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MPS – INTERVENTO ALL’ASSEMBLEA DEL 16 GENNAIO A NAPOLI

Vista l’impossibilità di analizzare in dettaglio l’ipotesi di accordo per gli stringenti limiti di tempo, ritengo più utile soffermarmi sull’impostazione generale che a mio avviso la caratterizza.

Vorrei richiamare la vostra attenzione su un concetto contenuto nella premessa. La centralità dei dipendenti. Centralità che  nel documento viene ribadita.

Ma attraverso quali modalità si intende perseguire tale scopo? Attraverso un rafforzamento del welfare aziendale.

Il consolidamento del welfare aziendale sembra assolvere la funzione che una volta era rappresentata dalla stabilità del posto di lavoro, facendoci fare un ulteriore passo in avanti verso un modello di regolamentazione del rapporto di lavoro di tipo americano, che potremmo sinteticamente chiamare dei sommersi e dei salvati.

Chi  riesce  a  salvarsi  dalle  eventualità  sempre  più  numerose  che  minacciano l’esistenza  stessa  del  rapporto  di  lavoro,  che  vanno  dal  trovarsi  coinvolti  in un’esternalizzazione o più semplicemente, per i futuri colleghi assunti dopo il Job’s act, all’essere inquadrati con il cosiddetto contratto a tutele crescenti che consente la piena libertà di licenziamento, potrà fruire dei servizi del welfare aziendale, che saranno sempre più ambiti anche in assenza di un loro irrobustimento ottenuto in fase negoziale, vista la progressiva privatizzazione della sanità a cui assistiamo.

Chi invece resterà stritolato dalla competizione sempre più spinta che regolerà la vita lavorativa, competizione alla quale, sia detto en passant, questo accordo non mette alcun freno per quanto concerne il tema delle pressioni commerciali, scomparirà dal nostro orizzonte politico, sindacale o semplicemente emotivo, non prima però di svolgere per l’azienda un’ultima preziosa funzione: quella di deterrente alla conflittualità, alla contestazione, o alla semplice critica.

Questa impostazione è da rigettare. Se come si afferma nella premessa, l’azienda ha a cuore il sostegno dei dipendenti e addirittura delle loro famiglie, non esiste miglior rimedio che concordare insieme ai rappresentanti dei lavoratori, norme che anche nella contrattazione di secondo livello impediscano gli abusi in tema di cessioni di ramo d’azienda e mettano dei limiti alla disciplina nefasta del Job’s act per i nuovi assunti.

 

Così come è da rigettare quello che nell’ipotesi di accordo non si legge, perché implicito: la rassegnazione.

 

Rassegnazione che porta all’accettazione indiscutibile, che si debba intervenire sul

salario.

 

Un assunto dogmatico. Che naturalmente si ha cura di rivestire della più spendibile delle vesti tecniche.

 

Ma qui, ora, ma direi ovunque e sempre, quando si arriva a parlare esclusivamente in termini tecnici, significa che la politica, intesa come insieme delle decisioni che riguardano l’esistenza degli uomini e su di essa impattano, ha già fatto la sua parte.

 

Allora sì che non c’è nulla da discutere perché la dimensione tecnica non può offrire

alternative, ma solo formali accomodamenti. Rigettiamo e poi? Potrebbe dire qualcuno.

Ed io rispondo: già il rigettare è un poi. Un poi che non è stato ancora attraversato se

permettete, e di cui è giusto non conoscere le conseguenze, che possono essere valutate solo a posteriori, e sulla base della forza e della coesione con cui si mantiene quel poi.

 

Quel poi, e concludo, può acquisire forza però, solo uscendo dalle condizioni che hanno regolato da sempre le relazioni sindacali di questo settore, rompendo col sistema della delega in bianco, rifondando l’azione sindacale sulla base costituita dai lavoratori e riuscendo anche qui ad eleggere i nostri rappresentanti.

Io questa scelta l’ho concretizzata aderendo all’unico sindacato di base del settore, il SALLCA CUB.

Invito tutti i lavoratori che sono animati da un analogo sentire a votare no a questa ipotesi d’accordo e, soprattutto, a dare forza alla costruzione di una reale democrazia sindacale nel settore del credito, l’unico strumento che può far pesare maggiormente le nostre sempre più intimorite, spaesate, rassegnate voci individuali, in una dignitosa e forte voce collettiva.

LE EX FESTIVITA’ DEL 2016

Per il 2016 i giorni di ex festività sono quattro:

  • Giovedì 5 maggio Ascensione
  • Giovedì 26 maggio Corpus Domini
  • Mercoledi 29 giugno SS. Pietro e Paolo (festivo sulla piazza di Roma)
  • Venerdi 4 novembre Festa Forze Armate

Inoltre il 1 maggio cade di domenica, per cui è previsto il pagamento della giornata o, in alternativa, la fruizione di un ulteriore giorno di permesso.

Come spieghiamo meglio sotto, per avere diritto alle giornate di ex festività è necessario che in quelle date la giornata lavorativa sia completamente retribuita.

In conseguenza dell’ultimo contratto nazionale e di vari accordi aziendali, è necessario prestare la massima attenzione agli aspetti normativi legati alla loro fruizione.

Come prima cosa ricordiamo che per i quadri direttivi (ma, in molte banche, anche per le aree professionaliche lavorano con turni) una giornata andrà “devoluta” al Fondo per l’occupazione.

N.B. Attenzione alla doppia penalità!

Ricordiamo che effettuare eventuali assenze non retribuite (permessi ed aspettative non retribuite) nei giorni corrispondenti alle ex festività determina una doppia penalità (perdita dello stipendio e di un giorno di ferie).

La stessa attenzione va posta, nelle aziende interessate, nel non collocare in queste giornate eventualigiorni di solidarietà e giornate di riposo come recupero del sabato lavorativo laddove sono previsti gli orari “estesi”.

Al contrario, non ci sono problemi se ci si assenta per ferie, banca ore, malattia, donazione sangue, ecc.

Ricordiamo che, secondo il CCNL, la fruizione delle ex festività deve avvenire tra il 16 gennaio ed il 14 dicembre, ma in alcune aziende (es. Intesa Sanpaolo) è possibile la fruizione dal 1^ gennaio al 31 dicembre.

Il CCNL prevede anche che, in caso di mancata fruizione, la monetizzazione avvenga con le competenze di febbraio dell’anno successivo.

Questa norma è stata superata in numerosi accordi aziendali che o non consentono più la monetizzazione (in caso di mancata fruizione le ex festività andranno semplicemente perse) o prevedono obbligatoriamente la loro fruizione in via prioritaria, che in questi casi è comunque consigliata.

DECRETO SALVABANCHE E LA SCOPERTA DELL’ACQUA CALDA

banchefallitebArriviamo a fare i nostri primi commenti sulla vicenda delle 4 banche salvate dal governo, mentre la bufera mediatica è ancora in corso.

