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ACCORDO INTESA SANPAOLO SULLE ASSUNZIONI “MISTE”: COME PREPARARE LA DISTRUZIONE DELLA CATEGORIA RIVENDICANDO LA TUTELA DEI PROMOTORI

 

Il punto più importante e controverso dell’accordo sul Protocollo per lo sviluppo sostenibile del Gruppo Intesa Sanpaolo sono le nuove assunzioni di personale iscritto all’albo dei promotori. I
nuovi assunti lavoreranno part time come dipendenti, due o tre giorni alla settimana ed
i restanti come promotori, cioè lavoratori autonomi.

Quello che per i sindacati firmatutto è un positivo ed innovativo accordo, che consente ai lavoratori autonomi (i promotori assunti nell’occasione) di poter godere, in misura molto limitata, di malattia, infortunio e maternità, nonché del “welfare aziendale” (previdenza e sanità integrativa, ma solo nella “veste” di dipendenti), per noi è l’apertura di un processo che, nelle intenzioni aziendali, porterà ad avere lavoratori della rete commerciale con sempre meno stipendio fisso e garantito, su cui scaricare il rischio d’impresa (niente risultati, niente reddito) e risolvendo così il problema delle pressioni alla vendita (i nuovi assunti si “presseranno” da soli).

E’ il caso di ricordare che, in occasione dell’ultimo rinnovo del CCNL, nel documento sulle posizioni ufficiali dell’Abi era ben evidenziata la richiesta di utilizzo più ampio di rapporti di lavoro autonomo per gli addetti alla rete”.

Non ci pare un eccesso di dietrologia ipotizzare che questo accordo potrebbe essere la prima tappa per arrivare al risultato finale voluto dai banchieri. Altrimenti perché mai Intesa Sanpaolo ci teneva tanto a fare queste assunzioni stravaganti, mettendo insieme, nella stessa persona, le figure, totalmente diverse, del dipendente e del promotore?

La motivazione ufficiale dell’azienda di fare queste assunzioni come strumento per acquisire nuove masse gestite non ci convince, così come la possibilità per i nuovi assunti di chiedere, alla fine dei due anni, la conferma come dipendenti, che Intesa Sanpaolo potrà accogliere entro nove mesi con assunzione nell’ambito della regione o di quelle adiacenti.

La filosofia dell’operazione è ben visibile in queste dichiarazioni del segretario della Fabi Sileoni (ma immaginiamo condivise dagli altri firmatutto), rilasciate pochi giorni prima della firma dell’accordo  “In questi giorni, all’interno del gruppo Intesa, le organizzazioni sindacali stanno discutendo sull’opportunità di dare stabilità contrattuale e professionale a quei dipendenti assunti anche con contratto da promotori finanziari (in Intesa sono oltre 5mila, nel settore bancario italiano oltre 40mila). Prevedere nuove flessibilità contrattuali e nuove attività professionali sarà un percorso obbligato per mantenere gli attuali livelli occupazionali del settore e il movimento sindacale, tutto, se ne deve fare una ragione perché è nell’interesse del sindacato allargare il proprio campo d’azione e tutelare al meglio più tipologie di lavoratori, ad iniziare dai giovani. Il Contratto di lavoro scade a dicembre 2018 – conclude – ma le condizioni per un cambiamento radicale devono essere discusse ora perché, nei vari piani industriali, troppe aziende stanno andando in deroga al contratto collettivo nazionale di lavoro”.

E’ davvero grottesco che i sindacati al tavolo, incapaci di difendere i dipendenti di banca, si vantino di voler tutelare i promotori, finendo per agevolare l’obiettivo finale dei banchieri di avere una categoria sempre più debole e ricattabile.

Un obiettivo da raggiungere gradualmente, perchè i banchieri sanno che se la rana viene messa a cuocere nell’acqua tiepida, anziché bollente, non si accorgerà di cosa sta succedendo, ma gli scenari che si aprono sono inquietanti per tutta la categoria.

Grave il contenuto dell’accordo, grave il metodo: ancora una volta, senza consultare i lavoratori e senza chiedere alcun mandato, hanno fatto tutto da soli, come nel contratto del 2012, quando firmarono la manovra sugli orari, con le filiali aperte fino alle 20 ed al sabato mattina con i turni.

La democrazia sindacale è morta, la categoria è allo sbando, siamo rimasti solo noi a difendere il fortino. Aspettiamo i rinforzi.

 

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Gruppo Intesa Sanpaolo
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CREDIT AGRICOLE, L’ETICHETTA FRANCESE NON BASTA A NASCONDERE IL SOLITO CAOS ORGANIZZATIVO

CRONACHE DAL PIANETA CREDIT AGRICOLE
Bollettino periodico a cura della Federazione di Torino della CUB-SALLCA
n.ro 12 – febbraio 2017 – chiuso in redazione il 6-2-2017

Le carenze di organico, sempre più devastanti, stuzzicano la fantasia delle menti pensanti (?) che dirigono l’azienda.

La riportafogliazione della clientela è stata l’occasione per inventarsi l’idea di  cancellare la figura del gestore aziende, un’operazione che  rappresenta il classico caso di coperta corta che viene stiracchiata da tutte le parti.

Formalmente il lavoro dei gestori aziende è stato, in parte, girato ai direttori di filiale ed in parte raggruppato nel Polo Affari di Corso Traiano, che è stato potenziato con ben due risorse (anzi, una e mezza, visto che una collega è part time).

Gli altri, in parte sono in attesa di destinazione, in parte sono stati demansionati al ruolo di gestori famiglie e qualcuno diventerà uno e trino. Non solo dovrà magicamente affrontare il nuovo lavoro di gestori famiglie (per il quale non ha ricevuto nessuna formazione), ma continuerà a fare il lavoro precedente quando qualche suo cliente si presenterà in filiale, anzi nelle filiali.

L’ultima genialata è che questi colleghi dovranno dividersi su due filiali: nella stessa settimana, due giorni qui, tre giorni là, nel festival della flessibilità e della più totale discrezionalità aziendale.

