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BENVENUTI NELLA BANCA PIU’ BELLA DEL MONDO…

da Segreteria CUB-SALLCA Intesa Sanpaolo
a
lavoratrici e lavoratori Ubi Banca

 

Intesa Sanpaolo compra Ubi, chi si preoccupa dei lavoratori?

Cari/e colleghi/e,

da tempo ricevete i comunicati del nostro sindacato di base.

Non molti, purtroppo, perché la nostra presenza in UBI è sempre stata ridotta, nonostante i tentativi di ampliare la base di consensi.

L’OPS portata a termine da Intesa Sanpaolo disegna nuovi scenari pieni di incertezza.

In questa operazione quasi un terzo delle filiali di UBI verranno cedute a BPER: sono il tributo sacrificale previsto per poter realizzare la fusione in ottemperanza  alle condizioni imposte dall’Antitrust.

Abbiamo sempre considerato sgradevole essere considerati alla stregua degli arredi delle filiali, che possono essere ceduti al miglior offerente: ci sarà, in aggiunta a quanto detto, anche la cessione all’asta di altre 17 filiali.

Anche se non è detto che sia utile e desiderabile “tornare indietro”, va detto, peraltro, che la cessione dei lavoratori nell’ambito del presunto ramo d’azienda è discutibile sul piano legale: un nostro tentativo di metterla in discussione, in passato, non è riuscito per un pelo e non è detto che non si possa ritentare.

Per chi invece arriverà in Intesa Sanpaolo (dove la presenza del nostro sindacato è più robusta, anche se ancora insufficiente per essere incisivi come vorremmo) si aprono comunque scenari complicati.

Se già il passaggio dalle vecchie banche alla nascita del Gruppo UBI è stato traumatico, questo rischia di non essere da meno.

La realtà lavorativa quotidiana dovrà scontrarsi con decisioni, spesso incomprensibili  e cervellotiche, e comunque con strutture impersonali con le quali l’interlocuzione è spesso impossibile. Il tutto esasperato dalla pressione per tagliare i costi e recuperare il ritardi nei risultati commerciali.

Sul piano normativo, poi, Intesa Sanpaolo ha fatto da apripista per iniziative molto discutibili. E’ stata la prima (e si potrebbe dire l’unica) a sfruttare le “opportunità” del contratto del 2012 tenendo le filiali aperte fino alle 20. Una scelta che poi è stata solo parzialmente ridimensionata (con chiusure alle 18,30 / 19,00) prima del ripristino dell’orario standard a causa dell’emergenza coronavirus…

Per non parlare poi del lancio dei “contratti misti”: assunzioni per giovani che lavorano per due giorni come dipendenti e per tre come consulenti a Partita Iva, con il risultato di non riuscire a mettere insieme uno stipendio decente.

Per completare lo scenario, ricordiamo che nel 2016 Intesa Sanpaolo (che i suoi top manager amano definire “la più bella banca del mondo”) è stata sanzionata per mancato rispetto delle norme sullo stress lavoro correlato.

Il tutto è partito da un nostro esposto, rispetto al quale l’azienda è corsa ai ripari per cercare di coprirsi da nuove iniziative legali, ma, rispetto ad allora, la situazione è peggiorata.

Quello che non cambia, in UBI come in Intesa Sanpaolo, è il ruolo acquiescente dei sindacati concertativi. Ma nel secondo caso stiamo arrivando ad un salto di qualità inquietante: se prima lamentavamo che le trattative venivano svolte su piattaforme non sottoposte all’approvazione dei lavoratori, ora il problema è risolto, perché le piattaforme sindacali non ci sono proprio.

Il recente accordo sugli inquadramenti è stato una rinfrescata di quello siglato nel 2015 e rivisto nel 2018, quando la trattativa (si fa per dire) venne svolta sulla base delle slide presentate dall’azienda!

Tutto questo per dire che per affrontare il futuro, qualunque esso sia, l’unica possibilità è di autorganizzarsi per difendersi, non cadendo nel solito tranello dei sindacati concertativi che cercano di tranquillizzare con la promessa: “ci pensiamo noi”.

Nessuno ci regalerà nulla: per difenderci dobbiamo organizzarci autonomamente ed il sindacato di base, per chi lo vorrà, è pronto a dare il proprio contributo.

Intesa Sanpaolo. Accordo inquadramenti, la vera complessità sta nel capirlo.

 

Vi proponiamo il nostro commento all’ennesimo “successo sindacale”, il recente accordo sui ruoli professionali.

Nato, come da prassi consolidata, in assenza di una piattaforma sindacale, il nuovo accordo è solo una rinfrescata di quello precedente.

La principale variazione consiste nella sostituzione della complessità dei portafogli (prima affidata a misteriose pratiche esoteriche affidate ad oscuri algoritmi) ad una nuova basata su un mix di 4 voci con percentuali di peso diverso, la cui analisi produce sovente forti mal di testa.

Ci siamo impegnati per tentare di decifrare questo groviglio di norme ed invitiamo a leggere l’allegato anche a chi non fosse direttamente interessato ai percorsi dell’accordo.

La lettura serve a capire che accordi importanti come questo dovrebbero nascere da un confronto con i lavoratori e concludersi con norme chiare e comprensibili per tutti.

L’esatto contrario di quanto avvenuto.

Chi volesse cimentarsi con la lettura dell’accordo integrale deve solo scrivercelo e provvederemo a mandargliene una copia.

 

ACCORDO SUI RUOLI PROFESSIONALI IN INTESA SANPAOLO.

UN GROVIGLIO INCOMPRENSIBILE DETTATO DALL’AZIENDA.

(leggi l’allegato)

 

 

 

 

 

La busta paga dal 1° luglio: un cuneo fiscale meno pesante

 

Dal 1^ luglio entrano in vigore le modifiche previste dalla Legge di Stabilità 2020 in merito alla riduzione del cuneo fiscale.

Il precedente “Bonus Renzi” viene abolito e sostituito da un meccanismo che estende la platea dei beneficiari, abbassando il carico fiscale sul reddito dei lavoratori dipendenti, ricompreso dentro determinati scaglioni.

Si tratta di un primo e insufficiente provvedimento, che dovrà essere seguito, per essere coerenti, da revisioni ben più radicali, tese a riequilibrare il peso del fisco tra le varie tipologie di reddito e rendita.