La vicenda, drammatica sotto molto aspetti, assume contorni comici quando assistiamo alcuni organi d’informazione scoprire, con grande stupore, che esistono le pressioni commerciali, che il governo tiene agli interessi dei banchieri più che a quelli dei cittadini, che le istituzioni europee usano due pesi e due misure, che gli organi di vigilanza (Consob e Banca d’Italia) non vigilano a dovere.

Sono temi che, per quel che ci riguarda, abbiamo sempre trattato “ordinariamente”. Riguardo le pressioni commerciali abbiamo organizzato convegni, fatto volantinaggi alla clientela, mantenuto pervicacemente un netto rifiuto a ogni ipotesi di sistema incentivante, criticando ogni accordo che pretenderebbe di “governare” questo strumento, invece di rivendicare per tutti, retribuzioni certe e contrattate.

Rispetto al governo attuale (e anche precedenti), dagli scioperi alla controinformazione (si vedano i nostri documenti sul job’s act), la nostra opposizione è stata intransigente, così come quelle alle politiche antipopolari teleguidate da Bruxelles.

Riguardo gli organi di controllo, basterebbe ricordare tutta la nostra azione di denuncia sulla vicenda Banco Desio, che, nonostante la condanna dei suoi dirigenti laziali per “associazione a delinquere finalizzata all’esportazione illecita di capitali”, ha potuto impadronirsi del Banco di Spoleto, sotto il benevolo sguardo di Visco. E’ un dettaglio, questo, curiosamente ignorato in tutta la polemica sorta intorno al commissariamento del Banco di Spoleto.

Avremmo quindi molto da dire su questa storia, che sarà opportuno continuare a seguire quando il clamore mediatico tenderà a scemare. Anche perchè, tanto per fare un esempio, i colleghi delle “nuove” banche, sorte sulle ceneri di quelle decotte, sono considerati come nuovi assunti e sottoposti alle regole del job’s act, quindi liberamente licenziabili sul piano individuale.

Vi proponiamo, per cominciare a ragionare su tutta questa vicenda, due documenti:

E’ IL MERCATO, BELLEZZA: BANCHE FALLITE E RISPARMI BRUCIATI

banchefallitebdi Renato Strumia

Il caso delle quattro banche fallite (Banca Etruria, Banca Marche, Carichieti, Cariferrara) ha messo in subbuglio il sistema bancario e portato un allarme generale tra i piccoli risparmiatori: per l’ennesima volta ci troviamo di fronte ad un caso grave di crack, come quello dell’Argentina,  di Parmalat, di Cirio. Le dimensioni del fenomeno sono questa volta più circoscritte ma le sue conseguenze non meno gravi. Quello che colpisce è ancora una volta la latitanza pluriennale delle istituzioni deputate a vigilare e intervenire, da una parte, e l’interventismo autoritario del governo, dall’altra. Senza questi due elementi devastanti, si sarebbero potute trovare soluzioni diverse, meno dannose per i piccoli risparmiatori (uno per la disperazione si è già suicidato), e più utili per una stabilizzazione sistemica. Al di là delle speculazioni politiche sul ruolo dei parenti della ministra Boschi nel fallimento di Banca Etruria (giustificabile vista la personale antipatia che sprigiona la più arrogante delle serve di Renzi), è utile provare a ragionare su quello che la vicenda esprime sul piano politico, economico e finanziario.

Le quattro banche coinvolte erano in dissesto da tempo e alcune commissariate fin dal 2013. La crisi dei “distretti” industriali (la dorsale adriatica, l’oro di Arezzo, ecc.) si è accompagnata al crollo dei prezzi degli immobili (tradizionale garanzia degli impieghi bancari). A tutto questo si è probabilmente aggiunta la responsabilità di amministratori incapaci, inadeguati nel valutare il cambiamento di scenario e superare i limiti dell’eccessiva concentrazione su attività locali destinate al fallimento. La “banca del territorio” si è dimostrata un modello superato ed ha finito per tradire proprio quella realtà locale da cui aveva tratto linfa e ricchezza, come già era accaduto, su scala ancora più ampia, con il Monte dei Paschi di Siena, minato da ambizioni di crescita e arroccamento locale. Inutile dire che in tutto questo marasma il ruolo dei politici, locali e nazionali, è stato pesantissimo, attraverso quelle Fondazioni che adesso hanno, anche loro, perso tutto: soldi, cariche, potere.

Poteva anche finire diversamente, abbiamo detto. La soluzione delle crisi bancarie ha sempre avuto in Italia una storia diversa: i depositi, i conti correnti, le obbligazioni, venivano garantite dal Fondo Interbancario di tutela dei depositi (un consorzio tra banche che mutualmente intervenivano per sostenere i risparmi affidati a istituti in difficoltà); le sofferenze venivano incluse in una “bad-bank” e messe a carico del bilancio

pubblico; la continuità aziendale veniva garantita attraverso l’assorbimento delle banche in dissesto da parte di qualcuna più sana e solvibile. Così erano stati affrontati storicamente i casi patologici: Banco Ambrosiano, Banco di Napoli, Banco di Sicilia, insieme ad una miriade di casi minori che non hanno neanche fatto cronaca, se non per riempire i giornali di provincia. In questi casi, escludendo gli azionisti, nessuno si era “fatto male”: si salvava capra e cavoli e si ripartiva con bilanci ripuliti, anche e soprattutto a carico del contribuente, cioè della fiscalità generale. Era un sistema discutibile, ma certamente “mutualistico”.

Lo stesso metodo è stato applicato su scala amplissima in ambito europeo dopo la crisi Lehman. Tutti i principali paesi hanno infilato centinaia di miliardi di euro nelle banche in crisi, dai 250 miliardi della Germania, ai 600 miliardi del Regno Unito, passando per Francia, Belgio, Olanda, Spagna, Irlanda, Portogallo e così via. Il paese ad essere intervenuto di meno è stata proprio l’Italia, che varò i Tremonti Bond, utilizzati per 4 miliardi di euro dal Monte Paschi e in misura molto minore da altre tre banche: fondi a tassi d’interesse elevatissimi,  restituiti quasi tutti dopo poco tempo e sostituiti da aumenti di capitale, finanziati dagli azionisti privati e dalle fondazioni. E’ così che il sistema bancario italiano è stato aggredito e penetrato, come tutti gli altri principali settori industriali, dal capitale internazionale, dai fondi sovrani di matrice araba, cinese o norvegese, dai fondi privati di matrice anglosassone e così via. Mentre si ridimensiona, per vicende di mercato o per decreto legislativo, il ruolo delle fondazioni (presidio ormai sempre più fragile nella difesa degli assetti societari), cresce il ruolo degli investitori internazionali nel controllo del sistema italiano: la più solida delle banche italiane (Intesa Sanpaolo) ha il 65% di soci esteri; la più grande (Unicredit) annovera come principale azionista Abu Dhabi (6%), seguito da Libia (3%), Cina (2%), Allianz (2%), Abn-Amro (2%), mentre le fondazioni italiane, tutte insieme, pesano meno del 10%.