Gira voce, peraltro, che a qualche gestore famiglie sia stato chiesto il maneggio valori (anche solo per la quadratura/caricamento del bancomat) in situazioni di emergenza (che peraltro stanno diventando l’ordinaria normalità), in una continua corsa a coprire i buchi, peraltro in un contesto di continuo scivolamento verso il basso delle mansioni e di mancanza di formazione: viene chiesto di caricare il bancomat anche a chi non lo ha mai fatto o la ha fatto molti anni fa e dovrebbe rivedere le procedure.

Non ci sono parole per definire questo ennesimo pastrocchio organizzativo, discutibile sul piano legale, inqualificabile dal punto di vista del buon senso e del rispetto della dignità dei lavoratori.

L’unica difesa è cercare di fare il proprio lavoro senza commettere errori, ma anche senza correre e affannarsi troppo per far funzionare quello che, palesemente, non funziona per carenze di organico e organizzative.

Ricordiamo, peraltro, che l’azienda ha l’obbligo di curare la formazione dei dipendenti e di fornirgli la conoscenza necessaria prima di adibirli a nuove mansioni.

Monte dei Paschi di Siena: un disastro costruito con metodo

“Oggi la banca è risanata, e investire è un affare. Su Monte dei Paschi si è abbattuta la speculazione ma è un bell’affare, ha attraversato vicissitudini pazzesche ma oggi è risanata, è un bel brand”. Matteo Renzi, Presidente del Consiglio dei Ministri, al Sole 24 Ore, 22 gennaio 2016.

Una valutazione ragionata sul disastro Monte Paschi di Siena richiede almeno tre livelli di analisi.

Il primo livello attiene alla questione del “mercato” e del suo evidente fallimento nella soluzione della crisi, non solo del caso specifico e non solo del settore bancario, ma dell’intero sistema economico.

A dire il vero occorre estendere il ragionamento all’intera esperienza della privatizzazione delle banche italiane, per arrivare alla disarmante verità: il privato ha fallito e il pubblico ne deve pagare il prezzo. In estrema sintesi le banche pubbliche, trasformate in spa, privatizzate e quotate a partire dai primi anni ’90, sono diventate aziende come le altre, oggetto di contesa e speculazione, spremute per profitti di breve periodo, allontanate dalla originaria missione del fare credito e finanziare l’economia reale, infine abbandonate al loro triste destino. Malamente difese da scalate estere ostili, tramite barriere regolamentari anacronistiche e fusioni “difensive”, che hanno consegnato agli azionisti ricchi e intempestivi dividendi, frutto delle “economie di scala”, le banche italiane sono arrivate alla grande crisi con una struttura patrimoniale inadeguata per solcare mari in tempesta.

Avendo alle spalle uno stato finanziariamente debole e all’interno un management (strapagato) gravemente incapace e incosciente della gravità dei problemi, i banchieri (quasi tutti) hanno respinto sdegnosamente gli aiuti di stato (i famosi Tremonti Bond) per paura di  perdere potere. Mentre i crediti dubbi crescevano in modo esponenziale, le fondazioni faticavano a sorreggere gli aumenti di capitale resisi necessari e quindi si cercavano all’estero capitali di ventura (da Blackrock ai fondi sovrani arabi o libici), per racimolare capitale, possibilmente non troppo esigente nel pesare sugli assetti di comando.

Dieci anni di recessione hanno fatto esplodere i casi più disperati, che peraltro non sono frutto del caso, ma della combinazione perversa tra poteri forti, politica d’accatto, vigilanza latitante, elusione delle regole. Non dimentichiamo che Mussari (MPS) è stato per due mandati stimato presidente dell’ABI, con Berneschi (Carige) tra i vicepresidenti. Un parterre de roi, oggi indaffarato con inchieste penali non di poco conto. Mentre le banche tedesche, francesi, inglesi, olandesi, belghe venivano assistite dallo stato con centinaia di miliardi di euro, per restare in piedi dopo evidenti fallimenti tecnici, le banche italiane affermavano seriamente di essere solide e competitive sul “mercato”, tranne pochi casi isolati, opportunamente commissariati. Si diceva che presto anche per loro sarebbe arrivata una “soluzione di mercato”.

Si  procedeva così al recepimento, anche in Italia, della normativa europea del “bail-in”, che significa rifiutare gli aiuti di stato alle banche in difficoltà e azzerare il valore di azioni e obbligazioni subordinate, per passare poi, se necessario, alle obbligazioni senior e ai depositi sopra i 100.000 euro. Ricetta prontamente applicata al caso delle quattro banche fallite nel novembre 2015, scadenza che ha di fatto aperto le porte del baratro al sistema bancario italiano e scatenato una crisi che si cerca ora disperatamente di tamponare con l’intervento pubblico da 20 miliardi, per prevenire crisi sistemiche incombenti.

Le “soluzioni di mercato”, mantra ideologico martellante ma inservibile quando si tratta di scucire miliardi privati per scongiurare disastri imminenti, non si sono viste: Mediobanca e JP Morgan hanno fallito nel trovare compratori per MPS e il fondo del Qatar ha scelto di starne fuori. Il cerino in mano è rimasto ai piccoli risparmiatori, pieni di obbligazioni subordinate, e in ultima analisi ai contribuenti italiani, che dovranno ristorarne le perdite, sempre che l’UE non si metta di traverso, come già stanno facendo i falchi tedeschi e i custodi dell’ortodossia “di mercato”.

Ed è solo l’inizio di una partita lunga, che servirà da battistrada per altri dossier scottanti, che stanno ancora bollendo in pentola. Attaccare il nostro sistema bancario, fragile per i suoi 85 miliardi di crediti deteriorati netti, per la perdita di 5,6 miliardi di ricavi in 10 anni e per il crollo degli utili (dai 22,7 miliardi di euro nel 2007 ai 3,7 miliardi nel 2015) è lo sport preferito negli ambienti finanziari europei: farlo a pezzi è funzionale per chi punta magari a prendere il controllo di questo contenitore, che ingloba pur sempre il corposo risparmio degli italiani, uno dei più alti al mondo.

