Paschi di Siena, per prevenire disastri come nel caso delle banche venete. Anche
tra catastrofi abbiamo dovuto purtroppo imparare a distinguere…

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Gruppo Carige

PETIZIONE A FAVORE DEI LAVORATORI A TEMPO DETERMINATO DELLE EX BANCHE VENETE: MANDATI VIA DAL “PIU’ BEL POSTO DOVE LAVORARE”?

DA CUB SALLCA INTESA SANPAOLO
a iscritti/e, lavoratrici e lavoratori

 La vicenda delle ex banche venete ha un aspetto poco conosciuto: vi sono decine e decine di lavoratori a tempo determinato che hanno perso o stanno per perdere il lavoro. Siamo venuti a conoscenza di iniziative di lavoratori, di varie realtà territoriali, per sostenere la causa di questi colleghi meno fortunati.

Sotto vi proponiamo un appello da leggere e, nel caso da condividere, inviando una mail a sallca.cub@sallcacub.org scrivendo “aderisco”, indicando nome, cognome, matricola e luogo di lavoro.

E’ stata lanciata da alcuni lavoratori di Intesa Sanpaolo (e poi ripresa da strutture locali dei sindacati firmatari) una petizione per chiedere alla delegazione trattante per gli esodi nelle banche venete di prendere in considerazione, nel corso delle trattative, il problema della mancata conferma di lavoratori con contratto a termine, in scadenza o scaduto da poco, tra cui alcuni dipendenti assunti in base alla Legge 68/99 che disciplina l’assunzione di lavoratori disabili.

I sottoscritti lavoratori e lavoratrici condividono questa richiesta anche perché, come giustamente viene ricordato nell’appello, l’operazione di salvataggio delle banche venete è avvenuta con robusti contributi pubblici.

In un recente video, relativo ad una riunione di direttori di Area, Stefano Barrese ricordava come l’intervento di Intesa Sanpaolo abbia evitato licenziamenti. Riteniamo che se la banca, al di là dei contributi ricevuti per la gestione degli esodi volontari, volesse impegnarsi per risolvere i problemi di questi giovani precari, che hanno lavorato fianco a fianco con i lavoratori “salvati”, dimostrerebbe in modo più concreto la propria vocazione etica.

Brevi considerazioni sugli “esodi” al Monte Paschi

DA CUB SALLCA GRUPPO MPS
a iscritti/e lavoratrici e lavoratori

La firma dell’accordo per l’accesso al Fondo di 1200 colleghi, come quota per il 2017 dell’attuazione del Piano di Ristrutturazione 2017-2021, si presta ad alcune considerazioni

E’ evidente che la situazione di crisi di MPS non dipende dai lavoratori, ma dalle scelte sciagurate del management. E’ peraltro noto che in questo paese chi sbaglia, stando in alto, non paga mai ed infatti il prezzo degli errori è stato pagato dai lavoratori, con accordi che hanno azzerato il contratto integrativo e portato all’esternalizzazione di un migliaio di lavoratori (su questo torneremo).
Un esodo su base volontaria, quindi, non è certo la peggior sciagura capitata finora ai lavoratori di MPS. Eppure un dettaglio fastidioso (per usare un eufemismo) c’è anche qui. Laddove si ipotizza un eventuale cambiamento delle regole pensionistiche durante la permanenza nel fondo (allungamento dell’età pensionabile), l’accordo prevede un generico impegno delle Parti a reincontrarsi, ma, nel frattempo, si offre ai lavoratori in difficoltà l’opportunità di accedere ad un prestito, fino al raggiungimento della pensione, al modico tasso del 4,50% (si veda allegato). Davvero una condizione di maggior favore ai dipendenti nell’epoca dei tassi negativi!

Sempre nell’accordo, si cita “l’importanza di un coinvolgimento attivo del Sindacato”. Vista questa generosa disponibilità aziendale, perchè non utilizzarla, come primo gesto, per discutere del reintegro degli oltre 1.000 dipendenti esternalizzati in Fruendo di cui parlavamo all’inizio?
Un obiettivo che sanerebbe un’operazione illegittima (come già stabilito da numerose sentenze di secondo grado), porrebbe fine al trascinarsi del contenzioso legale, soprattutto ribadirebbe un principio che i sindacati dovrebbero sempre tenere come stella polare del loro operato, l’unità del processo produttivo, contro ogni tentativo di spezzettarlo in modo strumentale.