E’ una questione centrale che ha visto in questi anni il lavoro dipendente (e i pensionati) soggetto ad un crescente prelievo fiscale, mentre altre categorie di reddito godevano di abbassamento di aliquote e allargamento delle esenzioni.

Molta strada resta da percorrere, anche per alzare le pensioni più basse.

Nel commento allegato proviamo ad illustrare i contenuti della modifica e darne una valutazione generale.

 

 

La busta paga dal 1° luglio: un cuneo fiscale meno pesante

Si cominceranno a vedere nella busta paga di luglio i primi effetti della riduzione del cuneo fiscale, previsto nella legge di stabilità 2020, con stanziamento di una cifra di 3 miliardi di euro, destinata a raddoppiare dal 2021.

Accantonata l’insana proposta di ridurre ulteriormente la progressività dell’imposta tramite l’istituzione della flat-tax (cavallo di battaglia di tutte le proposte politiche a favore dei ricchi con redditi più alti), si comincia finalmente a dare qualche timidissimo segnale in favore dei lavoratori dipendenti con redditi medio-bassi.

In sostanza dal 1° luglio viene sostituito con un nuovo dispositivo il precedente bonus Renzi, quello dei famosi 80 euro mensili (che erano pieni per chi stava sotto la soglia di 24.600 euro lordi annui e scendevano progressivamente, fino ad azzerarsi, al superamento della soglia di 26.600 euro lordi annui).

Il nuovo sistema consente di avere 100 euro al mese di risparmio fiscale per tutti coloro che stanno tra la “no tax area” di 8.174 euro ed il tetto di 28.000 euro lordi annui.

Per chi supera i 28.000 euro, e fino a 35.000 euro, scatta una detrazione fiscale basata sulla seguente formula:

480 + 120 x (35.000 – reddito)/7.000.

L’effetto pratico sarà quello di avere 100 euro al mese, che si riducono progressivamente, fino ad arrivare ad  80 euro al mese, al raggiungimento dei 35.000 euro.

Per chi invece supera 35.000 euro e fino a 40.000 euro di applica la formula:

480 x (40.000 – reddito)/5.000.

L’effetto pratico in questo caso è che si parte da 80 euro al mese, per arrivare a zero, al raggiungimento dei 40.000 euro lordi annui di reddito.

Ovviamente per chi supera i 40.000 euro lordi annui di reddito, da lavoro dipendente, non cambia nulla. Chi invece resta al di sotto della soglia come reddito da lavoro dipendente, ma la supera perché percepisce altri redditi, perde l’agevolazione in sede di dichiarazione dei redditi, oppure può segnalare preventivamente al datore di lavoro il proprio caso, in modo da non dover subire il conguaglio finale.

Chiarito il meccanismo di funzionamento, riteniamo necessario esprimere un commento che sintetizzi il contenuto “politico” della scelta fiscale del governo.

La novità rappresenta un’indubbia estensione della “platea” dei beneficiari del vecchio “bonus Renzi”, che da 12 milioni sale a 16 milioni di lavoratori. Si tratta di un primo, parziale, insufficiente correttivo di un sistema di imposizione fiscale, che nel suo complesso resta sbilanciato ed ingiusto.

E’ bene accolto naturalmente tutto ciò che va nella direzione di favorire i consumi  e la domanda aggregata, migliorando il reddito netto percepito da parte di lavoratori che vedono i propri salari fermi da troppi anni.

Nel nostro settore poi la sostituzione, partita ormai oltre 20 anni fa, di lavoratori più garantiti e pagati, con neo-assunti meno costosi, realizzata con gli esodi ed i prepensionamenti, ha contribuito ad abbassare la media degli stipendi e quindi a rendere fruibile la riduzione del cuneo fiscale, operanti per queste classi di reddito.

L’abbassamento degli stipendi è proseguito in questi anni con rinnovi dei contratti “sacrificati”, in particolare quello del 2012, ma anche quello del 2015, con l’abbassamento degli inquadramenti realizzato con i nuovi ruoli professionali contrattati in alcune banche, con il taglio di VAP e trattamenti di missione nella banche “in crisi”,  con l’assillante contenimento dei costi del personale ad ogni livello.

Tuttavia la battaglia per un fisco più giusto è ben lontana dalla conclusione ed anche da qualche significativa tappa intermedia.

Per capire la sproporzione è sufficiente osservare come cambia nel tempo la distribuzione del peso fiscale. Ad esempio nel triennio 2016-2018 il gettito dell’Irpef (imposta sul reddito delle persone fisiche  che grava soprattutto su dipendenti e pensionati) è cresciuto del 5,7%, mentre le entrate dell’Ires (imposta sulle società che tassa il reddito d’impresa) sono calate del 4%.

L’altra grande voce delle entrate tributarie è l’IVA, che grava indistintamente sui consumi e quindi su tutti i cittadini a prescindere dal loro reddito o patrimonio.

E’ tempo quindi di cambiare radicalmente politiche: tassare gli utili d’impresa, i profitti, le rendite, i capitali ed il patrimonio, liberando il lavoro e le pensioni dal fardello di un fisco troppo oneroso. Per non parlare dell’enorme volume dell’evasione e dell’elusione, che lasciano indenne un gigantesco fatturato sommerso, quantificabile in almeno 250 miliardi di euro.

Si tratta dunque di un lungo percorso verso una giustizia redistributiva, che metta il fisco al centro, come principale terreno di confronto e di conflitto sulla ripartizione delle risorse prodotte dal lavoro.

Una questione presente da tempo, ma improrogabile ormai, vista la profondità della diseguaglianza sociale maturata negli ultimi decenni e la crisi verticale prodotta dalla pandemia.

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Credito e Assicurazioni

 

 

Accordo PVR Intesa Sanpaolo: giochiamo a mosca cieca

E’ stato firmato nelle scorse settimane l’accordo per il PVR 2020 in Intesa Sanpaolo
L’impianto ricalca lo schema dell’anno precedente, con alcune lievi modifiche.
Si introduce, come precedentemente annunciato, un piccolo incentivo per chi effettua almeno due segnalazioni a Intesa Sanpaolo Casa.
Il premio incentivante del SET (Sistema Eccellenza Tutela), più che dimezzato rispetto allo scorso anno, non è stato oggetto di accordo, ma proposto/imposto come iniziativa unilaterale aziendale.
Confermiamo il nostro giudizio critico su questi strumenti divisivi, complicati e poco trasparenti.