Il paradosso di tutto questa vicenda è lo sviluppo degli avvenimenti che ha preso il nome di “bail-in” (salvataggio interno). Se infatti le più grandi banche europee, minate dai titoli tossici, sono state salvate nel 2008-2009 dal “bail-out”, cioè l’intervento pubblico finanziato dai contribuenti, ora si è deciso che questo non deve accadere più. Dal 2014 è in atto questa direttiva, che doveva essere recepita negli ordinamenti nazionali entro il 1.1.2016. Era evidente a tutti che il governo italiano avrebbe dovuto salvare le quattro banche con il sistema tradizionale prima di quella data: tutti davano per scontato l’intervento del Fondo Interbancario e la loro messa in sicurezza prima della fine dell’anno, come era stato fatto poco tempo prima con la Tercas (la Cassa di Teramo). Invece è accaduto qualcosa di inverosimile: sondati non meglio precisati “ambienti europei”, sembra sia emerso un parere negativo che avrebbe considerato aiuti di stato un eventuale intervento del governo attuato con le modalità tradizionali. Da qui il blitz del governo, che a metà novembre ha recepito in anticipo le norme sul bail-in e quattro giorni dopo ha deciso di applicarlo immediatamente alle quattro banche, azzerando il valore sia delle azioni che delle obbligazioni subordinate. Come vedremo, questo è l’aspetto più sconcertante dell’intera vicenda, perché va a toccare una categoria di risparmiatori che, nella loro stragrande maggioranza, non sono speculatori professionisti e non avevano gli strumenti per pesare ciò che stavano sottoscrivendo.

Il decreto che applica il bail-in chiama all’intervento le 208 banche italiane che intervengono pro-quota in base ai propri depositi, viene varata una nuova holding che eredita le nuove banche in attesa di piazzarle sul mercato, viene creata una bad-bank dove vengono infilati 8.5 miliardi di sofferenze, e viene versata una cifra pari a 3.6 miliardi di euro (come anticipazione) da parte di Intesa Sanpaolo, Unicredit e UBI. Se qualcosa va storto la Cassa Depositi e Prestiti interviene alla fine garantendo fino a 1 miliardo di euro (quindi lo zampino di intervento di Stato c’è eccome). In questo modo vengono salvati i conti correnti, i depositi e le obbligazioni (senior), mentre vengono di fatto cancellate le azioni e le obbligazioni subordinate emesse dalle precedenti banche.

Su questo occorre aprire un’ampia parentesi, perché è qui che si tocca la parte più sensibile dell’intera operazione e si vedono le caratteristiche più scandalose della manovra.

Che una serie di banche (forse tutte) siano sottocapitalizzate, è evidente da tempo. I criteri con cui le autorità europee giungono a queste conclusioni sono spesso indifendibili: i derivati di cui è piena Deutsche Bank non vengono considerati alla stessa stregua dei crediti delle banche italiane, o portoghesi, o greche. La raccomandazione è stata quindi quella di rafforzare il capitale con strumenti ibridi: un mix di nuove azioni e obbligazioni particolari, definite “subordinate”, perché nel caso di fallimento, la loro restituzione è subordinata al veder prima soddisfatti gli altri creditori. Sono strumenti che rendono un po’ di più, ma hanno associato un rischio che si è dimostrato altissimo. Ma quelle obbligazioni sono state offerte allo sportello a risparmiatori ignari di ciò che compravano e del resto era opinione diffusa (anche nei bancari che le vendevano) che in fondo in Italia non si era mai vista una banca fallire senza salvataggio alcuno.

Il risveglio però è stato devastante: si parla di oltre 10.000 risparmiatori rimasti con il cerino in mano, dopo aver investito tutti i loro averi in questo tipo di strumenti.

La pavidità del governo nel non voler affrontare un eventuale giudizio negativo dell’Unione europea su un più tradizionale intervento di salvataggio ha messo sul lastrico migliaia di soggetti deboli, proprio in quelle regioni dove il consenso al PD era più diffuso e convinto. Dopo il latte versato, il governo sta affannosamente cercando di tamponare la rivolta popolare, varando un decreto da 100 milioni di euro per garantire un ristoro parziale (30%) alle persone che rischiano l’indigenza, ma la dimensione del disastro è ben più ampia (si parla di 800 milioni di bond subordinati, oltre al valore delle azioni andato in fumo).

Le stesse cifre sulle persone coinvolte sono molto ballerine: si va dai 10.000 ai 130.000. Comunque sia è stato inferto un durissimo colpo alla credibilità del sistema bancario, all’affidabilità del governo nel gestire in futuro situazioni similari e soprattutto al livello di sovranità ancora esistente sul piano politico.

Tutto quello che accade in Italia è deciso a Bruxelles, da un pugno di burocrati che credono (o fingono di farlo) che davvero i pensionati italiani vadano in banca a comprare strumenti speculativi, per lucrare interessi elevati, in piena consapevolezza di quanto possa accadere. E questa convinzione ipocrita viene di fatto avallata da un provvedimento del governo che preferisce tirare un colpo di spugna sulle responsabilità di Banca d’Italia, Consob e parenti dei propri ministri, mentre polverizza i risparmi di una vita di migliaia di famiglie incolpevoli.

Ora che il danno è stato fatto, non sarà facile ricostruire l’immagine di un sistema profondamente corrotto. Lo si vede nella classe politica, che esprime personalità connotate da istinti predatori. Lo si vede nella classe di governo, accomunata solo dalla sete di potere e dallo sfruttamento delle sue prerogative. Lo si vede nella classe imprenditoriale, assente e latitante rispetto alla tenuta di una struttura industriale in disfacimento.

Lo si vede nella casta sindacale, che ha di fatto tollerato lo smantellamento della struttura contrattuale (incluso il varo del jobs-act, che si applicherà anche ai 6.000 dipendenti delle quattro banche fallite). Lo si vede nel sistema finanziario in generale e in quello bancario in particolare, in cui manager ed amministratori percepiscono prebende milionarie anche quando creano buchi spaventosi, senza mai fare ammenda o chiedere scusa.

Le obbligazioni bancarie subordinate in circolazione superano i 60 miliardi di euro già solo in Italia: non sarà così facile convincere i risparmiatori che possono dormire sonni tranquilli, dopo quanto è successo. Il venir meno di ogni sicurezza, prima in campo lavorativo e previdenziale, ora anche nel campo degli investimenti

e del risparmio, porta ad un diverso ruolo dello stato: non più apparato solidale che redistribuisce in senso egualitario correggendo gli squilibri del mercato, ma istituzione ad uso esclusivo delle classi proprietarie, che ne traggono vantaggio per sé, mentre scaricano sui più deboli i costi di ogni ristrutturazione, di ogni “risanamento”, di ogni salvataggio.

Un salto in avanti rispetto al classico refrain “privatizzare i guadagni e socializzare le perdite”: qui siamo giunti al punto che anche la socializzazione delle perdite è mirata a colpire solo le categorie più indifese.