BANCHE VENETE E MONTE PASCHI: CRONACHE DI UNA MORTE ANNUNCIATA

Alla fine è avvenuto quello che era largamente prevedibile: le banche venete sono fallite e sono state azzerate, il Monte dei Paschi di Siena è stato nazionalizzato con la procedura di risoluzione e lo stato si fa carico di un disastro senza precedenti.

I venti miliardi stanziati a fine anno per risolvere i casi disperati saranno utilizzati a piene mani per prevenire una crisi di tipo sistemico che avrebbe potuto assumere dimensioni disastrose. Paghiamo anni d’inerzia e d’ipocrisia, di mancanza di controlli, di complicità politiche e storture istituzionali, di latitanza dei sindacati trattanti e di vincoli giuridici assurdi.

Lo Stato e quindi noi, come contribuenti, pagheremo il costo più salato (non meno di 12-15 miliardi), mentre come dipendenti bancari, ancora noi,  saremo tutti chiamati a contribuire al risanamento tramite la sopportazione di tagli di costo che devono ancora essere quantificati.

Proviamo a ricostruire come si è arrivati a questa tragica conclusione e quale futuro ci attende per i prossimi mesi.

La crisi delle banche italiane è emersa con ritardo, rispetto al panorama internazionale. Subito dopo l’esplosione del caso Lehman, le banche più grandi del mondo erano così esposte ai derivati e ai  mutui subprime da dover fare massiccio ricorso a ricapitalizzazioni statali per restare a galla.

Mentre esaltavano le virtù del mercato e del privato, i grandi colossi della finanza venivano salvati con risorse e garanzie pubbliche, usate per comprare i loro titoli tossici ed evitare un crollo generale. Superato il guado, sono tornate puntualmente le pratiche speculative precedenti, i bonus ai super manager e la prassi delle “porte girevoli”, fino al prossimo giro di giostra…

Come si ricorderà, le banche italiane disdegnarono gli aiuti pubblici, vantando solidità inesistenti derivanti dal proprio modello di business, ancorato al finanziamento dell’economia reale. Chi, come MPS, aveva appena comprato a prezzi stratosferici una banca destinata a svalutarsi nel breve, tentò di camuffare la realtà attraverso derivati leggendari (Alexandria, Santorini, ecc.).

In questo ha pesato anche la dottrina ideologica imperante: mai più lo stato nelle banche, basta lasciare i privati liberi di agire ed ogni problema si risolve in automatico!

Un primo segnale di allarme arrivò con il 2011: la crisi dello spread fece emergere che i bilanci bancari, pieni di titoli di stato in picchiata, non erano poi così solidi di fronte a shock “esogeni”. Ma arrivò Draghi alla BCE e varò prima l’LTRE (che fornì alle banche dell’area euro enorme liquidità a tasso zero, per ricomprare i BTP e   titoli simili a prezzi infimi), e poi il Quantitative Easing che riuscì a riportare in alto proprio i prezzi dei titoli in portafoglio. Scampato pericolo!

Intanto il governo italiano prestava qualche aiutino: nel 2013 la rivalutazione delle quote in Banca d’Italia, una nuova disciplina fiscale degli ammortamenti per smaltire le perdite in bilancio in cinque anni anziché diciotto, procedure più rapide per escutere le garanzie sui crediti finiti mali.

Fino alla fine del 2015 sembrava che tutto questo fosse bastato. Persino la borsa italiana (piena zeppa di titoli bancari e finanziari) ci credette e l’anno finì con un +13.9%, l’indice migliore tra quelli dei paesi avanzati. Ma le cose belle sono destinate a finire presto.

Tra il 2013 ed il 2014 era accaduto qualcosa di travolgente. Sulla spinta dei paesi “core” dell’Unione Europea, che avevano già risolto prima i loro casini bancari con capitali e garanzie pubbliche, si era arrivati all’approvazione della direttiva sul bail-in, cioè il divieto di affrontare e risolvere le crisi bancarie con il concorso di risorse pubbliche. L’intento era quello di impedire ai paesi “lassisti” di salvare i risparmiatori a spese dei bilanci statali: il risultato pratico è stato quello di innescare una miccia in grado di attivare una bomba ad orologeria, che è puntualmente arrivata ad esplodere nell’arco di pochissimo tempo.