E arriviamo così al secondo livello del ragionamento, che prende in considerazione la disastrosa gestione politica della crisi bancaria italiana. Non è fuori luogo ricordare le “porte girevoli” che vedono circolare sempre gli stessi personaggi, tra aule universitarie, C.d.a. delle banche e poltrone di governo: Passera, Fornero, Monti, Profumo (Alessandro e Francesco), l’immarcescibile Bazoli, l’impresentabile Verdini, le telefonate compromettenti degli ultimi arrivati (“Abbiamo una banca?”), il conflitto di interessi della Boschi e tanti altri personaggi da operetta, che si sono trovati quasi casualmente a ricoprire ruoli di responsabilità in settori delicatissimi. Basti pensare al duo Renzi-Padoan, cui va attribuita, per intero, non tanto l’origine della crisi di Monte Paschi, ma certamente la sua incredibile e fallimentare gestione finale. Già nel 2013 il Fondo Monetario (avete letto bene, il Fondo Monetario…) aveva suggerito la nazionalizzazione della banca, ma il governo italiano riuscì a far depennare la frase nel documento finale!

E per tutto il 2016, a crisi ormai conclamata, sotto i colpi devastanti della vigilanza europea (che sorvola sui derivati delle banche dei paesi “core” ma sbertuccia le banche dei paesi “piigs”) Renzi e Padoan hanno rimandato tutto all’esito del referendum (per fare cosa?), affidandosi alla JP Morgan, che ha imposto a luglio il cambio di direzione, con la defenestrazione di Viola e l’intronamento di Morelli, capo di JP Morgan Europa e già direttore finanziario MPS all’epoca dell’acquisto scellerato di Antonveneta. Intanto i risparmiatori votavano con i piedi, ritirando 20 miliardi di depositi dalle casse del Monte, mentre gli obbligazionisti subordinati, terrorizzati dalla possibile perdita integrale del capitale come nel caso Etruria, accettavano obtorto collo di convertire i propri titoli in azioni. Tutto inutile, tutto da rifare…

Adesso il decreto del governo apre una difficile transizione: lo stato salirà al 70% del capitale, la banca emetterà 15 miliardi di titoli per rifinanziarsi nel 2017, ma non è affatto chiaro cosa significhi il modello di salvataggio prescelto (“burden sharing” in luogo del “bail-in”). Perché non parlare in italiano e spiegare bene ai risparmiatori come funzionerà la conversione delle loro obbligazioni subordinate prima in azioni e poi dopo di nuovo in obbligazioni senior? Quanto perderanno? Quanto costerà l’operazione alle casse dello stato? Perché si insiste già sul ruolo “provvisorio” dello stato, da non protrarsi oltre i 12-24 mesi? Perché bisogna fare intervenire lo stato per evitare casini e poi restituire tutto ai privati quando si può ricominciare a guadagnare?

Sono interrogativi retorici, che denunciano l’avvenuta e totale perdita di sovranità, in cambio dei diktat che recepiscono le direttive “del mercato”…

E così arriviamo al terzo livello, quello che alla fine ci interessa di più: le conseguenze sui lavoratori di questa situazione kafkiana, che vede uscire sconfitti tutti i soggetti “deboli”, mentre i giocatori d’azzardo avranno fatto affari memorabili, puntando prima sui ribassi e poi sul salvataggio pubblico. Negli anni i lavoratori MPS hanno subito svariati piani industriali che hanno pesato enormemente sugli organici, sulle condizioni retributive, sui diritti normativi, sul welfare aziendale. L’esternalizzazione di 1.000 lavoratori in Fruendo è stato il passaggio più traumatico, ancora oggetto di vertenze legali controverse. I diritti sono stati calpestati in nome della sopravvivenza dell’azienda, ma le rinunce non sono bastate per evitare il peggio.

L’ultimo piano industriale, varato a ottobre, prevedeva 2.900 esuberi e 500 chiusure di filiali, ma non è stato mai discusso veramente, dato che tutto dipendeva dalla ricapitalizzazione, poi fallita. L’accordo ponte firmato il 23 dicembre è poco più di un pannicello: manda a casa 600 addetti che maturano i requisiti pensionistici entro il 31.5.2022 e qualche decina di colleghe con “l’opzione donna”. Per gli altri passeranno altri mesi di angoscia e di incertezza, prima che un nuovo e più draconiano piano industriale emerga dalle nebbie dell’intervento pubblico. E’ grave che il management, Morelli in testa, sia stato riconfermato, a prescindere dal fallimento del suo “progetto”. Per i lavoratori MPS si apre una stagione durissima, come già si intravede per i casi più noti (fusione Veneto Banca – Pop. Vicenza, fusione Banco Popolare – BPM, vicenda Carige, accordo Cariferrara e  risoluzione delle altre tre banche fallite).

Di fronte ad una riproposizione seriale di piani lacrime e sangue, solo l’unità della categoria e la solidarietà di sistema possono garantire soluzioni accettabili. Non sarà una passeggiata, ma la mobilitazione e la lotta hanno dimostrato, in altre situazioni e in altri settori in crisi, di pagare sul piano dei risultati concreti. Nel contempo bisogna aprire la discussione sul bilancio da trarre da questi 25 anni di privatizzazione del credito e sui caratteri e le prospettive della sua ri-nazionalizzazione.

Ed anche sul ruolo dei rappresentanti sindacali dei lavoratori bancari, che hanno spesso condiviso l’entusiasmo per le privatizzazioni, convinti di avere così un maggior potere negoziale (magari con forme di cogestione), e devono oggi prendere atto di un clamoroso fallimento, dalle conseguenze pesantissime. Non sarà mai troppo tardi per cambiare registro e ricostruire sulle macerie l’idea di un sindacato diverso che, anziché concertare e collaborare con i vertici aziendali, faccia dell’autonomia la propria bandiera ed usi il conflitto per difendere gli interessi di chi rappresenta.

 

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Monte dei Paschi di Siena

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Banco di napoli: filiali al freddo INACCETTABILE

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Come accade almeno due volte l’anno, ancora una volta assistiamo alla pantomima dell’aria condizionata. Locali caldi in estate e freddi in inverno. Decine di telefonate alle strutture aziendali competenti, elenchi lunghissimi di punti operativi da visitare, attese di giorni e i disagi per i lavoratori persistono.