In allegato (e a seguire) il nostro volantino di commento.

CUB-SALLCA Intesa Sanpaolo

 

ACCORDO PVR INTESA SANPAOLO: GIOCHIAMO A MOSCA CIECA

Il 30 giugno scorso azienda e sindacati firmatari hanno siglato il rituale accordo annuale sul PVR 2020. E’ evidente che la priorità dei lavoratori non è oggi quella del Premio di Rendimento, perché altre preoccupazioni incombono sulla dimensione quotidiana, a partire dalla situazione di caos della rete filiali, per arrivare alle difficoltà legate alla situazione scolastica, dai rischi tuttora rappresentati dalla pandemia, alle incertezze del contesto economico e di mercato.

Tuttavia è ragionevole attendersi una qualche forma di riconoscimento per l’impegno straordinario profuso in questi lunghi mesi e la gravosità del lavoro svolto in un contesto imprevedibilmente difficile. Se la struttura ha retto, è stato anche per l’abnegazione, la pazienza, la professionalità e lo spirito di squadra che sorregge l’attività lavorativa dei colleghi, sia nella rete filiali che nelle sedi.

A fronte di aspettative legittime, era lecito attendersi un qualche segnale di cambiamento rispetto alla farraginosa, illeggibile, astrusa, formulazione della struttura del PVR precedente. Invece niente: siamo di fronte alle solite 18 pagine di contorsioni verbali, algoritmi matematici, tabelle excel e proibitivi parametri KPI, attraverso i quali si potrebbe forse arrivare, a maggio 2021, ai soliti quattro spiccioli, perlomeno per la gran massa della truppa.

Magnificati dai consueti, corroboranti, commenti dei sindacati firmatari (sfidiamo chiunque di loro a spiegarci l’accordo nel dettaglio…), i contorti paragrafi dell’accordo 2020 ci restituiscono le seguenti informazioni di sintesi:

1) Il “bonus pool” del PVR è salito di ben 1,5 milioni di euro, raggiungendo la cifra di 86,5 milioni;

2) Il “premio base” sale a 365 euro, cui si aggiungono ora 120 euro per chi sta sotto i 35.000 euro di RAL;

3) La quota riservata al “premio aggiuntivo” vede un leggero incremento per i livelli inferiori;

4) Viene introdotto un “premio sinergia ISP Casa” di 300 euro per i gestori che fanno due segnalazioni interessanti all’agonizzante ISP Casa (se però i gestori “bravi” superano il numero di 5.000, il bonus individuale può scendere “per ripartizione”);

5) il premio SET (Sistema Eccellenza Tutela) per incentivare le polizze di tutela si dimezza da 32 a 15 milioni di euro e salgono le soglie di accesso per le filiali. Per questo motivo i sindacati hanno ritenuto di non firmare l’accordo SET, che resterà quindi iniziativa unilaterale aziendale.

Facendo due conti, constatiamo che l’ammontare di risorse destinate al sistema incentivante scende, nel suo complesso. Il “bonus pool” infatti salirà di 1,5 milioni e altrettanto costerà il premio Sinergia ISP Casa (3 milioni totali), mentre il SET scenderà di 17 milioni…

Lo sbilancio, negativo, è di 14 milioni di euro. Potrebbe sembrare una notizia sorprendente, ma solo in apparenza. Il 2020 sarà un anno complicato, soprattutto per la redditività, e altre banche stanno già riscrivendo i piani industriali. E’ prematuro predire catastrofi, perché alcuni obiettivi (come gli impieghi) finiranno probabilmente per salire, mentre altri target (come collocamenti e polizze) sembrano fuori portata. Puntare preventivamente al taglio dei costi (anche di incentivo!) significa portarsi avanti con il lavoro….

Noi non abbiamo mai condiviso l’impianto del sistema incentivante e meno che mai la sostituzione del VAP con il PVR. Storicamente ha portato ad un riduzione tendenziale del premio, ad una formulazione divisiva che mette in concorrenza i lavoratori, ad una struttura incomprensibile ai più, legata a parametri fuori controllo, sia per i lavoratori che per i sindacati firmatari, i quali ultimi fingono di padroneggiarla o addirittura negoziarla, mentre invece la subiscono.

L’introduzione del SET negli ultimi due anni ha ulteriormente esacerbato la competizione tra filiali, tra Aree, tra Direzioni Regionali, facendo balenare il miraggio di un importo succulento in caso di risultati eclatanti, puntualmente disatteso in sede di attribuzione definitiva.

Un’insoddisfazione generalizzata che hanno vissuto migliaia di lavoratori (e responsabili), anche negli anni in cui l’andamento favorevole dei mercati e delle vendite è risultato estremamente positivo e la “distribuzione dei premi”, di conseguenza, estesa e diffusa. Alla fine è sempre emerso il dilemma cruciale: “ma ne valeva la pena?”, perché a fronte di premi elevati (e sconosciuti) assegnati ai responsabili di medio e alto livello, in basso sono sempre arrivate poche briciole.

Briciole tassate poco o niente, è vero, perché sfruttano l’agevolazione sugli incrementi di produttività o l’utilizzo in conto sociale, ma pur sempre briciole…

Mentre in altre tornate si poteva ancora guardare al LECOIP come parziale compensazione di questo stato di cose, ora non c’è neanche più questo ragionamento in campo. L’andamento delle quotazioni azionarie cui è legato il LECOIP è così deprimente, che molto difficilmente la quantificazione finale del certificato supererà l’importo minimo di partenza (e alla maggior parte dei gestori arriverà l’equivalente di 500 euro annui…).

Si deve quindi tener presente tutto questo, soprattutto quando si fanno i conti con pressioni commerciali insistenti e insostenibili, che sono riprese puntualmente in tutte le reti, visto che si vuole irragionevolmente recuperare il tempo perso, per raggiungere gli obiettivi assegnati in logiche di piani industriali “preistorici”, totalmente ignari del coronavirus!