Un utilizzo dello stato sempre più imbarazzante, al servizio di meccanismi sempre più selvaggi di competizione per le risorse: questo è il paradigma che si va imponendo e che dovremo imparare a combattere.

UNICA: UNA PRIMA ANALISI “A CALDO” DEI NUOVI PIANI SANITARI 2016/17

unicreditcUniCA, ci risiamo. E’ di nuovo tempo di rinnovo dei Piani Sanitari e poco sembra essere cambiato in questi due anni.

Dai documenti presenti sul sito di UniCA (stranamente il portale aziendale alla data di pubblicazione di questo comunicato non dà notizie in merito) si nota qualche piccolo miglioramento in polizza, soprattutto quella odontoiatrica, anche  se  migliorare  una  polizza  che  alla  fine  copriva  principalmente l’ablazione del tartaro, non è poi cosa di cui vantarsi (e comunque se si vuole una discreta copertura i lavoratori dovranno pagare 750€ in più).

Una piccola nota positiva: sono state inserite alcune prestazioni di prevenzione presso Centri Autorizzati Previmedical.

Per contro:

1 – è stato introdotto il limite di reddito di 26.000,00 euro lordi per l’inserimento in assistenza di un figlio non convivente e non fiscalmente a carico entro i 35 anni di età,

2 – sono state aumentate le franchigie per le operazioni fatte scegliendo la forma “indiretta” (ovvero a rimborso senza preattivazione da parte di UniCA), qualora  sia  possibile  la  “diretta”  (in  convenzione  attivata da  UniCA).    Gli scoperti applicati saranno maggiorati rispetto alla norma con l’obiettivo, a detta di UniCA, di “favorire l’utilizzo del regime diretto, ovunque possibile, in quanto detto  regime  consente  di  governare  il  costo  delle  prestazioni,  e  quindi favorisce  la  sostenibilità,  nel  tempo,  delle  coperture.”  Già,  ma  quali  sono queste casistiche? Principalmente i casi di urgenza per i quali Previmedical chiederà ancora le 48 ore di preavviso (pari cioè a quelle previste dal servizio sanitario nazionale), ed onestamente 48 ore per spedire un fax alla struttura convenzionata ci pare irrealistico. Si poteva fare di più e meglio.

Inoltre, prima di prenotare una visita in forma “indiretta” bisognerà sempre accertarsi  che  la  struttura/medico  non  sia  convenzionato,  altrimenti scatterebbe  la  “superfranchigia”.  Insomma,  quando  si  dice  che  gli adempimenti burocratici non bastano mai.

Sull’argomento  “superfranchigie”  è  poi  da  riportare  un  piccolo  giallo.  La “Lettera del Direttore” del 18 dicembre scorso riporta un incremento delle franchigie del 50%, mentre “Il prospetto di Sintesi dei piani sanitari” ne riporta uno addirittura del 150%. Chi avrà ragione?

3 – Sono stati inoltre adeguati i costi della sottoscrizione per i dipendenti di polizza superiore a quella spettante per inquadramento, quindi nel caso di “upgrade” si pagherà di più (20% da Polizza Standard a Plus e da Plus ad Extra, 30% da polizza Standard ad Extra).

4 – Non c’è alcun riferimento ad un miglioramento nella gestione burocratica delle prestazioni. Le lavoratrici ed i lavoratori lamentano infatti un asfissiante formalismo nella gestione dei rapporti con gli iscritti alla Cassa Sanitaria. Le segnalazioni ricevute indicano spesso un eccesso di rigidità burocratica che, a nostro parere,  rischia di compromettere profondamente la percezione del valore sostanziale dell’Assistenza Sanitaria di Gruppo.

5 – La privacy dei pazienti ci preoccupa non poco. Ci risulterebbe, ed in pochi forse lo sanno, che all’atto della visita, l’ente che esegue la prestazione dovrebbe  inoltrare  copia  del  referto  alla  compagnia  assicurativa.  Il condizionale è d’obbligo, ma da alcune verifiche effettuate “sul campo” pare sia proprio così. E’ allarmante che la compagnia assicurativa si preoccupi di costruire una base dati dei dipendenti del Gruppo Unicredit. C’è da chiedersi con quale finalità tutto ciò venga svolto e se l’attuale sottoscrizione del trattamento dei dati personali consenta alla compagnia assicurativa di tenere questo comportamento.

Inoltre c’è da registrare che anche con il rinnovo per il prossimo biennio parte dei servizi erogati saranno finanziati indirettamente dalle lavoratrici e dai lavoratori. La polizza avrà durata di 24 mesi, con l’eventuale “upgrade” pagato dalle lavoratrici e dai lavoratori per 24 mesi, ma pienamente sfruttabile per 21/22 mesi (fatta eccezione per la casistica “interventi” che dovrebbero essere comunque coperti).

Nei prossimi mesi chi dovrà usufruire dei servizi prestati da UniCA dovrà provvedere a prenotare in forma “indiretta” anche presso strutture e medici convenzionati con UniCA/Previmedical, cioè anche con strutture che potrebbero essere preattivate direttamente dal gestore della polizza. Queste prestazioni, ancorché previste a piano, verranno successivamente rimborsate da UniCA con uno scoperto più alto del 500% (60 euro anziché 10) rispetto a quello  previsto  in  forma  “diretta”.  Noi  ci  chiediamo  se  è  corretto  che l’incapacità organizzativa di UniCA ricada sugli assistiti con maggiori oneri economici e burocratici.

Ricordiamo infatti che la quota di UniCA in capo al singolo lavoratore è finanziata dall’Azienda, ma per ottenere ciò le lavoratrici ed i lavoratori del Gruppo UniCredit, hanno rinunciato ad una quota di salario in busta paga. Un simile comportamento è un vero e proprio raggiro.

UniCA, ci risiamo: NON CI SIAMO

CONTRATTO DI II LIVELLO AL MONTE DEI PASCHI: SE NON ORA, QUANDO?

Pochi giorni solari alla fine dell’anno. Altrettanti alla scadenza dell’accordo separato del 19.12.2012, che in questi tre anni ha fatto le veci del contratto integrativo che fu. Pullulare di assemblee? Resoconti puntuali, sulla fervida attività dei sindacati trattanti circa le loro proposte?

Niente di tutto ciò sotto il cielo del Monte dei Paschi.

Di proposte si parla, negli stringati comunicati sindacali. Ma sono quelle aziendali. Le si definisce inaccettabili, provocatorie, irricevibili.

A noi lavoratori non è dato conoscerne il contenuto. Magari giusto per confrontare se la nostra personale contrarietà si conforma a quella espressa, a parole, dalle organizzazioni sindacali. Tutto si svolge, come di consueto, sulle nostre teste. Eventi incontrollabili, ultraterreni verrebbe voglia di dire, di cui però sentiremo la dura concretezza, nella fase in cui esplicheranno i loro nefasti effetti.