La normativa sul bail-in viene applicata in Italia per la prima volta con la risoluzione delle banche del centro, nel novembre 2015. Per valutare i crediti deteriorati viene applicato un parametro sorprendentemente basso: il 17%. Se questo parametro venisse applicato a tutte le banche italiane, i trecentosessanta miliardi di sofferenze lorde, o gli ottantacinque miliardi di sofferenze nette, varrebbero molto meno di quanto sia correntemente contabilizzato nei bilanci ufficiali: l’effetto sul patrimonio e sulle quotazioni azionarie è devastante. Nell’arco di poche settimane il valore di borsa delle banche italiane scende di cinquanta miliardi di euro!

Siamo di fronte ad un brusco risveglio: dalla crisi Lehman il Pil italiano è già sceso del 10% ed il prodotto manifatturiero di circa il 25%. Le banche hanno reagito con una contrazione del credito, che non le ha però esentate da una crescita spaventosa di crediti incagliati, crediti dubbi e sofferenze conclamate.

L’abbattimento dei tassi da parte della BCE ha peraltro inferto un colpo durissimo al margine d’interesse, la storica componente principale dei ricavi bancari: l’effetto congiunto dei tassi zero e delle sofferenze a palla ha incrinato definitivamente l’equilibrio fragile su cui poggiavano le banche. Chi non aveva spalle abbastanza larghe, cioè canali di raccolta a basso costo e struttura dei ricavi orientata alla gestione del risparmio, è entrato nella fase della lotta per la sopravvivenza. La crisi di fiducia e la fuga dei depositi dalle banche percepite come “a rischio” ha fatto il resto e precipitato gli avvenimenti.

Il Monte dei Paschi non ha trovato soci privati per il suo aumento di capitale nel 2016, né partner bancari che se la siano sentita di assumerne attività e passività: l’intervento dello Stato al 70% è diventato, obtorto collo, l’unica via.

Per le banche venete è stata adottata una soluzione diversa: parte sana a Intesa Sanpaolo per un euro, bad-bank e cause legali allo Stato. Adesso colti ed incliti gridano allo scandalo, ma nessuno è stato in grado di proporre alternative concrete.

ISP assume nel proprio perimetro cinquanta miliardi di raccolta da garantire e 11.000 lavoratori che avrebbero rischiato moltissimo. I termini sono noti e la trattativa ha già prodotto un primo accordo: 1.000 esodi dalle ex banche venete, su base volontaria e senza incentivi. Saranno coinvolti tutti i dipendenti, dirigenti esclusi, che maturano i requisiti pensionistici entro il 2024 (7 anni). A latere: “superamento” della contrattazione integrativa aziendale, fatti salvi in via transitoria alcuni punti cardine (assistenza sanitaria, previdenza complementare, ticket pasto, condizioni agevolate, ecc.).

Più avanti si comincerà a discutere di taglio dei costi e si porrà il grave problema della mobilità territoriale, inevitabile conseguenza del piano di sostanziale azzeramento della rete distributiva delle ex-banche venete, cui si aggiunge la “razionalizzazione” della rete ISP. Oltre 600 filiali da chiudere non lasciano grandi margini di speranza in regioni di forte insediamento come il nord-est, ma anche Toscana, Puglia o Sicilia non saranno esentate.

A traguardo raggiunto, cioè acquisito il consenso dei primi 1.000 esodandi, partirà la procedura per almeno altri 3.000 dal perimetro ISP, appartenenti ad un bacino che ricomprende 6.500 lavoratori/trici (in questo caso dirigenti inclusi, con requisiti in maturazione entro il 2022). Per gli uni e per gli altri verranno utilizzate risorse pubbliche, con rifinanziamento del Fondo a carico dello Stato.

Entro la fine dell’anno avremo quindi un quadro definitivo delle “partenze”. In questo contesto verrà chiesto dall’azienda un taglio dei costi, che dovrà essere contrattato in un quadro di rapporti di forza ben diverso rispetto a quello precedente: sembrano passati anni luce dai precedenti rinnovi contrattuali. Quello del 2012 (sotto il governo di salute pubblica di Monti-Fornero), in cui la categoria subì un durissimo ridimensionamento in termini di tutele, al punto di bocciare in massa il contratto nelle assemblee (evento che fu arginato con i soliti trucchetti dai sindacati firmatari). Ma anche quello del 2015, quando, dopo quattro scioperi nazionali, si arrivò ad un compromesso transitorio, a costo zero per le aziende, in cui si scambiarono aumenti ridicoli e differiti con ulteriori sterilizzazioni di oneri contributivi su TFR e Previdenza complementare.

