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DA SEGRETERIA NAZIONALE CUB SALLCA

Sul Jobs Act molte discussioni (e molte chiacchiere) sono state fatte, il più delle volte sollevando un polverone che impedisce di capire come stanno realmente le cose.
Tralasciando il fatto che la delega votata al Senato è veramente una delega in bianco, proviamo a fare il punto della situazione con alcune nostre righe di commento, ma vi invitiamo a leggere con attenzione il documento allegato, scritto da due studiosi della materia: le conclusioni non esprimono necessariamente il nostro punto di vista, ma l’analisi delle ultime “riforme” sul lavoro è chiarissima e vale la pena di leggere fino in fondo.
Il punto di partenza della politica del governo Renzi sul lavoro doveva essere la lotta della precarietà. Infatti il primo atto, attraverso il decreto Poletti, è stato rendere ancora più precario il contratto a tempo determinato cancellando l’obbligo della causale, ponendo il limite di 5 rinnovi al contratto, ma non in capo alla persona, bensì alla mansione: dopo il quinto rinnovo basta riassumere lo stesso lavoratore con una mansione diversa e la giostra precaria può ripartire.
Ora, con il Jobs Act, il governo vorrebbe di nuovo far credere di combattere la precarietà con il contratto chiamato pomposamente “a tutele crescenti”.
Intorno a questo “nuovo” contratto si è aperto uno stucchevole dibattito rispetto all’art. 18. Tale articolo non solo è stato abbondantemente manomesso dalla riforma Fornero, ma la discussione ha sempre girato intorno al dilemma se applicarlo o meno ai neoassunti dopo 3 anni: prima saranno liberamente licenziabili in ogni momento e senza motivazione!
Così lo smantellamento dei diritti è completo tra contratti a tempo determinato privi di vincoli e contratti a tutele crescenti inesistenti.
Per finire due parole su quanto resta dell’art.18.
La riforma Fornero aveva prodotto uno strappo, purtroppo, decisivo, consentendo il licenziamento individuale per motivi economici. Un licenziamento consentito, fino a quel momento, solo in forma collettiva (la “famosa” Legge 223) in presenza di una formale dichiarazione di crisi aziendale.
Ora il licenziamento individuale per motivi economici diventa un giustificato motivo per mandare a casa il dipendente: in questi casi il giudice, il più delle volte, evita di entrare nel merito delle ragioni economiche addotte dalle aziende e anche quando il lavoratore, che ha l’onere della prova, riuscisse a dimostrare la pretestuosità della misura, il reintegro resterebbe comunque a discrezione del giudice.
Allo stesso modo, per quel che riguarda il licenziamento per motivi disciplinari, il reintegro è possibile solo se il lavoratore dimostra che il fatto non sussiste. Resta qualche margine se i motivi disciplinari sono pretestuosi o il provvedimento è sproporzionato.
Rimane solo il reintegro per i licenziamenti discriminatori, una misura che deriva direttamente dal nostro ordinamento costituzionale ma, come abbiamo già scritto, nessuna azienda è così sprovveduta da dichiarare un licenziamento con tale motivazione: sarà ancora il lavoratore a dovere dimostrare che dietro al licenziamento economico o per motivi disciplinari si nasconde altro.
Quindi il governo si appresta a togliere anche quel poco che resta dell’art.18 per i futuri assunti. Pensare che l’occupazione possa crescere facilitando i licenziamenti e azzerando i diritti non è solo iniquo, è semplicemente inefficace senza misure di rilancio dell’economia che nella legge di stabilità sono assenti.

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