In una congiuntura come quella attuale, in cui il tasso generale di democrazia sindacale è ai minimi, nel nostro settore, già storicamente caratterizzato dalla sola presenza delle RSA (elette formalmente, nominate sostanzialmente), senza che sia mai stato possibile per i lavoratori esprimere le proprie preferenze con l’elezione delle RSU (perché i sindacati bancari non ne hanno mai recepito la normativa con un accordo quadro), i lavoratori sono completamente estromessi dal processo decisionale di accordi in cui la parte datoriale è unica protagonista di un rapporto che dovrebbe essere dialettico, ed in cui quindi, alle pretese di ridimensionamento dei diritti e di riduzione del costo del lavoro, bisognerebbe frapporre quantomeno un’efficace barriera e, magari, iniziare ad essere parte attiva, con la capacità di mettere all’ordine del giorno proprie proposte.

In un tale contesto, ai lavoratori residua un raggio d’azione limitato per esprimere il proprio dissenso: la revoca dell’iscrizione a sindacati che, in modi e gradi diversi, sono complici di quanto accade. Vediamo perché.

Il rito lo conosciamo già.

Scaduto il termine perverranno sulle nostre caselle di posta elettronica volantini in cui, pur ancora presente l’indignazione (magari mitigata), l’accento sarà stato spostato non più sulla irricevibilità delle proposte aziendali, ma sulla difficoltà del momento, sul contesto difficile, ecc…

La narrazione dei comunicati sindacali prenderà poi una piega mistica: miracolosamente l’accordo è stato raggiunto.

Naturalmente  il  lavoratore,  dotato  di  intelligenza,  nonostante  la  bassa  considerazione  che  trapela  dagli estensori dei comunicati, si farà subito una domanda: ma come è possibile che per un accordo di cui si conosceva la scadenza fin dal principio dei tre anni in cui è entrato in vigore, si sia arrivati agli ultimi giorni, addirittura alle ultime ore, per trovare un’intesa di rinnovo?

Poi sarà il momento in cui le organizzazioni sindacali chiederanno un vero e proprio atto di fede agli iscritti: credeteci, diranno nei loro comunicati non più indignati ma pragmatici, di meglio non si poteva fare. Se non avessimo firmato, le cose sarebbero andate peggio.

Ora per carità, non vogliamo negare che questo possa essere in parte vero. Peccato che l’accettazione di tutto ciò sarà, appunto, frutto di un atto di fede, non potendo di certo provenire da un’analisi critica di documenti, proposte, controproposte, posizioni, ecc…, elementi che al lavoratore sono rimasti sconosciuti.

Al lavoratore rimarrà in particolare sempre misteriosa, la distanza tra le conseguenze negative delle proposte irricevibili di parte aziendale, e le conseguenze negative ma necessarie prodotte dall’intesa raggiunta.

Certo il panorama dei sindacati trattanti è disomogeneo. C’è chi firma subito gli accordi a perdere. C’è chi resiste e poi firma. C’è un tavolo. Un secondo tavolo. C’è chi magari non firma ben sapendo che, sulla base degli accordi che riguardano in generale tutti i lavoratori (come quello del 10 gennaio 2014), sarà sufficiente che a firmare siano le organizzazioni sindacali che rappresentano il 50%+1 degli iscritti (degli iscritti, badate, non dei lavoratori!).

La domanda che dovremmo porci è: ma tutto ciò si riflette in differenze sostanziali?

Se la risposta dovesse essere negativa, al lavoratore, privato di qualsiasi ruolo e caricato di tutte le conseguenze, non rimane che la possibilità di disconoscere la propria appartenenza a tali sindacati, considerando che ormai è la  semplice iscrizione a riassumere la sua volontà.

Chi scrive, con l’adesione al SALLCA CUB, l’unico sindacato bancario che non si è reso compartecipe del forte arretramento normativo ed economico degli ultimi due decenni (in particolare con un coerente rigetto degli ultimi vergognosi contratti collettivi), ha voluto far penetrare questa possibilità di dissenso e costruzione di un’alternativa, nell’immobilità storica delle relazioni sindacali che ha connotato il Monte dei Paschi.

Il SALLCA è un’opportunità. Ma la coerenza dimostrata in questi anni, pagata con la negazione dei diritti sindacali, è condizione necessaria ma non sufficiente, ed ha bisogno che ad essa si coniughi la forza e l’intelligenza dei lavoratori, affinché si possa agire efficacemente. Nelle realtà aziendali in cui maggiore è il radicamento, nelle poche occasioni in cui i lavoratori del credito hanno potuto esprimersi liberamente attraverso un voto, Il SALLCA è andato ben al di là della sua rappresentatività in termini di iscritti, riuscendo ad eleggere 2 membri – su 7! – nel CDA del Fondo Pensioni del Gruppo Sanpaolo IMI –, con il 20% di voti (in pratica, rapportando il risultato all’intero settore del credito, il SALLCA potrebbe essere il terzo sindacato per rappresentatività, se avessimo la possibilità di eleggere i nostri rappresentanti…), nonché un membro sia nel CDA che nell’Assemblea dei Delegati del Fondo Sanitario di Intesa San Paolo.

L’invito rivolto ai colleghi è allora quello di prendere l’unica decisione che ci può permettere di opporci al dilagante autoritarismo aziendale e alla passività e/o compartecipazione dei sindacati firmatutto: revocare la propria iscrizione e provare a costruire, anche qui al Monte, una possibile alternativa. Altrimenti non ci resta che attendere che le decisioni aziendali, tramutate in “accordi”, piovano pesantemente sulle nostre teste, attraverso

i  consueti  comunicati  dell’ultima  ora,  attività  in  cui  sembra  ormai  riassumersi  l’operato  di  organizzazioni sindacali sempre più subordinate alle aziende e distanti dai lavoratori.

BNL – ESSERE O NON ESSERE? RIDIRE O NON RIDIRE? PARLARNE DI NUOVO O MANTENERE UNO STIZZOSO E DEPRESSO SILENZIO?

Essere o non essere Essere o non essereLa decadenza del clima lavorativo, l’evaporazione dei diritti delle persone (dentro e fuori i luoghi di lavoro) e (non a caso) la contemporanea dissolvenza della corretta attività sindacale sono evidenti, ma la maggioranza di noi non ci fa caso, come la rana nella pentola sul fuoco…sì sentiamo che la temperatura si fa man mano più calda, ma rimaniamo sul fondo, fermi e sempre più “bolliti”.

I più anziani sperano di uscire/esodare/prepensionare al più presto; i più giovani sperano di rimanere, di essere confermati, di essere “inquadrati”, più in generale la maggioranza assoluta dei lavoratori pensa che la propria tutela passi per l’azione autonoma del Sindacato, che tutto sa e tutto può, forte della delega in bianco che loro stessi gli hanno da anni consegnato.