Adesso le banche pensano che siano maturi i tempi per mettere mano a quello stravolgimento dell’impianto contrattuale che è da lungo tempo auspicato e su cui si registrano fin troppe disponibilità da parte sindacale.

Lavoro di manomissione che è già cominciato concretamente proprio in quella banca (ISP) che si è fatta carico di risolvere il problema veneto come “banca di sistema” e che ora si candida a modello da seguire, pensando di avere conquistato la credibilità, il prestigio e la legittimità per chiedere e ottenere quello che vuole.

Nell’accordo sulle assunzioni ibride in ISP, del 1^ febbraio scorso, c’è già il modello prescelto per affrontare il nodo della scarsa redditività delle banche degli anni a venire: la condivisione degli oneri con i lavoratori (e con i clienti, aggiungiamo noi).

Infatti è noto che sta per entrare in vigore la MIFID II, che impone agli intermediari bancari di esplicitare ai clienti il totale dei costi cui sono sottoposti nel loro rapporto commerciale con l’azienda. Il recepimento della direttiva (dopo dilazioni e rinvii non più differibili) è previsto in Italia per il 1^ gennaio 2018: non sarà molto diverso, come impatto, da quello che è stato il bail-in.

Ma mentre questo agiva sul livello di affidabilità (reale o percepita) delle banche, la Mifid II avrà un impatto diretto sui ricavi, perché costringerà a ridurre o azzerare le commissioni di caricamento (implicite o esplicite) sui prodotti collocati e dare maggiore visibilità anche alle commissioni di gestione applicate.

Non è difficile pensare alla reazione dei clienti e alla loro prevedibile disaffezione verso modelli distributivi orientati su gamme di prodotti opachi e costosi, che dovranno avere per legge una struttura dei costi molto più trasparente ed esplicita.

Le banche dunque esprimono l’intenzione di muoversi su due piani: da un lato sostituire le commissioni sul gestito con il contratto di “consulenza evoluta” per stabilizzare i ricavi, dall’altra sostituire i contratti di lavoro dipendente con forme di lavoro autonomo, per ridurre i costi in misura correlata al prevedibile calo dei ricavi.

Non è altro che la richiesta del 2013 di ridurre la componente fissa del salario e la pressione per spostare sui lavoratori il rischio della variabilità dei risultati, in modo da condividere l’imprevedibilità del mercato, E nello stesso tempo si rafforza, in automatico, la responsabilità, la disciplina, l’autosfruttamento (diremmo noi!) del lavoratore. Le pressioni commerciali diventerebbero finalmente superflue, perché incorporate nel meccanismo di funzionamento del sistema. A questo punto si può anche fare a meno di una buona dose di capetti, che ora hanno il solo compito di controllare i vari fogli excel (non previsti dalle procedure aziendali) per poi redarguire chi non riempie a sufficienza le caselle.

Come categoria abbiamo quindi di fronte il rischio gigantesco di arretrare in modo sensibile su tutto l’impianto contrattuale, a coronamento di una fase in cui abbiamo già perduto molto: il controllo sull’orario di lavoro effettivo, il potere d’acquisto, la dignità professionale, la vivibilità del clima aziendale.

La difesa dell’occupazione, che ovviamente resta la priorità assoluta in una fase di forti turbolenze come l’attuale, non deve fare perdere di vista la necessità di difendere anche i diritti normativi e le condizioni retributive.

Si tratterà sotto ricatto e avremo pressioni enormi per cedere in via definitiva diritti fondamentali. Tutto rischia di avvenire nel più totale distacco tra rappresentati e rappresentanti, senza alcun rispetto delle più elementari norme di democrazia e di partecipazione. Cercheranno di calarci dall’alto accordi impresentabili e vorranno imporli senza discussione. Dipende da noi subire ancora una volta, o provare a cambiare strada.

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Credito e Assicurazioni

SINDACATINI, SINDACATONI E ATTACCO AL DIRITTO DI SCIOPERO

DA SEGRETERIA NAZIONALE CUB SALLCA
A iscritti/e, lavoratrici e lavoratori

Il recente sciopero nel settore dei trasporti ha provocato reazioni isteriche da parte di alcuni personaggi politici, che meritano una nostra riflessione .