La risposta più irritante, in tali casi, è: se fuori aumenta il caldo evidentemente anche all’interno aumenta la temperatura. Viceversa con il freddo. Figuriamoci con il gelo di questi giorni.

Replichiamo a queste opinabilissime eccezioni che, in casa di ognuno di noi (almeno tra tutti quelli che hanno il privilegio di possedere climatizzatori) questo differenziale non esiste: se all’esterno la temperatura è caldissima, all’interno si regola il condizionatore in modalità corrispondente e non si avverte il picco esterno, seppur limitato nel tempo. Se all’esterno la temperatura è rigida e va sottozero, all’interno si può anche stare in maniche di camicia.

Perché tutto ciò non può accadere nei luoghi di lavoro e, segnatamente, in tanti punti operativi del Banco di Napoli? Perché non consentire, dappertutto incondizionatamente, che i punti operativi possano calibrare la temperatura interna sulla scorta delle proprie esigenze?

E‘ utile richiamare il codice etico (approvato dal CdA del gruppo) che al capitolo “Principi di condotta nelle relazioni con i collaboratori”, paragrafo “il rispetto delle persone”, al penultimo alinea così recita: “rendiamo più agevole il lavoro semplificando prodotti, procedure e forme di comunicazione e garantiamo la salute e la sicurezza con misure sempre più efficaci”.

E’ utile richiamare il D. Lgs. 81/2008 (T.U. sulla salute e sicurezza sul lavoro) che al Titolo II Capo I  All IV (requisiti dei luoghi di lavoro) al punto 1.9 (microclima) comma 1.9.2 (temperatura nei locali) così recita:

“la temperatura nei locali di lavoro deve essere adeguata all’organismo umano durante il tempo di lavoro, tenuto conto dei metodi di lavoro applicati e degli sforzi fisici imposti ai lavoratori. Nel giudizio sulla temperatura adeguata per i lavoratori si deve tener conto della influenza che possono esercitare sopra di essa il grado di umidità ed il movimento dell’aria concomitanti. Quando non è conveniente modificare la temperatura di tutto l’ambiente si deve provvedere alla difesa dei lavoratori contro le temperature troppo alte o troppo basse mediante misure tecniche localizzate o mezzi personali di protezione”.

E’ utile richiamare l’ l’INAIL che  raccomanda di mantenere negli uffici una temperatura di almeno 18° e massimo 22° in inverno. In estate la differenza tra temperatura esterna ed interna non deve superare i 7°.

Dobbiamo ancora fare leva sulla pazienza e tolleranza dei lavoratori, vederli in canottiera in estate e con i giacconi in inverno, o possiamo pretendere il rispetto delle norme vigenti e dell’esercizio del buon senso ?

 

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Credito e Assicurazioni Federazione Campania

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ACCORDO UBI: COSA C’E’ SOTTO L’ALBERO DI NATALE?

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Commentare un accordo, come quello firmato dalle OO.SS riguardo al nuovo piano industriale 2017/2020, necessita inevitabilmente di alcune premesse perché un patto o un contratto è buono o cattivo solo relativamente al contesto in cui nasce.
Per una banca sull’orlo del fallimento, come potrebbe essere il caso di MPS, Popolare di Vicenza e Carige, solo per citare le più significative, mantenere le posizioni  o anche lasciare sul terreno dello scontro qualche vittima sacrificale può ritenersi  una vittoria.

Ma non è il caso di UBI, che sforna utili, distribuisce dividendi, viene elogiata all’unisono dal mercato ed ha amministratori che non perdono occasione ad ogni trimestrale per mostrare quanto è  bella e brava la loro azienda.
Ubi  viene considerata da tutto l’establishment economico/finanziario come una delle banche più solide, sane e redditizie del panorama generale, vincitrice del titolo  ‘’banca dell’anno’’ del Financial Time nel 2014, e che si è aggiudicata il certificato di banca ‘’top employers’’ nel 2015 per la gestione del personale. La BCE individua in UBI l’istituto in grado di rilevare le good bank proprio grazie alla sua solidità patrimoniale ed alla capacità di generare redditività.

Magari la realtà non è esattamente questa, ma certamente era ipotizzabile di nutrire qualche ambizione in più  al tavolo di trattativa, magari presentando una piattaforma su cui ottenere l’approvazione dei lavoratori ed il sostegno ad eventuali azioni di lotta. Magari, visto che siamo in periodo di grandi innovazioni tecnologiche, si poteva ricominciare a discutere (almeno discutere) di riduzione d’orario a parità di salario.

Invece nulla di tutto ciò: citando il volantino dei sindacati firmatari, vi è stata “una trattativa che – iniziata quasi 5 mesi fa – ha conosciuto momenti di grande difficoltà e di estrema tensione tra le Parti che in più occasioni hanno reso incerto il suo esito”.  In assenza di obiettivi di partenza su cui misurare il risultato finale, dovremo credere sulla parola a chi sedeva al tavolo e sostiene di aver ottenuto il massimo possibile. Insomma, il solito metodo censurabile, oltretutto per una trattativa che è solo una parte di un’operazione più complessa per arrivare ad un contratto aziendale unico.

Proviamo a vedere un po’ meglio com’è andata.

Nella premessa all’accordo troviamo la  solita lamentazione sul ‘’ perdurare di una situazione di mercato difficile e che quindi si rende necessario l’intervento previsto nel piano industriale’’, che prevede, a regime, una perdita di 2750 dipendenti, chiusura di sportelli, tagli sul costo del personale e via cantando.
Per quanto riguarda le spiegazioni,  aspettiamo le assemblee che le OO.SS dovrebbero indire a breve, sperando che almeno questa volta possano partecipare tutti i lavoratori e non solo quelli nei grandi centri urbani o nelle sedi centrali!!