La realtà è un’altra, lo dicono i fatti storici e lo confermano le statistiche: il Sindacato da solo (…o meglio la miriade di sigle sindacali confederali/autonome/ di settore/di categoria, ecc…) niente sa e niente può fare se non firmare porcherie nazionali o locali, settoriali o aziendali, con lo scopo principale di auto-conservarsi come struttura burocratica e finanziarsi con i servizi di assistenza fiscale, assicurativa e formativa; lo vediamo da anni, lo borbottano in tanti da molto tempo, ma poco o nulla facciamo per cambiare le cose… evidentemente in fondo ci va bene così.

Il Sindacato (nella sua accezione corretta e storicamente migliore) è: L’insieme di lavoratrici e lavoratori  costituito  in  associazione con  rappresentati  e  rappresentanti  (eletti democraticamente e soggetti a periodica verifica del loro operato) che cooperano in modo continuo e attivo, sostenendosi e stimolandosi vicendevolmente per assumere le corrette strategie e tattiche da impiegare nel continuo conflitto tra Capitale e Lavoro.

Lo   abbiamo   già   detto   e   scritto   tante   volte,   ha   senso   ripeterlo   ancora?   Dire,   ridire, dormire…sognare forse? Sì sognare che, a partire dal Mondo del Lavoro, le persone la smettano di delegare ad altri la tutela dei loro diritti, della loro vita, senza pretendere di contare veramente, senza chiedere di avere  reale e continua voce in capitolo (stesso discorso vale più in generale per la Politica, per la Res Pubblica).

Tutto si ripete, in stanchi riti: le firme degli accordi (generalmente di merda) in tarda serata o all’alba, dopo “eroiche” trattative, le successive rare assemblee-monologo, fuorvianti, noiose, castranti, poi le votazioni “a spanne”, i referendum evitati come la peste, le voci dissonanti isolate, bloccate, aggirate (magari con le assemblee divise per iscritti/abbonati come per il CCNL del 2012). I regalini di Sigla a Natale, il comunicato in sindacalese ma “con il petto in fuori” quando il Padrone annuncia l’ennesima ristrutturazione “lacrime e sangue” (che poi si condivide nelle “premesse” relative all’immancabile accordo che segue, anno dopo anno, semestre dopo semestre) poi le frasi di circostanza nei corridoi per “rasserenare” i preoccupati, le battutine sferzanti a quelli (pochi) che protestano veramente, con i classici : <<è facile dire sempre di NO!>> , <<bisogna essere responsabili>>, << le cose e gli accordi   vanno viste nel loro insieme, ci sono anche cose positive…>>, << la  tua è solo demagogia, solo qualunquismo>>.

…E già!  Com’è dura la vita del “sindacalista” nei reparti o negli uffici, per fortuna che ogni anno ci sono almeno un paio di direttivi e spesso qualche congresso dove andare a “ricaricarsi”, per stare tutti insieme e sentirsi giusti e forti!

La  stanca  routine  va  avanti  grazie  al  nostro  permesso  (inteso  come  inerzia  generale  delle lavoratrici e dei lavoratori) e continuerà fino a quando la “base”, anziché sopportare il “peso” del vertice, si convincerà a cambiare radicalmente atteggiamento, passando dalla passività e dalla delega “in bianco”, alla proattività nei confronti dell’attività sindacale (che non è di pertinenza dei soli sindacalisti!!!).

Tutto questo poi non basta: dobbiamo capire che è in atto una vera e propria guerra ai posti di lavoro, che ne attacca sia il numero che la qualità, guerra alla quale si deve reagire non solo con quanto detto sopra, ma anche con una sempre maggiore responsabilità verso la nostra attività lavorativa, volta a difendere quel che rimane della nostra professionalità.  Ai banchieri non frega niente dei bancari che sia chiaro a tutti, questa poltiglia lavorativa, questo “casino” di mansioni a pezzi e bocconi, è funzionale non solo per giustificare il livellamento dei ruoli (e quindi delle retribuzioni) ma anche e soprattutto per convincerci a sentirci delle “zavorre inutili” e per farci comportare come tali. La mossa finale sarà quella di eliminare le suddette zavorre.

L’immagine   che   sovrasta   questo   “sfogo”   è   emblematica:   un   essere  spremuto,  svuotato, “riavvitato”  da  una Matrigna/Zoccola con diverse  “creature” attaccate al culo, che osservano senza far nulla…a cosa vi fa pensare?

LETTERA APERTA AL DR. BERALDI, RESPONSABILE RELAZIONI INDUSTRIALI UBIS

smart2Egr. Dr. Antonio Beraldi,

abbiamo letto con interesse l’articolo pubblicato da Corcom.it, il quotidiano online di riferimento della digital community italiana, dal titolo “ Smart working, addio a uffici e scrivanie. Ecco i pionieri del lavoro agile” che riporta una sua intervista sul tema “smart “working”.

Non  ci  addentriamo  nel  contenuto  dell’articolo  che  in  fondo  aggiunge  poca sostanza  ad  un  tema  oggetto  d’attenzione  in  Unicredit  da  più  di  un  anno. L’intervista riporta le solite notizie trite e ritrite che Unicredit sbandiera ad ogni occasione. Bene o male le solite dichiarazioni di rito, molta propaganda e pochi contenuti; ma forse dovremmo dire più male che bene visto le imprecisioni riportate che sicuramente saranno da ascrivere a chi ha redatto l’articolo e non certo a Lei.

Lo “Smart Work” è un progetto di revisione delle allocazioni di spazi e modalità di lavoro in cui Unicredit sta investendo notevoli risorse, poco importa se poi questi decantati risparmi – reali o virtuali? – saranno fatti a spese dei lavoratori e degli utenti.

Già perché la rivisitazione degli spazi è fatta sulla base di statistiche stilate da consulenti esterni e spesso legate a realtà neppure italiane. “Gli americani insegnano che il 20% delle postazioni di lavoro non viene utilizzata” era stato dichiarato alla presentazione del progetto giusto un anno fa a quei colleghi di Ubis che si apprestavano a traslocare nella Palazzina A ai piani 4° e 5° in modalità “Smart Work(ing)”. Statistiche che avevano messo in evidenza da subito la limitata affidabilità, non a caso nell’Area Planning   “l’overbooking” era la regola, e si è dovuti correre subito ai ripari costringendo colleghi ad utilizzare aree dedicate per gli “informal meeting” o le focus area per non restare in piedi.

E a distanza di un anno poco è cambiato.

Non solo. Le strutture e gli arredi già mostrano i loro limiti. Al quinto piano è difficile trovare nei salottini un tavolo che non traballi, senza considerare che le lampade in queste aree sono prive di lampadine (ce le dobbiamo portare da casa? Basta saperlo!).

Dobbiamo forse pensare che gli investimenti per gli arredi siano stati “dirottati” per la realizzazione del “giardino zen” al quarto piano? Una spesa che “radio serva” quantifica in alcune centinaia di migliaia di Euro, il tutto per garantire una vista decente ai nostri Top Manager. Non è forse eccessivo?