Per parlare di diritto di sciopero potremmo partire dal settore che conosciamo meglio, quello bancario. Cominciamo col dire che anche da noi va avviata una procedura di “raffreddamento” che dura in tutto una ventina di giorni, va dato il preavviso dieci giorni prima (ma le aziende possono anche decidere di non mettere i cartelli) e spesso la controparte neppure si presenta in sede di conciliazione. Insomma, gli obblighi sono solo per noi.

Ma quali diritti dell’utenza devono essere tutelati? Il settore bancario venne inserito a suo tempo tra quelli nei quali deve essere garantito il servizio minimo essenziale, costituito, nel nostro caso, dal pagamento di stipendi e pensioni e dai mezzi di sussistenza  per le persone.

In origine,  nelle giornate di sciopero, doveva essere garantita la presenza di una cassa funzionante per i prelievi, appunto, di pensioni e stipendi. Poi si è passati alla formulazione attuale: i bancari non possono scioperare di mercoledi, giorno di franchigia per qualsivoglia tipo di astensione dalla prestazione lavorativa. Nel frattempo le banche ci hanno spiegato in tutti i modi che i clienti vanno (o devono andare) su Internet, usano il cellulare ed il bancomat e perciò hanno cominciato a chiudere filiali e sportelli di cassa. Ma il mercoledi si continua a non poter scioperare (ed a fare ogni tipo di operazione)…

Tutto questo dimostra che la legislazione sullo sciopero, lungi dal tutelare l’utenza, serve solo a ostacolare l’esercizio di questo diritto che, evidentemente, continua ancora a dare molto fastidio a lor signori.

Questa ampia premessa serve a presentare le nostre valutazioni sull’attuale, stucchevole, dibattito scatenato dal (riuscito) sciopero dei trasporti del 16 giugno indetto dal sindacalismo di base, tra cui la nostra confederazione.

Il settore dei trasporti è stato uno dei più penalizzati dalle politiche antipopolari dei governi che si sono succeduti negli ultimi anni. Ci sono stati tagli, privatizzazioni, mancanza di manutenzione dei mezzi, continui attacchi ai diritti dei lavoratori e degli utenti. La vicenda Alitalia è poi emblematica della volontà delle oligarchie europee di distruggere la compagnia di bandiera italiana per favorire  pochi gruppi (devono restarne solo tre: British Airwais, Air France, Lufthansa), impresa favorita dalla sudditanza di politici italiani imbelli e da manager incapaci (o forse capaci proprio di raggiungere l’obiettivo del fallimento). Una cosa è certa: l’unico fattore a non portare responsabilità per il disastro è il costo del lavoro, notevolmente più basso di quello dei principali competitori e persino di molte compagnie low cost.

A fronte di questa situazione, i soliti politici (con la complicità della segretaria della Cisl, Furlan) non hanno trovato di meglio che gridare allo scandalo e chiedere nuovi restringimenti del diritto di sciopero. Tra gli argomenti surreali utilizzati spicca quello per cui non dovrebbe essere consentito di indire scioperi a sindacati scarsamente rappresentativi: ma se un sindacato non è rappresentativo lo sciopero dovrebbe fallire, al contrario, se riesce, forse chi l’ha indetto non è così poco rappresentativo.

Geniale come sempre il presidente del consiglio ombra, Renzi, che ha tuonato contro gli scioperi di venerdi. Forse gli sfugge che chi lavora nei trasporti, turnando, lavora anche il sabato e la domenica, per cui la sua maliziosa osservazione è malposta, fermo restando che chi sciopera non viene pagato, quindi potrà pure scegliere quando non lavorare.

Resta il fatto che il ministro Delrio (si veda il sito www.cub.it) ha tentato di chiedere il rinvio dello sciopero ai sindacati promotori, che hanno risposto chiedendo al governo un incontro urgente al quale nessuno ha mai risposto. Insomma, tagliano, privatizzano, negano diritti, rifiutano di parlarci e poi ci chiedono anche di essere responsabili !! In allegato anche il comunicato della nostra confederazione

Il mondo alla rovescia

I risultati delle elezioni per il rinnovo del Consiglio di Amministrazione della Cassa di Previdenza San Paolo, per la parte di competenza degli iscritti in servizio appartenenti a Quadri Direttivi ed Aree Professionali, sono stati i seguenti.

  n.ro voti % su preferenze

espresse

Piccinino/Merlo (SALLCA-CUB) 1693 34,30%
Martino/Cirillo (FISAC-CGIL) 1173 23,76%
Innamorati/Ruda (UILCA-UIL) 875 17,73%
Picollo/Grippaldi (FABI) 742 15,03%
Gammarota/Sucato (FIRST-CISL) 453 9,18%

Per la quarta volta consecutiva, quindi, la coppia indicata dalla Cub-Sallca (in parte rinnovata) è stata di gran lunga la più votata.