I più temerari potrebbero avventurarsi nella lettura sempre criptica del testo, ma in sostanza  possiamo affermare che, per chi andrà in esodo, vi sarà una minore copertura economica  rispetto all’accordo sugli esodi precedenti, con l’assegno che passa dall’85 all’80% dell’ultima retribuzione: tanto la voglia di fuga, presente in categoria, non verrà meno per questa sforbiciata.
Sono previste uscite per 600 dipendenti in questa prima fase e altri 700 a partire dal 2018 con un impegno ad assumere 200 risorse entro tale data  (dovranno essere 1100 le nuove assunzioni da qui al 2020 …ce la faranno i nostri eroi??) e la stabilizzazione (col job’s act si fa per dire…) di 96 .

Confermate le giornate di cassa integrazione volontaria . ..ehm scusate le giornate di solidarietà pagate al 40% per un totale di almeno 130.000 giornate (anche in questo caso non dubitiamo del successo dell’iniziativa). Viene proclamato  di nuovo un generico impegno a ridurre le spese amministrative e di consulenza, nulla di quantificato e quindi nulla di più aleatorio.

Da sottolineare la mancanza ormai cronica di personale e lo stato di emergenza generale che vivono moltissime filiali, con colleghi costretti a prestare soccorso sistematicamente ad altre unità per poter aprire la cassa: situazioni all’ordine del giorno, che imporrebbero non una dichiarazione di esuberi ma, al contrario, la necessità di assunzioni ben oltre lo stato attuale degli organici.
Stride, quindi, la conferma della stretta sugli straordinari, che, per decreto divino, nel 2017 non potranno essere autorizzati oltre il limite predefinito per il 2016: questo non significa che non ci sarà un maggior numero di ore di straordinario, ma che non verrà compensato nulla oltre tale limite e ci sarà lavoro regalato all’azienda! Naturalmente nessun alibi per nessuno sul raggiungimento del budget, sia chiaro!!!

E’ stata unificata una parte dell’integrativo per tutti i dipendenti delle 7 banche, di fatto prendendo come riferimento il migliore e livellandolo verso il basso, per cui alcuni dipendenti riceveranno qualche briciola, mentre altri perderanno qualcosa: ognuno dovrà leggersi l’accordo e, in base alla banca di provenienza, capire se avranno vantaggi o meno riguardo buoni pasto, mobilità, rimborsi chilometrici, indennità di rischio, indennità di sostituzione, indennità di turno, contributo monoreddito, borse di studio, TFR.

Forti malumori sono già stati registrati per l’accettazione della norma che prevede, per i nuovi mutui, un ottimo tasso parametrato all’euribor (con un minimo dello 010%), che però non si potrà estendere a coloro che il mutuo lo hanno già in essere. Una discriminazione inaccettabile, che penalizza fortemente chi attualmente paga l’1,50%!!! A parziale compensazione si è stabilita la possibilità di optare per un tasso fisso legato all’eurirs + uno spread di 0,50.

Sono stati confermati i contenuti dell’accordo  del 14 agosto 2007 relativo alle garanzie di UBISS.

In definitiva un accordo interlocutorio che  mantiene aperte numerose incognite.
Considerando le premesse iniziali del commento e  la valutazione che abbiamo dato nel nostro precedente volantino, il nostro giudizio è di insoddisfazione nel metodo e nel merito, Si conferma, ancora una volta, la necessità impellente di un sindacato diverso, conflittuale, e della ripresa del protagonismo e della partecipazione dei lavoratori se non vogliamo continuare ad arretrare.

 

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. UBI Banca

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cicl in p 5-1-2017

 

 

INTESA SANPAOLO: COME TI TRASFORMO I CONSULENTI IN PROMOTORI (CON LA COMPLICITA’ DEI SINDACATI FIRMATUTTO?)

ispbis

 

E’ in corso la trattativa sul Protocollo di sviluppo sostenibile del Gruppo. Tra i punti più importanti in discussione ci sono il pensionamento volontario e agevolato per il personale che matura il diritto entro il 2018 e la possibilità di trasformazione

del rapporto di lavoro a part time per chi maturerà il diritto entro il 2020, con l’azienda disponibile a pagare l’intera contribuzione previdenziale (compresa la quota a carico del lavoratore) come se si lavorasse a tempo pieno.

A fronte di questi part-time “agevolati”, l’azienda però chiede (con nonchalance) di poter procedere “sperimentalmente” all’assunzione di iscritti all’Albo dei promotori finanziari con modalità davvero originali: i nuovi lavoratori sarebbero dipendenti per 2 o 3 giorni della settimana e promotori (consulenti finanziari) per i giorni rimanenti.

Non occorre essere dei geni per capire che quello che interessa all’azienda (e all’ABI di cui Intesa Sanpaolo è in questo caso l’apripista) non è tanto un nobile scambio tra riduzione volontaria di orario dei lavoratori anziani e nuova occupazione giovanile, quanto l’introduzione surrettizia di una figura professionale ibrida la cui potenzialità devastante sull’integrità della categoria (e sui suoi livelli salariali) è del tutto evidente.

Non a caso si aggiunge da subito la richiesta di poter applicare (sempre sperimentalmente e volontariamente per carità…) tale modalità contrattuale anche all’attuale personale iscritto all’Albo Promotori che maturi i requisiti pensionistici entro il 2020 e, addirittura, la disponibilità ad accogliere eventuali richieste provenienti da gestori personal abilitati all’offerta fuori sede che fossero interessati (quale magnanimità …)!

Ora, noi non sappiamo, nell’attuale devastato quadro giuridico, quali possibilità abbia l’azienda di procedere su questa strada per conto proprio. Se ritiene di poterlo fare lo faccia. Quello che, secondo noi, sarebbe di una gravità assoluta è se tale progetto trovasse un qualsivoglia avallo e una firma da parte dei sindacati “trattanti”. Sarebbe un fatto di una gravità pazzesca anche perché è chiaro che un tale accordo farebbe da battistrada per tutto il settore.

Altro che “nuovo modello di banca”; altro che lotta alle pressioni commerciali. Il nuovo Frankenstein della consulenza sarebbe un lavoratore con un minimo garantito basso, precario, ricattabile, immerso nei conflitti di interesse, stressato e stressante.