E nello stesso tempo è iniziata una “trattativa” su ruoli e percorsi professionali, in cui la posizione dei sindacati non è nota (non parliamo poi di una piattaforma discussa e votata dai lavoratori…), mentre l’azienda ridisegna quasi ogni anno, d’iniziativa, un’impalcatura che ha portato in un quinquennio all’abbassamento generalizzato degli inquadramenti con risparmi da centinaia di milioni di euro.

Mai come quest’anno quindi è opportuno lavorare in modo etico e sostenibile, fornendo alla clientela la consulenza adeguata sul piano professionale e i prodotti mirati alle esigenze reali. Non farsi distrarre da specchietti per allodole, obiettivi premiali e meccanismi incentivanti significa essere coerenti con le buone prassi e la drammaticità del contesto.

E’ la risposta più responsabile e seria a chi non intende fare alcuna autocritica rispetto ad un modello in crisi e che prosegue sui vecchi binari come se nulla fosse accaduto. E tutto condito da slogan totalmente fasulli come il “Nulla sarà più come prima…”. Ma un po’ di ritegno, no?

 

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Intesa Sanpaolo

Fondo Sanitario Intesa Sanpaolo. Assemblea dei Delegati del 30.06.2020

Il 30 giugno scorso è stato approvato dall’Assemblea dei Delegati il bilancio 2019 del Fondo Sanitario Integrativo.

L’occasione si prestava per un ragionamento, almeno provvisorio, sull’impatto del COVID-19 sul nostro sistema sanitario e sulle scelte future in tema di cura, prevenzione e sicurezza sanitaria.

E’ opinione comune che il sistema pubblico, pur depauperato di personale e posti letto da un decennio di tagli e sacrifici, abbia retto bene la prova.

La sanità integrativa è stata di scarso supporto nella fase acuta, visto che le terapie intensive sono prevalentemente concentrate nel pubblico (rapporto 12 ad 1), data la scarsa redditività di impianti e strutture utilizzate mediamente sotto il 50% del potenziale…

La lezione da trarre è che va potenziato il sistema sanitario pubblico con risorse umane, tecnologiche e finanziarie adeguate, per garantire a tutti il diritto ad una cura di qualità, senza discriminazione di censo e di condizione sociale.

La sanità integrativa deve essere, appunto, integrativa ed il dilagante favore fiscale che l’accompagna nei sistemi di welfare aziendale non deve farla diventare sostitutiva degli aumenti salariali, come sempre più spesso accade in vari settori.

Per quanto riguarda il nostro Fondo, il buon andamento finanziario del 2019 permette una positiva chiusura del bilancio, con erogazione della quota differita anche ai quiescenti (mentre invece, come si ricorderà, per il 2018 era stato pagata solo al 52%).

Il consueto “bilancio tecnico” chiesto allo studio attuariale non manca di evidenziare previsioni catastrofiche su un orizzonte a 30 anni. A pag. 48 si legge infatti:  “L’analisi attuariale ha evidenziato che su un orizzonte temporale di 30 anni la gestione degli attivi presenta un disavanzo tecnico pari a 84,4 milioni di euro mentre la gestione quiescenti pari a 393 milioni di euro. In conclusione, se ne deduce che la somma delle attività a copertura degli impegni del Fondo e delle entrate future, entrambe in valore attuale medio alla data di valutazione, risulta non sufficiente a far fronte alle future prestazioni…”

Previsioni così allarmistiche su orizzonti temporali “estremi” sono prive di senso, ma utili per minacciare tagli alle prestazioni e/o aumenti dei contributi, mentre le riserve continuano a crescere anche in periodi come questo. L’intervento, allegato, del ns. Delegato in Assemblea, Gianpaolo Gallizio, ripercorre la necessità di cambiamenti seri alla politica del Fondo (dalla copertura dei test sul COVID, all’utilizzo delle riserve, dall’annoso problema della quota differita, al funzionamento del service).

E’ compito di tutti fare in modo che i nostri interventi non restino coraggiose prese di posizioni isolate, ma divengano strumenti di pressione condivisi sulle modifiche urgenti da adottare.

BANCA POPOLARE DI BARI: UN PIANO DI SOPRAVVIVENZA DOPO IL DISASTRO.

Si è finalmente voltato pagina nel percorso di salvataggio della Banca Popolare di Bari.

Ancora una volta dopo il fallimento “privato” di una Banca Popolare, gestita da 60 anni dalla stessa famiglia, successione dinastica compresa, con perdite pari a 1,144 miliardi di euro, deve intervenire il sistema bancario, nel suo complesso, ed il settore pubblico, in via prevalente, per evitare il baratro.

La messa in sicurezza dipendeva dall’adesione dei 70.000 soci, che dovranno rassegnarsi a recuperare le briciole.

I lavoratori pagano errori e reati altrui, con un accordo sindacale che produce 650 esuberi e 91 filiali da chiudere.

Oltre ai tradizionali strumenti utilizzati in tali casi (esodi ed incentivi al prepensionamento), qui ci sono rilevanti novità, ovviamente peggiorative, data la situazione.

Si incentivano i lavoratori a licenziarsi di propria iniziativa, si riduce l’orario di lavoro (ma anche le paghe…), si trasformano rapporti di lavoro a tempo pieno in rapporti a tempo parziale, si avviano trasferimenti passivi pesanti, più tutta una serie di misure che realizzeranno, nel complesso, risparmi per 67 milioni di euro.

Mentre la magistratura prosegue il suo corso, resta da spiegare come l’assenza di una seria vigilanza istituzionale e la latitanza di uno stringente controllo sindacale, abbiano potuto produrre un simile disastro, dove i lavoratori devono accettare condizioni capestro, sotto il ricatto occupazionale.

Buona lettura.

 

Banca Popolare di Bari.

Un piano di sopravvivenza dopo il disastro.

I soci della Banca Popolare di Bari hanno approvato nell’assemblea del 30 giugno, la trasformazione della banca in Spa e la consegna del controllo societario a Medio Credito Centrale e Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi, i due soggetti che ricapitalizzando la banca per un totale di 1,6 miliardi di euro, la possono salvare dal fallimento e metterla in sicurezza.