Certo, il meccanismo delle preferenze plurime non consente di attribuire automaticamente le percentuali ottenute dai candidati ad un’organizzazione piuttosto che ad un’altra.

Certo, rispetto a tre anni fa i nostri voti sono diminuiti sia in termini assoluti (e questo è fisiologico) sia percentualmente e ciò in gran parte a causa della più elevata incidenza dei pensionamenti nelle zone di nostro maggior radicamento (a partire dal Piemonte).

Certo, stiamo parlando di una platea elettorale, quella dei sanpaolini ex-istituto di diritto pubblico, che al prossimo esodo di massa diventerà residuale.

E, tuttavia, i numeri sono inequivocabili. Il sindacato che non c’è, quello che non può indire assemblee, utilizzare le bacheche, beneficiare di permessi retribuiti ancora una volta mette in fila, ordinatamente, organizzazioni potenti, ricche, con un esercito di quadri sindacali che godono di decine di migliaia di ore di distacchi all’anno.

E il fatto che si tratti “solo” del mondo del vecchio Sanpaolo non può che inorgoglirci. Quello, infatti, è uno dei nostri luoghi di nascita e le/i colleghe/i che ci votano, quindi, ci conoscono da vent’anni o più. Il carattere durevole del sostegno accordatoci è una medaglia da esibire.

Resta da capire, invece, perché tra questi nostri fedelissimi elettori siano ancora relativamente troppo pochi (per quanto in aumento) quelli che si iscrivono al nostro sindacato (che è una condizione necessaria per dare continuità all’esperienza del Sallca) e relativamente troppi quelli che continuano a pagare le quote a sigle che non perdono l’occasione di dimostrare la singolare interpretazione che hanno (diciamo così…) delle più elementari regole della rappresentanza e della democrazia sindacale.

Ben al di là di vittorie o sconfitte, infatti, è solo la nostra esistenza che, talvolta, riesce a restituire la parola alle lavoratrici ed ai lavoratori, altrimenti ridotti a spettatori passivi.

Per la Cassa di Previdenza ha votato il 46% degli aventi diritto (il 66% di quelli in servizio). Una percentuale secondo noi insoddisfacente e preoccupante (in primo luogo per i temi che si dovranno affrontare nel prossimo mandato e che riguardano le stesse prospettive dell’Ente) ma che, tuttavia, è stata abissalmente superiore a quella registrata, ad esempio, nelle recenti elezioni per i Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza (pur molto importanti) alle quali, come noto, a noi viene letteralmente impedito di partecipare.

E dove, conseguentemente, i sindacati “rappresentativi” si sono potuti tradizionalmente dividere a tavolino “gli eletti” ed ai lavoratori è stato ancora una volta sottoposto lo sconcio di schede con X candidati per X posti, senza nemmeno la possibilità di scegliere i più meritevoli e scartare i più inutili tra di loro.

Al peggio comunque non c’è mai limite e, paradossalmente, un esempio chiarissimo del devastante concetto di “rappresentanza” che hanno i sindacati firmatari si è avuto proprio in occasioni di queste Elezioni per la Cassa di Previdenza.

Alcuni lavoratori ci hanno chiesto come mai, malgrado la nostra presenza, i candidati per Aree e Quadri fossero 5 per 5 posti. Eravamo forse entrati anche noi nella grande famiglia?

No di certo, naturalmente. Il punto è che gli strateghi delle sigle ritenendo (correttamente) che era sicuro che uno degli eletti sarebbe stato del Sallca hanno preferito “autoridursi” a quattro (l’escluso riceverà comodamente una compensazione altrove) piuttosto che perderne uno per strada. E questo, non tanto per toglierci la “soddisfazione” di aver eliminato qualcuno, ma ancora una volta per poter decidere a tavolino i nomi degli eletti senza lasciare alcun spazio a quel fastidio che è il giudizio dei lavoratori. E così nessuno si è dovuto affannare più di tanto o differenziarsi dagli altri spiegando, ad esempio, le proprie posizioni sulle ipotesi di chiusura della Cassa…

E infine una chicca. Come noto, i CdA degli Enti sono organismi bilaterali che prevedono la parità numerica tra i rappresentanti degli iscritti/lavoratori e quelli di nomina aziendale. La furbata strategica dei sindacati firmatari, se noi avessimo deciso di non presentarci (o qualcosa fosse andato storto, per esempio, nella raccolta delle firme) avrebbe determinato che la rappresentanza degli iscritti/lavoratori sarebbe stata inferiore di un’unità rispetto a quella padronale oltreché a quella statutariamente prevista! Ogni commento è superfluo.