Il compito di un sindacato minimamente responsabile non può che essere quello di organizzare da subito la lotta e la resistenza ad un simile progetto coinvolgendo anche l’opinione pubblica. Non a caso, anche all’interno delle sigle “firmatarie” (e principalmente nella Fisac-Cgil), crescono le preoccupazioni (e qualche documento di dissenso sta uscendo).

Dobbiamo fermare questo grave attacco alla categoria e strappare il velo di silenzio che sta accompagnando questa trattativa. Nessuno si azzardi a firmare alcunché prima di aver convocato le assemblee ed essere venuto a spiegare a lavoratrici e lavoratori cosa sta combinando.

 

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Gruppo Intesa Sanpaolo

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INTESA SANPAOLO: VOGLIAMO FARE UNA BATTAGLIA SERIA CONTRO LA VERGOGNOSA SITUAZIONE DELLE “CASSE”?. NOI CI SIAMO!

DA CUB-SALLCA INTESA SANPAOLO RSA TORINO E PROVINCIAbaratrob
A ISCRITTE/I, LAVORATRICI E LAVORATORI

Care e cari,

nei giorni scorsi è uscito un volantino dei sindacati “firmatari” di Intesa Sanpaolo Torino e Provincia sulla penosa situazione del servizio di cassa nelle filiali.
Ne condividiamo integralmente il contenuto, eccetto che per un aspetto (non secondario).

Non solo a Torino e provincia ma in tante altre regioni d’Italia (tutte?), ci siamo ormai abituati a leggere prese di posizione “di fuoco” da parte dei sindacati “firmatari” che, come la nostra lettera aperta a Barrese (di poche settimane fa), non fanno che registrare una realtà ormai insopportabile.
C’è appunto solo una questione: non succede mai un c.. di nulla!! Noi riteniamo che alle parole non possano che seguire i fatti!

In questi giorni, nei nostri periodici giri delle filiali, stiamo sollecitando le colleghe ed i colleghi a prendere posizione rispetto alla nostra idea di fare uno sciopero importante contro le politiche commerciali della banca, fonti di tutti i problemi che quotidianamente devastano il clima lavorativo. Ovviamente, registriamo disponibilità (quando non entusiasmo) da parte dei nostri iscritti e simpatizzanti. Ma la risposta prevalente è di scetticismo: a cosa serve lo sciopero se lo proclamate solo voi?

Questa risposta sottintende un grave errore di valutazione ma anche un elemento di verità.
L’errore consiste nel pensare che questa o quella organizzazione sindacale possano risolvere, da sole, i ostri problemi quando sta proprio in noi la capacità di reagire e cambiare lo stato di cose esistenti.
L’elemento di verità è che si riconosce al Sallca coerenza e disponibilità a promuovere e sostenere le lotte ma che si hanno forti perplessità sulla determinazione “reale” delle sigle “firmatarie” ad uscire dal solito gioco della parti.

Per quanto ci riguarda, siamo immediatamente pronti a sederci attorno ad un tavolo con le altre sigle per decidere tempi e modalità di un’iniziativa di lotta, a partire dal livello torinese, che sia l’inizio di una reale battaglia di opposizione alle strategie della banca.
Sarebbe importante che le lavoratrici ed i lavoratori sostenessero questa nostra disponibilità.

Nel frattempo… noi andiamo avanti e abbiamo già provveduto a presentare nuovi esposti a due Asl (dopo quello già andato a segno sull’Asl di Rivoli) sul tema dello stress lavoro correlato (ovviamente facendo riferimento anche alle martellanti campagne commerciali ed altre amenità legate al “metodo”).

Ed ai cassieri (scusate, gestori di base…) continuiamo a ricordare che è loro diritto fare le pause previste (dalla colazione al pranzo) e loro dovere chiudere negli orari prestabiliti nelle diverse filiali: non lo diciamo noi, lo dice l’azienda. Proseguire a chiamare i clienti dopo l’orario viola le norme aziendali e spetta ai responsabili attivarsi chiudendo per tempo porte o distribuzione di numeri, spiegando in ogni caso ai clienti che oltre l’orario della filiale le casse non devono operare.

Cub-Sallca
Intesa Sanpaolo RSA Torino e provincia

RESOCONTO DELLA RIUNIONE DEI LAVORATORI E DELLE LAVORATRICI DEI CENTRI IMPRESE DI INTESA SANPAOLO DI TORINO E PROVINCIA

La riunione per i Centri Imprese ha visto una buona partecipazione, sia quantitativa, sia qualitativa, perchè la relazione introduttiva è stata tenuta dai  lavoratori ed è stata lo spunto per numerosi interventi dei presenti.
Il filo conduttore della riunione è stato “vogliamo lavorare bene”, baratrobma questo obiettivo trova continui ostacoli.

 

NUOVO MODELLO DI SERVIZIO

Questo ha impattato notevolmente anche sui centri imprese e con molti elementi di negatività: selezione inadeguata dei profili dei  clienti girati ai centri imprese, riportafogliazione automatica continua con cambio della tipologia di clientela, insufficiente collegamento con le filiali retail, trascuratezza del ruolo del settore Estero.

Un altro problema evidenziato è quello dello scollamento degli altri attori del processo commerciale   (es. Pricing, Mediocredito Italiano ecc.) che invece di essere un supporto diventano un ostacolo al raggiungimento dei risultati.

In questo contesto vi è stato un  cambiamento radicale del ruolo del gestore, avvenuto senza rafforzamento o efficientamento della struttura.

 

ANSIA DA PRESTAZIONE

Oggi al gestore viene  richiesta maggiore intensità commerciale, 10 appuntamenti a settimana, prevalentemente da effettuarsi fuori sede con pianificazione puntale di ogni attività (preparazione incontro, scheda relazione cliente, piano cliente ecc.), la conoscenza di un numero sempre maggiore di prodotti da offrire ai clienti (in un’ottica di consulenza a 360°).

Si assiste alla moltiplicazione di report da dover rendicontare in aggiunta a quelli ufficiali (file excel di dominio pubblico con indicazione di nomi gestori).