Per i soci che avevano partecipato agli aumenti di capitale 2014-2015 la perdita quasi totale del capitale investito sarà compensata, in misura molto parziale, dall’indennizzo transattivo di 2,38 euro ad azione (valevano 9,50 euro nei tempi andati…) e dalla attribuzione di un warrant, a valere su una ipotetica e futura ripresa dei corsi delle azioni. Perché la delibera di salvataggio fosse valida, doveva votare a favore il 50% dei soci, rappresentanti almeno il 60% del capitale sociale. Come già per Carige nello scorso settembre, ci sono stati dubbi ed incognite fino al voto finale, ultima spiaggia per prevenire un fallimento totale: il sì ha vinto con il 97% dei votanti.

Propedeutico all’esito positivo della vicenda, doveva esserci l’accordo con i sindacati, per tagliare i costi e realizzare i necessari risparmi, su costo del lavoro ed altri costi operativi: condizione essenziale posta dai Commissari, dall’esecutivo e dai vertici di Bankitalia per finanziare il salvataggio. E l’accordo è arrivato nei tempi e nei termini previsti, come avremo modo di vedere.

Ma prima di arrivarci, converrà fare un po’ di storia, per ricostruire il percorso che ha portato all’ennesimo clamoroso fallimento  in campo bancario, con un costo per il bilancio dello stato che è salito ormai, a conti fatti dopo tutti i salvataggi realizzati,  ben oltre i 10 miliardi di euro. Risorse che avrebbero potuto essere impiegate diversamente; senza contare le decine di miliardi perdute dai risparmiatori, il più delle volte del tutto incolpevoli.

Fondata nel 1960, cresciuta in modo esponenziale a partire da inizio anni ’90, controllata da sempre dalla famiglia Jacobini, gestita per periodi alterni anche da Vincenzo De Bustis (ex. d.g. del MPS e presenza costante nei crack bancari più noti), la Banca Popolare di Bari ha commesso alcuni errori che sono poi risultati fatali. Tra essi gli acquisti a caro prezzo di 43 sportelli ISP nel 2007 e le 43 filiali  di C.R. Orvieto nel  2008, seguiti dalla rovinosa acquisizione della Tercas (che controllava Caripe) nel 2014, dietro autorizzazione di Banca d’Italia e con il sostegno del Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi, che intervenne con 330 miliardi di euro, fondi in seguito censurati dalla Commissione Europea come aiuti di stato in violazione della normativa Antitrust: l’inizio della fine.

Un’indagine partita nel 2017 in seguito ad una denuncia di un dipendente (ora si direbbe un whistleblower) porta allo scoperto le false informazioni sociali fornite nei prospetti per gli aumenti di capitale del 2014 e del 2015. I vertici vengono sanzionati pesantemente e si comincia a fare luce sui veri conti della banca. Il bilancio 2018 chiude con 420 milioni di perdite e la crisi è ormai conclamata.

In questo susseguirsi di azioni concitate, per dissimulare il reale stato di salute della banca, non si può tacere del ruolo a dir poco imbarazzante dei sindacati trattanti. Almeno due episodi meritano di essere citati.

Nelle 400 pagine dell’ordinanza del GIP del Tribunale di Bari per il rinvio a giudizio dei vertici della banca per falso in bilancio si legge, precisamente a pag. 371 e seguenti, l’intercettazione tra due dirigenti aziendali a proposito dell’accordo del 2017 per i 514 esuberi della C.R. Orvieto e si legge testualmente, a proposito di un’opera di persuasione della BPB nei confronti dei sindacati: “”in guerra come in guerrasi è comprato i sindacati... non si possono comprare pure l’anima e l’affetto (sembra dire) di tutti quanti mo’ vedremo…”.  Poi tra i 9 esponenti aziendali rinviati a giudizio non ci sono sindacalisti, quindi non risulta emerso nulla di penalmente rilevante, ma certo il contenuto del discorso finito nell’inchiesta apre forti dubbi sull’indipendenza dei rappresentanti dei lavoratori.

L’altro episodio è meno generico ed esplicitamente targato Fabi, come riporta la cronaca locale:  ”A questo proposito c’è il caso di Carmine Iandolo, iscritto alla Fabi dal 2016 (prima era in Fisac, n.d.r), fino a pochi mesi fa responsabile dell’Organo di coordinamento del gruppo Bpb e Cari Orvieto. In un congresso sindacale del 2017 Iandolo dichiarò che la Popolare “è gestita magistralmente dal nostro grande presidente Marco Jacobini con la collaborazione dei suoi figli“. L’affermazione pare abbia lasciato basito lo stesso Segretario Generale Lando Maria Sileoni,  che era presente, e che a frittata ormai fatta ha dovuto ammettere che ” La banca non aveva gli anticorpi. Anche i sindacati di Bari hanno la responsabilità di non aver saputo quello che stava accadendo”. Peraltro non la sola Fabi aveva un atteggiamento condiscendente verso il vertice della BPB, se è vero quanto afferma lo stesso Sileoni: “Aggiungo però una cosa che mi è stata riferita da alcuni colleghi: fino ad alcuni anni fa quando le persone venivano assunte in banca, insieme alla lettera di assunzione gli veniva presentata la tessera di due organizzazioni sindacali. Fra queste non c’era la tessera della Fabi”.

In ogni caso il degrado dei conti della Banca porta al Commissariamento da parte della Banca d’Italia in data 13.12.2019 e poi all’arresto di Marco e Gianluca Jacobini nel gennaio 2020, dopo un ultimo tentativo di distrazione di fondi per milioni di euro, dai conti della banca a favore di conti personali. Il 16 luglio 2020, presso il Tribunale di Bari, partirà il processo penale nei loro confronti, rispettivamente ex presidente ed ex condirettore della Banca Popolare di Bari, accusati di 14 capi d’imputazione tra cui i reati di falso in bilancio, falso in prospetto e false comunicazioni.

Per quanto riguarda i lavoratori, come dicevamo, si è aperta la procedura di confronto che ha portato all’accordo sindacale lo scorso 10 giugno. La gravità della crisi ha prodotto un accordo che chiude 91 filiali (su circa 350) e riduce i costi di circa 67 milioni di euro, portando l’individuazione degli esuberi dai 900 inizialmente richiesti dalla banca ai 650 definiti dall’accordo. Ampia, innovativa e in alcuni casi anche peggiorativa è la gamma degli strumenti utilizzati o utilizzabili. Visto che nel settore tutto rappresenta un “precedente”, sarà bene analizzare nel dettaglio le novità, che potranno essere copiate, in futuro, in situazioni analoghe.