Ma si sa, sul “sindacato che non c’è” si può sempre contare!!

Come sanno bene, del resto, le/i 1694 lavoratrici e lavoratori che hanno dato la loro preferenza ad Amalia e Piero che oggi, insieme a noi, non possono che ringraziarle/i per la fiducia accordata (e che è certamente ben riposta).

Ed a questo proposito un grazie particolare va a Cinzia, che per nove anni è stata la nostra rappresentante in CdA, svolgendo il proprio compito con competenza, stile e piena disponibilità. Per tre elezioni consecutive è stata di gran lunga la più votata di tutte/i le/i candidate/i e le sarebbe spettato di diritto, almeno in un’occasione, il ruolo di vice-presidente dell’Ente che invece, con le solite pratiche para-democratiche, i sindacati firmatari (di concerto con l’azienda) hanno avocato a sé, infischiandosene dei risultati del voto. Ancora.

Il mondo va così ed è per quello che noi vogliamo cambiarlo. Sapete dove trovarci.

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Intesa Sanpaolo

Pressioni commerciali. Iniziative mirate e scelte di fondo

Nei giorni scorsi, due tra i non pochi lavoratori che ci avevano chiesto i link per poter vedere l’assemblea che abbiamo organizzato il 9 marzo a Torino su assunzioni ibride” e “pressioni commerciali” ci hanno riscritto domandando, quasi con le stesse parole, se il nostro reiterato appello a pensare e mettere in campo unitariamente delle iniziative di mobilitazione per contrastare le devastanti politiche aziendali che avvelenano sempre più il clima lavorativo nella Rete (e non solo) avesse sortito qualche effetto tra le altre sigle sindacali.

Ci è sembrato naturale girare loro il materiale prodotto dalla Fisac dell’Area Torino e Provincia a sostegno della loro campagna contro la “Vendita malata” che è stata recentemente lanciata con tanto di video interviste ai dirigenti sindacali locali.

La cosa ha fortemente sconcertato i due colleghi (non nostri iscritti e che lavorano rispettivamente nel Veneto e nelle Marche) che, ancora una volta con accenti molto simili, ci hanno risposto che anche da loro il problema è gravissimo ma che i sindacati firmatari, dopo aver scritto volantini di fuoco, non hanno fatto nulla di nulla e che il tran tran non è certo cambiato negli ultimi tempi.

Perché si muove qualcosa solo a Torino?

Confessiamo di nutrire anche noi qualche dubbio.

Ad una prima lettura, infatti, abbiamo giudicato l’iniziativa della Fisac con un certo compiacimento. Per il luogo, i tempi, per alcune delle modalità di lavoro previste e persino per qualche passaggio testuale ci è sembrato del tutto evidente che essa avesse (anche) il carattere di una risposta alle nostre sollecitazioni (o meglio a quelle di tanti lavoratori).

Ma perché di fronte ad un problema di ovvia rilevanza nazionale un’organizzazione potente e ricchissima di mezzi come la Fisac si limita ad un’iniziativa locale? A cosa serve? Quali spazi di contrattazione e possibilità di mobilitazione apre? E non ci si dica che è un “pilota” destinato ad essere poi replicato in altre aree territoriali! Abbiamo già perso sin troppo tempo, abbiamo bisogno di agire ora!

E allora, perché solo Torino?

La questione è rilevante per provare a capire se siamo di fronte ad una cosa utile e seria oppure no.

Un fatto è certo. Noi, proprio in provincia di Torino, dove siamo maggiormente radicati, abbiamo davvero lavorato tanto sull’argomento. E lo abbiamo fatto, pur nelle difficilissime condizioni “operative” alle quali siamo costretti, alternando parole a fatti: dalla distribuzione dei questionari sulle pressioni commerciali agli esposti alle Asl sullo “stress lavoro correlato”; dalle assemblee con nuclei omogenei di lavoratori (ex-assistenti alla clientela, gestori personal, gestori e addetti imprese, ecc..) ai volantinaggi alla clientela.