Tutte queste attività aggiuntive sono da affiancarsi alle attività tipiche di concessione e gestione del credito, che sembrano paradossalmente meno importanti dell’aspetto commerciale/metodo che, invece di essere uno strumento, diventa il fine ultimo del lavoro del gestore. Lo si vede anche dall’attenzione spasmodica sui derivati come fonte primaria di reddito, anche su operazioni di importo che, fino all’anno scorso, veniva considerato non adatto alla copertura.

Insomma, le pressioni esercitate non hanno nulla da invidiare a quelle esistenti nelle filiali retail e personal: alcuni responsabili chiedono in modo pressante di giustificare il mancato raggiungimento dei 10 appuntamenti settimanali (come se i gestori non avessero altro da fare!), chi resta indietro viene minacciato di essere affiancato da un tutor, escono le classifiche sulle filiali e chi non fa risultati sufficienti o non applica il “metodo” rischia il “commissariamento” della terribile “task force”.

Il risultato di quanto sopra è la difficoltà sempre più diffusa nel trovare colleghi che vogliano fare il gestore.

 

VALORIZZAZIONE DEL MERITO

Viene da ridere quando si sente parlare di valorizzazione del merito: l’azienda sponsorizza sempre più (anche verso l’esterno) che la forza di Intesa Sanpaolo arriva dalla qualità delle sue PERSONE, ma ciò non si sta concretizzando in vera valorizzazione del merito in termini di percorsi professionali adeguati e premi ai risultati.

I nuovi percorsi professionali sono un deciso passo indietro, discorso valido anche per i territori Retail e Personal, con un aggravio per il mancato riconoscimento della professionalità dell’addetto imprese o dello specialista estero.

Per i gestori Imprese  si vede sempre più lontana la possibilità di una crescita professionale che sia adeguata anche da un punto di vista economico, in quanto un eventuale portafoglio di maggiore peso e responsabilità  non corrisponde ad un riconoscimento economico o di inquadramento superiore, poiché il concetto di complessità viene stabilito arbitrariamente dall’azienda (e assolutamente in maniera non trasparente) con algoritmo che “pesa” più il numero dei clienti in portafoglio che la dimensione o le difficoltà gestionali delle imprese clienti.

Inoltre il premio variabile di risultato è costruito con un meccanismo di raggiungibilità sempre più difficile e di poco controllo (indicatori numerosissimi e che variano di mese in mese, peso maggiore della customer satisfaction che riguarda talvolta aspetti generali dell’istituto e non della filiale/gestore, obiettivi che si scontrano con strategie della banca come la crescita degli impieghi totali in attuali condizioni di mercato e con politica dei prezzi orientata al repricing). Per non parlare poi dell’entità dell’eventuale premio, sempre più ridotto e inversamente proporzionale agli obiettivi di distribuzione dei dividendi agli azionisti (3mld nel 2016 vs 2mld nel 2015).

Il problema di fondo è che anche nei centri imprese che, come ovvio, hanno specificità legate alla capacità di valutare l’erogazione di credito, le capacità professionali vengono scambiate per capacità di “vendita”.

 

GESTIONE DEL PERSONALE E PROBLEMI ORGANIZZATIVI

Il nuovo modello di servizio ha portato degli importanti cambiamenti anche in termini logistici e organizzativi. L’aggregazione di filiali di grandi dimensioni ha creato strutture troppo complesse sia in termini di spazi non adeguati, sia in quelli della gestione delle risorse umane. Si stanno verificando casi di conflittualità interna tra coordinatori (e qui si potrebbe discutere sul processo di selezione degli stessi – anima solo commerciale e non gestione delle persone) della stessa filiale, che non fanno altro che alimentare in senso negativo il clima di filiale già compromesso per le pressioni commerciali di cui sopra. In questo senso le capacità e le modalità gestionali dei responsabili giocano un ruolo decisivo.

La vicinanza dell’ufficio personale alle risorse è sempre più scarsa: mancata attenzione a colleghi che per motivi di salute chiedono di cambiare mansione, assenza di visione sul futuro (pianificazione di ricambio generazionale per struttura estero) ecc..

Viene segnalata, anche qui, una scarsa disponibilità a riconoscere la compensazione per le prestazioni straordinarie.

In generale i diversi centri imprese sono diventati delle repubbliche autonome, con diverse modalità organizzative, soprattutto nella distribuzione di carichi di lavoro e competenze tra gestori, addetti e settore Estero. Quest’ultimo è stato, di fatto, abbandonato dall’azienda, considerato poco o nulla e questo è dimostrato anche dalla totale assenza di formazione di colleghi più giovani per una mansione che è specialistica e non può essere improvvisata. In questo caso alle tante chiacchiere sono corrisposti pochissimi fatti ed i buoni propositi manifestati dall’azienda non sono mai stati messi in pratica.

 

In definitiva, anche la riunione dei lavoratori dei centri imprese ha confermato, con le proprie specificità, quanto emerso nelle riunioni che hanno coinvolto assistenti alla clientela e gestori retail e personal: disposizioni calate dall’alto senza nessuna attenzione per le conoscenze e le esperienze dei lavoratori, attenzione assillante per i risultati commerciali, scarso apprezzamento per la reale professionalità dei colleghi, condizioni ambientali di lavoro degradate.

Tutto questo conferma che dobbiamo unire le forze per ripristinare ambienti di lavoro vivibili e tutelare dignità e salute di lavoratori e le lavoratrici.

 

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Federazione Regionale Piemonte

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cicl in p 14-11-2016

INTESA SANPAOLO: LA MANO DESTRA SA QUELLO CHE FA LA MANO SINISTRA ?

Qui sotto leggerete un quesito posto da un collega alle funzioni competenti e la conseguente risposta. Non abbiamo nulla da aggiungere: si commenta da sé.

Desideriamo unicamente ricordare, ancora una volta, a tutti i colleghi di operare nel totale rispetto della normativa continuamente richiamata dall’azienda (anche quando l’incoerenza regna sovrana come ci dice questo caso). I numerosi casi disciplinari in cui siamo costretti a prestare assistenza ci impongono questo suggerimento. Veniamo posti nelle condizioni di sbagliare e, subito dopo, scatta la contestazione.