Tagliamo il personale ma non gli sprechi. Una politica HR quanto meno discutibile. La rumorosità delle location, le chiacchiere ininterrotte dei colleghi, seguite dal costante passaggio di persone tra le scrivanie, sono tra i fastidi principali. Se poi ci aggiungiamo climatizzazione inefficiente, impianto d’illuminazione inefficace e limiti nella dotazione tecnica (pc, locker, giusto per citarne alcuni) la frittata è fatta.

L’Azienda per adempiere alle disposizioni di Legge ci impone di svolgere corsi on line sulla salute e sicurezza in cui dichiara che ogni lavoratore non può utilizzare per lavorare il proprio PC portatile se non collegato ad un monitor ed una tastiera esterna, che occorre rendere ergonomica la postazione di lavoro, ma poi nella realtà uno si deve adattare a tutt’altro tanto che ci sono colleghi che per evitare di ritrovarsi col mal di schiena o problemi alle articolazioni si affidano a coloro che arrivano presto in ufficio per farsi riservare dei posti decenti.

Dalla prenotazione delle sale riunioni a quella della scrivania. Avete già pensato ad un’App da istallare sullo smartphone?

La cosa è ovviamente ironica…ma ci sarebbe da piangere…

Si sta stretti e si perde concentrazione facilmente. Le aree che dovrebbero essere utilizzate come “pensatoi” sono occupate da chi non trova una postazione di lavoro e questo vanifica l’applicazione delle regole che dovrebbero garantire una gestione ottimale del lavoro. Ormai vige l’anarchia; ognuno fa ciò che vuole.

Le aree che dovrebbero garantire privacy durante le telefonate hanno i muri di carta velina, di fatto non tutelano nulla.

L’affannosa ricerca del posto di lavoro al mattino e qualche battibecco tra i colleghi dimostrano che forse questa metodologia di lavoro non è poi così ottimale. E mentre Ubis ai consulenti esterni rende disponibili postazioni di lavoro fisse, ai dipendenti toglie la scrivania. Anche questa è una politica HR quanto meno discutibile ma soprattutto, dal nostro punto di vista, inaccettabile.

Se l’organizzazione del lavoro attuale impone sempre più la condivisione degli spazi in ufficio, la decisione su come utilizzarli andrebbe presa tenendo conto di tutti gli aspetti che quotidianamente coinvolgono l’ambiente professionale. Altrimenti il rischio è che ad aumentare siano solo le tensioni tra i colleghi e lo stress dei lavoratori.

Ci aspettiamo quindi che Lei prenda a cuore la situazione delle lavoratrici e dei lavoratori su questo tema, affinché i pionieri del lavoro agile non diventino martiri da sacrificare in nome di una (presunta) spending review, perché che se ne dica, lo smart working parte dalla volontà di risparmiare sulle postazioni di lavoro e non da strani astratti concetti di condivisione sociale ed è figlio delle ennesime consulenze inutili perché si sa, le decisioni strategiche sono prese fuori dall’azienda.

STATE STREET, EX BANCA DEPOSITARIA: I LAVORATORI VENDUTI DUE VOLTE

Nel 2010 i lavoratori di Banca Depositaria, un settore di lavoro specialistico di Intesa Sanpaolo, vennero ceduti alla banca statunitense State Street.

Ci furono quattro giorni di sciopero in due settimane (i primi due proclamati dalla Falcri, il terzo da noi della Cub-Sallca, il quarto contestuale ad uno sciopero generale indetto dalla Cgil) e cortei a Milano e Torino (le due sedi coinvolte) con l’azienda in difficoltà anche perché i ritardi accumulati nel calcolo delle quotazioni dei fondi (uno dei lavori in carico a Banca Depositaria), a causa delle agitazioni, avevano prodotto richiami e minacce di sanzioni da parte delle autorità di vigilanza.

Ma in ballo c’era un affare da 1,7 miliardi di Euro (un bel contributo alla “solidità patrimoniale” del Gruppo) e serviva un accordo, che alla fine arrivò, peraltro molto contestato e approvato solo grazie al voto dell’assemblea della sede di Milano, condizionata da interventi poco ortodossi da parte aziendale.

L’accordo, per la prima volta nel suo genere, prevedeva un teorico (come vedremo) diritto a chiedere il rientro nel mese di dicembre 2015, richiesta che l’azienda avrebbe accolto nel primo semestre del 2017.

Perché diritto teorico? L’accordo poneva già alcune clausole al rientro, come la possibilità di demansionamento ed il ripristino delle condizioni retributive dell’epoca (cioè con gli scatti d’anzianità e l’inquadramento che “retrocedono” a quelli in essere nel 2010).

Nonostante questi evidenti elementi di continuità (verrebbero persino tenute in conto le vecchie domande di trasferimento), l’azienda ha dichiarato provocatoriamente  che  chi  volesse  rientrare  verrebbe  trattato  come  un neoassunto con l’applicazione del Job’s Act (ovvero piena licenziabilità).

E per completare l’opera, siccome nell’accordo non erano stati posti limiti territoriali per il rientro, l’azienda ha affermato che lo stesso potrà avvenire su “tutto il territorio nazionale”.

Tutte queste informazioni sono contenute nello scarno e disarmante volantino con cui i sindacati firmatari (alla cui schiera si è unita la Falcri, che nel 2010 era sulle barricate o faceva finta di esserci) rendevano conto dell’incontro fatto con Intesa Sanpaolo, come previsto dall’accordo. Un incontro in cui nessuna sigla al tavolo ha avuto nulla da obiettare, limitandosi a prendere atto delle gravissime posizioni aziendali, che svuotavano, di fatto, la possibilità di scegliere il rientro.

Un atteggiamento che fa il paio con quello delle stesse sigle, presenti in State Street, che hanno comunicato ai lavoratori che ognuna darà assistenza solo ai propri iscritti per preparare, con l’aiuto dei legali, la lettera per l’eventuale richiesta di rientro. Un evidente e vergognoso tentativo di fare campagna di tesseramento, ancora più indecente visto che, in tutta questa vicenda, le tutele fanno acqua da tutte le parti.

Dobbiamo constatare che il primo gruppo bancario italiano, che si vanta del proprio codice etico e di mettere al primo posto la valorizzazione delle persone, continua ad accanirsi contro un gruppo di lavoratori messo sul mercato cinque anni fa e di cui oggi tenta di ostacolare il rientro (al quale, verosimilmente, potrebbero essere veramente interessati solo alcune decine di colleghi) interpretando l’accordo nel modo più restrittivo possibile. D’altronde parliamo dello stesso Gruppo che nel 2012 non esitò a licenziare i giovani colleghi in apprendistato pur di ottenere quanto richiesto nelle trattative aziendali.

A fronte di questo atteggiamento della controparte, brilla per la totale inadeguatezza il ruolo dei sindacati firmatari, aggettivo quanto mai squalificante visto che l’accordo presentava già delle falle (come detto nella clausola di rientro non erano stati posti limiti territoriali) e che di fronte all’intransigenza aziendale hanno opposto solo un rassegnato ed imbarazzato silenzio.