I lavoratori che possono andare in pensione entro il 2021 con “quota 100” avranno un incentivo che va da due ad otto mensilità nette, in relazione ai mesi di anticipo rispetto alla finestra ordinaria.

Le colleghe che accetteranno di andare in pensione con “opzione donna” avranno un incentivo pari a nove mensilità nette.

Avranno la possibilità di andare in esodo con il Fondo di Solidarietà tutti i lavoratori e le lavoratrici che matureranno il diritto alla pensione entro il 31.12.2029. Possono presentare richiesta anche i lavoratori che intendono avvalersi del riscatto degli anni di laurea e che maturerebbero i requisiti nel 2030 e 2031 (il costo del riscatto sarebbe a carico del Fondo).

Le tempistiche di uscita avverranno, con modalità diverse, tra il 30.09.2020 ed il 31.12.2024. I lavoratori che maturano il trattamento di pensione entro il 31.12.2027 cesseranno dal servizio gradualmente, in modo da permanere nel Fondo per 36 mesi. I lavoratori che matureranno il trattamento tra il 31.12.2027 ed il 31.12.2029 usciranno non più tardi del 31.12.2024 (in questi casi si potrà restare nel Fondo per periodi maggiori, fino a 60 mesi).

Qui c’è la prima importante novità: chi sta nel Fondo per più di 36 mesi vedrà dal 1.1.2022 trasformarsi il proprio rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale, con orario non superiore al 70%. Rientrerà a tempo pieno solo nel mese precedente l’accesso al Fondo.

Inoltre, ed è una seconda novità,  i lavoratori che aderiscono alle tre opzioni (quota 100, opzione donna, esodo), assegnati a filiali in chiusura e passibili di trasferimento oltre i 70 km, potranno richiedere di essere collocati in aspettativa parzialmente retribuita al 60% per il periodo che va dalla chiusura della filiale alla data di cessazione del rapporto di lavoro.

Sia per gli uni che per gli altri (cioè chi passa al part-time con il 70% e chi va in aspettativa pagata  al 60% della retribuzione) l’azienda verserà a previdenza complementare aggiuntiva il 10% della differenza netta, cioè della perdita retributiva subita.

Una terza importante novità rappresenta la previsione, per chi NON ha i requisiti per accedere né  al Fondo di Solidarietà né al trattamento pensionistico, di risolvere il proprio rapporto di lavoro (cioè di licenziarsi) per accedere alla parte emergenziale del Fondo. In questo caso, come sappiamo, il Fondo prevede un’integrazione al trattamento ASPI differenziato (fino all’80% – 70% – 60% dell’ultima retribuzione, in base alla fascia di reddito). Questo trattamento ha una durata di 24 mesi totali. E’ previsto poi un periodo di 12 mesi in cui l’azienda fornisce un servizio di “outplacement” (sostegno alla ricerca di un nuovo lavoro, anche attraverso corsi di riqualificazione), secondo quanto previsto dal Regolamento del Fondo.

Ai lavoratori che accettano questa soluzione viene offerto un incentivo pari a 12 mensilità nette.

Sono previste poi ulteriori misure tese a ridurre i costi.

La principale rappresenta un vero “contratto di solidarietà”, inteso come meno orario e meno salario. Fino al 31.12.2024 l’orario di lavoro viene ridotto per tutti a 35 ore settimanali con corrispondente riproporzionamento della retribuzione rispetto all’orario settimanale di lavoro di 37,5 ore. La riduzione può essere distribuita su base settimanale (7 ore al giorno di lavoro), oppure cumulata in giornate intere mantenendo in questo caso immutato l’orario giornaliero di 7,5 ore  (e cumulando 2,5 ore di riduzione per ogni settimana di effettivo servizio).

E’ previsto fino al 2024 un contributo di solidarietà per tutti coloro che hanno percepito nell’anno precedente una RAL superiore alla retribuzione tabellare prevista dai CCNL per il relativo inquadramento. La percentuale del contributo varia dal 5% al 20% in proporzione all’entità della quota eccedente.

Sempre nell’arco di validità del piano, cioè fino al 31/12/2024:

  • È sospesa l’erogazione del premio di rendimento eccedente lo standard di settore;
  • Il contributo aziendale a previdenza complementare non può superare il 2%;
  • Il Tfr per i dirigenti è calcolato su una base imponibile circoscritta allo stipendio ed eventuale ad personam.
  • Non verrà consentito lavoro straordinario e quello eccezionalmente autorizzato confluirà in banca delle ore.

In conclusione possiamo dire di essere in presenza di un accordo figlio dei tempi e della situazione estremamente deteriorata della banca.

L’azienda cercherà entro la fine del 2020 di vendere le 94 filiali indicate come possibile oggetto di chiusura, ma qualora non riuscisse a trovare compratori interessati, procederà alla chiusura di 91 sportelli, con potenziali e pesanti ricadute in termini di mobilità del personale. Il trattamento di mobilità giornaliera è limitato ad una distanza superiore ai 30 km e ad una durata di 36 mesi.

Resta come interrogativo come si sia potuto arrivare fino a questo punto senza che nessuno sia intervenuto per prevenire la catastrofe o porre rimedio ad uno stato d’avanzata decomposizione quando i dati hanno iniziato ad essere noti.

A perdere sono le finanze pubbliche (perché nessun privato si è azzardato a rischiare un euro per salvare il salvabile), l’economia del meridione in generale (dove la presenza di soggetti creditizi si fa sempre più labile) ed i lavoratori (che devono contribuire pesantemente in termini di posti di lavoro e di taglio allo stipendio).

Come sempre si interviene quando i buoi sono scappati, fino al prossimo giro di giostra…

 

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Credito e Assicurazioni

ANCHE NELLA RETE INTESA SANPAOLO LA MISURA E’ COLMA

La ripresa a pieno regime delle attività commerciali nelle banche italiane sta riproponendo il consueto tema delle pressioni alla vendita.

Incuranti della situazione del paese, dello stato d’animo dei risparmiatori, delle priorità della clientela, i modelli di offerta ripetono schemi obsoleti e ripetitivi.

Incapaci di autocritica sulla mediocrità dei prodotti collocati prima della crisi generale innescata dal coronavirus, con esiti insoddisfacenti (gestioni patrimoniali e polizze finanziarie) o imbarazzanti (certificati e fondi a finestra), le banche puntano a fronteggiare la prevedibile crescita delle sofferenze con un aumento dei ricavi su gestito e polizze di tutela.