 

Quesito:

Abbiamo riscontrato diverse richieste allo sportello di cambio assegni di traenza emessi da Intesa Sanpaolo, per ordine e conto della Unipol Sai, recanti lettera accompagnatoria nella quale si indica ai beneficiari che il cambio può avvenire con la presentazione di un solo documento di identità e della tessera sanitaria per importi fino ad eur 10.000,00.

Tale indicazione sembrerebbe in conflitto con quanto previsto dalla scheda “A” della guida operativa del cambio assegni (aggiornamento del 03/06/2016) nella quale si indica che per assegni superiori ad eur 750,00 bisogna richiedere e fotocopiare due documenti di ‘identità e codice fiscale.

Al fine di evitare ulteriori contestazioni con l’utenza si richiedono chiarimenti nel merito.

 

 

Risposta:

Gentile collega,

la guida operativa in materia di “cambio assegni” prevede effettivamente che per assegni superiori all’importo di € 750 occorra acquisire copia di due documenti di identità e del codice fiscale del richiedente.

Al riguardo, tuttavia, occorre precisare che non ci risulta che ci siano norme di legge o di regolamento che stabiliscono tale onere.

In sostanza, la policy è ispirata ai principi di prudenza e di diligenza professionale ai quali la banca si attiene nell’identificazione dei beneficiari del pagamento.

Occorrerà quindi interessare le competenti Strutture affinché le comunicazioni inviate da Unipol siano coerenti con la normativa interna.

Restiamo naturalmente a disposizione per i singoli casi concreti che dovessero presentare criticità.

Distinti saluti

 

11/11/2016

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Credito e Assicurazioni
Federazione Campania

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PER SALVARE QUEL CHE RESTA DELLA COSTITUZIONE E FERMARE RENZI (PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI) AL REFERENDUM SI VOTA NO

Basta con le truffe di Renzi:no

il Senato non viene abolito, ma anziché essere eletto

verrà nominato e chi ne farà parte avrà l’immunità parlamentare.

Il risparmio, peraltro molto limitato,

(magari lo userà per costruire il Ponte sullo Stretto)

non può essere scambiato con la cancellazione della democrazia.

Con il Senato nominato e l’Italicum, che consentirà

a chi prende il 25% dei voti di ottenere la maggioranza dei seggi,

si prospetta un sistema oligarchico e autoritario.

Anche i poteri delle regioni vengono ridotti:

mano libera al governo per le grandi (nonché costose ed inutili) opere che dissipano risorse pubbliche e devastano il territorio.

 

 

Anche la riforma costituzionale di Renzi, come le leggi ordinarie approvate dal suo governo, fa promesse che non verranno mantenute.

Il sistema bicamerale (ammesso che sia un male) non viene eliminato: il Senato non voterà più la fiducia, ma resterà il doppio voto su numerose (e non sempre ben definite) materie. Il Senato non viene abolito, ma verrà costituito da nominati, anziché eletti, scelti tra consiglieri regionali e sindaci che godranno di immotivata immunità parlamentare.

La riduzione dei senatori determinerà un risparmio di meno di 50 milioni di Euro (dati ufficiali della Ragioneria di Stato e non “stime” della propaganda renziana), un vero e proprio specchietto per le allodole, un risultato che si poteva raggiungere facilmente con una semplice decurtazione del 10% delle ridondanti indennità parlamentari, senza mettere in piedi questo circo.

In realtà, la combinazione delle norme di questa “riforma” con il sistema elettorale determina un accentramento dei poteri ed un esito autoritario, perché chi vincesse le elezioni, anche con un minimo margine, finirebbe non solo per governare, ma per imporre anche la scelta di presidente della Repubblica e giudici costituzionali.

Il fatto che non sempre le regole elettorali premino chi le ha volute (si veda la recente elezioni dei sindaci) nulla toglie alla natura antidemocratica e distorsiva della rappresentanza di queste norme.

D’altronde Renzi è abituato a mettere etichette fasulle ed accattivanti a prodotti scadenti.

Il job’s act rivendica l’introduzione del contratto a tutele crescenti, mentre in realtà ha introdotto la libertà indiscriminata di licenziamenti individuali (i recenti dati sull’impennata del 30% dei licenziamenti individuali per giusta causa lo confermano).

Altri governi ci avevano provato, ma solo questo governo è riuscito a cancellare l’art.18 per i neoassunti (per ora?).

Il decreto “Sblocca Italia” favorisce l’ulteriore libertà di devastazione ambientale, salvo poi vedere i ministri in televisione rammaricarsi per qualche catastrofe naturale.

Non è un caso che il potere delle regioni, con questa riforma, venga ridotto proprio su materie come le “grandi” (e devastanti) opere.

La “Buona Scuola”….vabbè, lasciamo perdere.

Tutti i poteri “forti”, a partire da Confindustria, passando per i burocrati delle istituzioni europee, fino alla plateale ingerenza dell’ambasciatore e dell’ex presidente degli Usa, plaudono a questa riforma.

Noi pensiamo che la Costituzione vada applicata e non manomessa e che si debba impedire di fare ulteriori danni a chi ha governato con provvedimenti dannosi, iniqui e truffaldini.

È uno scandalo che ancora la recente Legge di Stabilità, mercanteggiata con Bruxelles per ottenere lo zero virgola di flessibilità, sia piena di misure degne del gioco delle tre carte.

Ad esempio, vengono concessi aumenti alle pensioni più basse ma si taglia la spesa sanitaria. Oppure si alza la voce contro Equitalia, ma si “dimentica” che questa è la mera esecutrice delle norme fissate da enti locali e governo, compreso quello di Renzi.

Il cambiamento che serve all’Italia non è quello di conferire più poteri a chi ha dimostrato di governare male e di aggiungere danni a quelli già esistenti, a cominciare dalla totale libertà di licenziare per i nuovi assunti.

Per questo il voto dei lavoratori non può che essere per il NO a nuove derive autoritarie, che finirebbero solo per favorire ulteriori misure antipopolari.

 

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Credito e Assicurazioni

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Sede Operativa: Torino – Corso Marconi 34; tel. 011/655897; fax 011/7600582

 

cicl. in p. 14-11-2016