Siamo costretti a commentare con molta amarezza questa storia, ma, così come dall’inizio, non possiamo che ribadire che, fino alla fine, noi saremo a fianco dei nostri colleghi ora in State Street.

Pur consapevoli che aggressività aziendale e inconsistenza del tavolo sindacale (per non dire altro) hanno fortemente ristretto gli spazi di scelta, faremo tutto il possibile perché la volontà di ogni singolo lavoratore venga rispettata. I nostri legali sono già al lavoro per preparare la lettera per chiedere il rientro, che metteremo a disposizione di tutti i lavoratori che ce ne faranno richiesta.

UNICREDIT, TU CHIAMALA SE VUOI REVISIONE DEI COSTI …

portaunicredita
Questa è la porta d’ingresso di UniManagement, la scuola di formazione manageriale  di  UniCredit  sita  a  Torino,  in V ia XX  Settembre. Traduciamo dall’Inglese per chi ancora abbia piacere di leggere le cose nella nostra lingua, su questo portale e in altri:

“Siamo responsabili di oltre 175.000 uomini e donne che costituiscono UniCredit”.

La correzione è nostra, nell’attesa che l’Azienda provveda (o dichiari altri esuberi).

L’aria si è fatta ancora più irrespirabile. Dopo due o tre giorni di vento violento, che aveva portato solo un gran polverone, si sperava nella pioggia purificatrice, ma  non è stato così  e nulla alla fine è cambiato. Chi sperava in un avvicendamento al vertice del Gruppo, dopo lo scandalo SMS dell’affaire Palenzona  e la figuraccia rimediata con la bocciatura da parte del mercato del piano industriale, ne rimarrà deluso.  Ghizzoni, Palenzona, Natale, Fiorentino… tutti saldi al loro posto. Per un attimo si è pensato (sperato) che qualche cosa avvenisse con l’annuncio delle dimissioni di Paolo Fiorentino, ma in realtà si è rivelata subito per quello che era: una boutade. Resterà stabilmente al suo posto.

L’uomo che ha coniato  la parola d’ordine “co-sourcing”, l’ideatore delle esternalizzazioni a go-go e che le ha volute – dice  Lui –  “non tanto per realizzare risparmi, ma per cercare un partner per la gestione della complessità delle attività del gruppo”, come avrebbe potuto lasciare UniCredit  che tante soddisfazioni gli sta dando (agli azionisti ed ai lavoratori un po’ meno, ma che importa…)?

Dove potrebbe mai trovare un’Azienda  che gli consenta di dilettarsi anche a fare il “patron”  di Serie A (coi soldi altrui!)?  Come non ricordare la telefonata di  De Laurentiis per Osvaldo, anche se l’istituto di credito smentì ogni ingerenza tecnica nella AS Roma e nel loro bilancio…

“Lamela e Marquinhos inavvicinabili? Li ho trattati con l’Unicredit dove c’è un certo Fiorentino che voleva  darmi  Osvaldo,  io  ho  risposto  che  non  volevo  Osvaldo  e  gli  ho  offerto  40  milioni  per Marquinhos e Lamela”

Ma il meglio di sé Fiorentino ce l’ha fornito con le esternalizzazioni, ovvero quel progetto in grado di creare meno diritti, meno certezze lavorative, meno guadagno, più sfruttamento. Sostanzialmente si creano lavoratori precari con la massima flessibilità.

Con le esternalizzazioni si creano risparmi, qualcuno dirà. Balle! Le solite prese  in giro dei nostri strapagati consulenti. A proposito di consulenti, in Ubis abbiamo ricevuto segnalazione (poi verificata come vera!) che ci sono uffici che per parlarsi tra loro devono transitare da una consulente  che funge da raccordo. Assurdo. Ecco dove si potrebbero tagliare gli sprechi e creare i risparmi.

E sempre in tema di esternalizzazioni siamo entrati in possesso di un documento (siano benedette le stampanti condivise!)   dal quale risulta che qualche servizio, gentilmente offerto in gestione a VTS, costa fino al 25% in più rispetto alla gestione interna. Qualche milioncino di euro gettato al vento che alla fine dovremo pagare noi lavoratori.

Ora in Ubis ci si dovrà arrabattare per evitare di fare emergere queste magagne (e purtroppo chi era abile col gioco delle “tre carte” è migrato in VTS….)!

Esternalizzazioni: costi più alti e meno qualità,  con VTS  che si  sta assorbendo tutto il budget di Ubis…altro che economie…

Ma per Fiorentino & Co. il problema sono i lavoratori. Troppi. Come non ricordare l’intervista di Fiorentino in cui ci paragonava a grasso da tagliare?

“Ma è vero che è importante tagliare il grasso, cioè i costi in eccesso. E questo comprende anche il personale? Naturalmente.”

E quindi esuberi siano! L’Azienda li dichiara ed i sindacati li ratificano. Come successo in questi anni, dove le uscite sono sempre state obbligate, magari incentivate, ma obbligate. Non c’era la possibilità di dire “no grazie”. Si sarebbe usciti (meglio usare il termine corretto, licenziati) comunque  e senza incentivo. Fatta eccezione per alcuni sindacalisti (firmatari dell’accordo!),  gli stessi che oggi ci fanno la morale sulla   necessità di “ragionare in un’ottica di equità”. Gli stessi che non solo sono usciti anni dopo rispetto ai lavoratori licenziati, ma prendendo addirittura il triplo di quanto gli spettava (le carte del Tribunale non mentono).

E’ questa la concertazione tanto sbandierata dai sindacati firmatutto?

Come dimenticare un accordo che ha fatto molto discutere? Di quell’accordo se n’è persino occupata la stampa nazionale poiché salvava dall’uscita obbligatoria alcuni sindacalisti (Fabi e U ilca in testa, ma con il benestare di tutte le sigle) mentre mandava a casa  – loro malgrado – 600 lavoratori con i requisiti pensionistici maturati.

Da tutto ciò traspare un quadro disarmante, il destino dei lavoratori del Credito è già tracciato. Ma noi non ci arrendiamo, ribadiamo il nostro no a questa politica industriale e sindacale che distrugge posti di lavoro anziché crearne e ribadiamo la necessità in questo Paese di una profonda revisione della rappresentanza sindacale, che torni a dare voce ai lavoratori. I lavoratori del credito hanno ancora molto da rimetterci e finché non prenderemo consapevolezza del nostro ruolo sociale e della nostra dignità professionale continueremo a perderlo sempre più in fretta. I lavoratori devono cominciare a preoccuparsi seriamente dei propri interessi… perché altri i loro li sanno fare fin troppo bene.

Ps – Negli incontri tra Azienda e sindacati dei prossimi giorni non si parlerà solo di esuberi ma anche di agibilità sindacali. A buon intenditor…

 

 

 

 

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