In Intesa Sanpaolo, in particolare, l’ossessione per la tutela è pervasiva e assolutamente indifferente alla reale percezione del bisogno da parte della clientela, che subisce questa tipologia di proposta in modo del tutto passivo e respingente.

Ma il piano industriale richiede risultati e pretende allineamenti nei comportamenti individuali: alla linea gerarchica il compito di farli eseguire.

Non andrà tutto bene, se continuiamo di questo passo! Proviamo a reagire, a rispedire al mittente pressioni inaccettabili o ad ignorarle semplicemente. Anche perché, oltre alla nostra coscienza, anche l’Antitrust continua a vigilare!

 

leggi il nostro volantino:       

ANCHE NELLA RETE INTESA SANPAOLO LA MISURA E’ COLMA

Dopo la fase di lockdown in seguito all’emergenza Covid-19, lentamente si sta tornando alla normalità anche nelle filiali Intesa Sanpaolo, pur con le dovute misure di sicurezza. Dopo circa 3 mesi in cui tutti i colleghi, in varia misura, hanno dovuto affrontare situazioni di stress, dall’ansia per i rischi sanitari alle difficoltà legate alla gestione della famiglia a causa delle scuole chiuse, adesso si cerca di capire come riorganizzare il proprio lavoro, in ufficio o a casa, anche alla luce delle ormai prossime vacanze estive, che saranno senz’altro diverse da come s’immaginavano all’inizio dell’anno.

In questo scenario, ci si aspetterebbe da parte dell’Azienda un atteggiamento di comprensione e un maggior supporto, visto che chi ha continuato, seppure a giorni alterni, ad andare a lavorare in filiale, ha comunque messo a repentaglio la sua salute e quella dei propri cari. Invece, dall’alto stanno arrivando, ormai da alcune settimane, segnali d’insofferenza per i risultati che non arrivano dal punto di vista commerciale.

Riunioni via chat, telefonate-fiume tra i capi area e i direttori di filiale, insomma si cerca di rimettere in riga la squadra, perché si è già perso troppo tempo e il conto economico non può più aspettare. Il leitmotiv è, ancora una volta, saper ”‘cogliere le opportunità del momento”’. Il che si traduce nel proporre alla clientela (anch’essa psicologicamente provata dalla situazione, e in molti casi anche economicamente) i più svariati prodotti, in primis quelli assicurativi, partendo dal presupposto che nel momento in cui si rivolgono a noi, avendo bisogno di aiuto, sono più propensi all’ascolto.

Senza troppi giri di parole certi capi area hanno insistito sul fatto che, nel momento in cui un cliente chiede un finanziamento, oppure ha bisogno di sospendere le rate, bisogna approfittarne per piazzargli un prodotto di tutela, magari una bella polizza salute, vista la situazione.

Questo atteggiamento è tanto più subdolo se si pensa che i vertici della Banca hanno pubblicizzato in questi mesi varie iniziative benefiche di sostegno economico alle strutture sanitarie, in modo da dare all’opinione pubblica un’immagine di azienda vicina alla nazione nei momenti di maggiore difficoltà; invece i dipendenti dovrebbero fare la figura degli sciacalli che si approfittano delle persone più deboli.

Tutto ciò è deprecabile sia dal punto di vista etico, sia professionale. Forse la recente sanzione dell’Antitrust non è stata sufficiente per far cessare questo tipo di suggerimenti?

In questo scenario, si è aggiunta l’emergenza dovuta alla repentina chiusura delle task force adibite alla sospensione delle rate dei finanziamenti e all’anticipo della cassa integrazione.

Da un giorno all’altro, sul sito vetrina di Intesa Sanpaolo, i clienti hanno trovato l’avviso che li invitava a rivolgersi al proprio gestore per il disbrigo della pratica. Peccato che le filiali non abbiano ricevuto le istruzioni su come procedere, in particolare per l’anticipazione sociale della c.i.g., con conseguenti situazioni di imbarazzo nei confronti della clientela.

Scaricare sulle filiali un’ulteriore mole di lavoro in un periodo già di per sé difficile, è assolutamente inaccettabile, soprattutto senza alcun preavviso. E questa situazione contribuisce a inasprire il clima nelle filiali, dove i clienti sono esasperati per le restrizioni in essere e per le attese infinite agli sportelli, e scaricano il proprio malumore sui dipendenti della banca, con insulti, minacce verbali, e in casi estremi anche violenze fisiche.

E’ giunto il momento di dire basta, e di pretendere dall’Azienda condizioni di lavoro improntate a una maggiore sicurezza e rispetto nei confronti dei dipendenti, che non sono soltanto limoni da spremere, ma persone che lavorano quotidianamente con impegno, e grazie alle quali si sono raggiunti i ricchi utili di questi anni, che l’hanno resa il primo gruppo bancario italiano.

In tutto questo, i 6 giorni di ferie aggiuntive per chi ha lavorato in filiale durante l’emergenza hanno il sapore di un contentino, ma non eliminano l’amarezza per chi si sente, ogni giorno di più, trattato come “carne da macello”.

CUB-SALLCA Intesa Sanpaolo

UNICREDIT DALLA TRAGEDIA ALLA FARSA

L’emergenza Covid-19 sta iniziando a rientrare gradualmente, seppure permangano rischi imponderabili di contagio di ritorno. 

La fase convulsa che abbiamo alle spalle ha visto comportamenti diversificati tra le varie banche. 

A fronte di misure tempestive e comportamenti allineati ai provvedimenti governativi e ai protocolli di settore, si sono riscontrati purtroppo anche ritardi, inefficienze ed omissioni gravi.

Nella fase della “ripresa” si coglie negli umori aziendali un senso di accelerazione verso un ritorno all’antico, la corsa a recuperare il tempo perso, l’ansia da prestazione.

Non mancano però veri e propri autogoal, iniziative prive di senso, cadute di stile; a latitare sembra più che altro il senso della realtà. 

Abbiamo provato a raccontarlo attraverso le vicende di Unicredit.