E tutto questo ha ovviamente generato un’attenzione ed un consenso ampio anche da parte di tante/i iscritte/i ad altre sigle che hanno apprezzato il nostro modo di operare e le nostre iniziative quanto meno rispetto agli imbarazzi ed all’inconcludenza di altri.

Non è che il problema vero che si vuol risolvere è questo?

Ognuno può ovviamente pensarla come meglio crede. Non ci piace scadere nella dietrologia e comunque sabbiamo bene di non essere “al centro del mondo”. Tuttavia le perplessità ci sembrano fondate anche se, fossimo inclini all’autocompiacimento, dovremmo essere soddisfatti in ogni caso. Sarebbe l’ennesima dimostrazione che laddove il sindacalismo di base è più forte non solo ottiene risultati diretti ma riesce talvolta ad influenzare le stesse dinamiche sindacali complessive. (E ovviamente lo diciamo in primo luogo a chi ci segue da territori dove siamo più deboli).

Ma naturalmente il punto centrale non è questo quanto la capacità di produrre risultati concreti per migliorare le condizioni di lavoro nostre e di tutti i colleghi. E allora, in questa prospettiva, non possiamo che ribadire che i nostri quadri sindacali e militanti più attivi sono sempre disponibili a collaborare, nei singoli punti operativi, con qualsivoglia iniziativa abbia finalità condivisibili e possa rivelarsi utile quanto meno ad un risveglio collettivo delle coscienze.

Riteniamo tuttavia di dover ancora una volta precisare che, quello che rende poco credibili le iniziative delle strutture locali dei sindacati “firmatari” sul tema delle pressioni commerciali non è né la tempistica né la (presunta) strumentalità e nemmeno la loro reale efficacia. E’ la profonda contraddittorietà con le scelte e le strategie delle “case madri” soprattutto se si è contribuito a sostenerle e non si è mai fatta alcuna autocritica.

Ci limitiamo a tre esempi macroscopici.

  • La recente “verifica” tecnica dell’accordo sui percorsi professionali dell’ottobre 2015 (che ha confermato la farraginosità e la totale unilateralità aziendale nella gestione dei meccanismi che lo governano) nonché le esperienze che cominciano a maturare dalla sua concreta applicazione in filiale non possono che rafforzare il giudizio negativo che ne abbiamo sempre dato. Per le tante nuove “opportunità” che garantisce alla catena di comando aziendale e, d’altro canto, per il peso di flessibilità, incertezze e ricattabiltà che scarica proprio sulla filiera di vendita esso ci è sempre apparso pienamente funzionale al rafforzamento dell’efficacia dell’esercizio delle pressioni commerciali.

 

  • Anche l’accordo che introduce le assunzioni “ibride” (metà dipendente e metà promotore) è tutt’altro che neutro rispetto ai problemi di “clima aziendale” e di “vendita malata” e questo persino a prescindere dalla valutazione complessiva che ne diamo in quanto potenzialmente devastante per il futuro della categoria. E ricordiamo che è un fatto scandaloso e senza precedenti che i sindacati “firmatari” non abbiano indetto le assemblee né per informare né (tanto meno) per votare.

 

  • E’ ormai all’ordine del giorno il legame tra “pressioni commerciali” e salute psicofisica dei lavoratori. Per contrastare l’azienda efficacemente occorrono anche RLS (Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza) autorevoli, liberi e riconosciuti. Eppure ancora pochi giorni fa abbiamo assistito allo scandalo di elezioni-farsa alle quali non solo hanno potuto partecipare esclusivamente le sigle “firmatarie” ma dove il loro inciucio preventivo non ci ha permesso nemmeno di selezionare i più meritevoli e scartare i più inutili di loro. X candidati per X posti. Disinteresse generale, percentuale di votanti bassissima, credibilità zero. Tutti eletti sia quelli bravi sia i nullafacenti.

 

E’ tempo di 730. Frotte di sindacalisti, di alcuni dei quali si erano perse le tracce dall’anno scorso, si aggirano tarantolati nel fare la spola tra scrivanie e CAF, con in tasca qualche tessera in bianco pronta alla bisogna. E’ l’occasione buona per chiedere loro cosa pensano di accordi sbagliati, assemblee sparite e diritti scippati.

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Intesa Sanpaolo RSA Torino e Provincia