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INTESA SANPAOLO. PRESSIONI COMMERCIALI: UNA BOTTA SALUTARE

La sanzione dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, che ha recentemente colpito Intesa Sanpaolo ed altre importanti banche, ha finalmente costretto le aziende investite dal provvedimento a ripensare le proprie modalità di condotta.

Intesa Sanpaolo ha diramato, per prima, una comunicazione in cui intima ai propri responsabili commerciali, ad ogni livello, di attenersi  rigidamente a quanto previsto dai protocolli e dal modello di offerta. In particolare VIETA le richieste di rendicontazione dei dati di vendita ai colleghi di rete (che si configurano come pressioni improprie) e le iniziative commerciali autonome (affidate cioè alla fantasiosa “creatività” di chi vuole brillare…).

In particolare viene posta l’attenzione sulla tutela, ma il discorso investe in generale il modo di proporre i prodotti e servire i clienti.

E’ un primo passo importante per iniziare a cambiare e tornare a ipotesi più ragionevoli, in termini di budget e di modello di banca. Tanto più importante in una fase in cui il “ritorno alla normalità” si configura come un ritorno al passato, da parte di chi non ha ancora capito…

I colleghi devono tenere sempre a mente che la lettera dell’azienda rappresenta anche una sorta di manleva a suo discarico: se qualcuno d’ora in avanti, per mettersi in vista, adotta comportamenti non in linea o troppo disinvolti, non sarà più difeso dalla benevola e paternalistica tolleranza dei vertici… A buon intenditor, poche parole!

LEGGI IL VOLANTINO ALLEGATO (altro…)

Salute pubblica e polizze private. ISP: predatori si nasce….

L’esplodere del Covid-19 ha messo a durissima prova i sistemi sanitari nazionali, che hanno reagito in base alle dotazioni tecnologiche e al “capitale umano” disponibile. 

Il sistema italiano proviene da una decennio di tagli forsennati agli organici, ai posti letto, alle terapie intensive, alle strutture sanitarie territoriali.
Nonostante questo, il sistema pubblico ha dato buona prova, grazie all’innegabile spirito di sacrificio ed all’alto senso del dovere dei suoi operatori.
Al contrario la sanità privata ha contribuito ben poco a risolvere i problemi, mentre i lavoratori del settore hanno pagato un prezzo altissimo in termini di vite umane. Tuttavia le ragioni del business portano a negare l’evidenza e continuano a premere per uno spostamento del focus verso la sanità privata ed i suoi corposi interessi.
E’ una logica predatoria che vede banche e assicurazioni in prima linea e la sanità come terreno di caccia.
Nel volantino allegato ritorniamo sul tema dell’ossessione della prima banca italiana per le polizze del ramo danni ed in particolare per le polizze sanitarie.

 

PREDATORI SI NASCE……..
Per la maggior parte del Paese la fase 2 sta ponendo l’attenzione al ritorno alla vita sociale di tutti noi, richiamandoci al rispetto delle regole del distanziamento sociale, all’uso delle mascherine e guanti ed all’applicazione di ogni precauzione possa evitare una nuova ondata del contagio. Si sta cercando, insomma, di non collassare nuovamente le nostre terapie intensive già messe a dura prova durante la fase 1.
Mentre tutto ciò accade vi è chi studia e pianifica alleanze e fusioni strategiche per lucrare in questi momenti di enormi difficoltà, destinando ingenti risorse finanziarie in settori tipicamente pubblici come la sanità, sotto gli occhi di una classe politica incapace o peggio ancora collusa e corrotta da un capitalismo cinico e malato.
Dopo il fallimento del progetto ISP casa, è di questi giorni la notizia dell’acquisizione del controllo societario della RBM Assicurazione Salute da parte di Intesa Sanpaolo Vita che con la creazione di Intesa Sanpaolo RBM Salute entro il 2029 ne diventerà unico proprietario. L’operazione è ritenuta strategica in quanto RBM è la prima compagnia assicurativa nel ramo malattia con 577 milioni di premi ed una quota di mercato del 18% ed assicurerà al Gruppo Intesa il raggiungimento di quegli obiettivi di raccolta premi dichiarati nel piano di impresa, ma che finora erano bel lontani dal concretizzarsi nella rete di filiali.
Ciò che preoccupa ed invita ad una profonda riflessione sono le dichiarazioni del CEO Messina “Puntiamo alla leadership nel settore della sanità integrativa, proprio nel momento in cui gli italiani hanno capito il bisogno di una assicurazione sanitaria personalizzata ed efficiente”; e del CEO di Intesa Sanpaolo RBM Salute Vecchietti “Credo che l’emergenza causata da questo virus abbia fatto riflettere profondamente i cittadini sull’importanza, nell’adottare gli stili di vita “new normal”, di investire maggiormente sulla protezione della salute. Avendo magari a disposizione strumenti non alternativi alle cure SSN ma aggiuntivi, da utilizzare nella logica, che è propria di un sistema sanitario universalistico, di integrazione al pilastro sanitario pubblico di base.”
Prescindendo dalle vere motivazioni che hanno spinto il top management di Intesa, più vicino alle logiche di profitto sempre e comunque, piuttosto che alla reale creazione di un’integrazione al pilastro sanitario pubblico di base, viene spontaneo dissentire dalle dichiarazioni rese dai CEO, in quanto è opinione diffusa invece che il nostro Servizio Sanitario Nazionale abbia retto bene all’urto di questa pandemia storica nonostante negli ultimi 20 anni sia stato martoriato da tagli dissennati al personale ed alle risorse finanziarie (soprattutto quelle dedicate alla ricerca scientifica) e veri e propri trasferimenti di denaro pubblico a favore di strutture sanitarie private. Il tutto condito con corpose detrazioni fiscali, utilizzate anche nei contratti sindacali di primo e secondo livello, che hanno sostituito gli aumenti salariali con il “welfare aziendale”.
E’ proprio questo il momento di una mobilitazione generale che rivendichi una sanità pubblica che destini capitali pubblici in nuovi ospedali, nuove apparecchiature e nuove assunzioni di medici e personale sanitario. Riducendo drasticamente il ruolo della sanità privata, che nella tragedia delle RSA ha mostrato l’inadeguatezza del proprio management, esibito il suo plateale fallimento e decretato (auspicabilmente) il suo inesorabile declino.

 

C.U.B- S.A.L.L.C.A. Intesa Sanpaolo