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INTESA SANPAOLO – UBI: una valutazione a caldo

 

L’iniziativa di Intesa Sanpaolo di scalare UBI (terza banca italiana) è giunta inattesa e improvvisa. L’operazione richiederà tempo ed iter autorizzativi lunghi, incontrerà ostacoli seri (il Cda di UBI ha, prevedibilmente, respinto l’offerta), ma ha elevate probabilità di realizzazione. A
cose fatte, si sarà formata la terza banca europea per capitalizzazione e la settima per ricavi, con circa 50 miliardi di valore di borsa.
Sono state indagate ampiamente le ragioni di questa mossa, che segue di tre anni la fallita
scalata ad Assicurazioni Generali da parte di Intesa Sanpaolo: uno scenario che qualcuno
continua a ritenere possibile, una volta saliti di peso e consolidato il primato in Italia.
Cominceremo con l’elencare le ragioni che stanno alla base dell’assalto ad UBI, proseguiremo
con l’analisi delle criticità possibili e concluderemo con il punto di vista dei rappresentanti dei
lavoratori su questa vicenda.

Le ragioni
– Crescere di dimensioni è una mossa difensiva verso scalate ostili di provenienza
esterna: la quotazione in borsa rende contendibili, le fondazioni hanno cessato da tempo
di essere presìdi difensivi, una legge assurda le costringe addirittura a ridurre le
partecipazioni bancarie.
– Il mercato è a crescita zero, i tassi sono negativi, i margini sempre più ridotti: realizzare
6 miliardi di utili a fine piano industriale, come aveva promesso ISP, è impossibile senza
una scossa al “perimetro” della platea dei clienti.
– Il principale concorrente, Unicredit, ha varato un piano aggressivo che si basa
principalmente sul taglio dei costi, ma punta anche ad erodere quote di mercato alle
altre banche, in primis proprio ISP.
– Il consolidamento del settore bancario sta per ripartire, dopo il grande freddo dovuto
allo smaltimento dei crediti deteriorati e alle “fusioni per salvataggio” seguite al bail-in,
dopo il 2015: scegliere per primi significa trovarsi meglio dopo.
– I grandi nodi ancora da sciogliere sono la sistemazione del Monte dei Paschi (che deve
essere ceduto dal Tesoro entro il 2021), la ricerca di partner strategici per la Popolare di
Bari, la sorte sempre incerta di Carige e la crescita dimensionale delle banche intermedie
come BPM e BPER: essere già accasati significa potersi sottrarre alle pressioni per farsi
carico dei problemi “di sistema”.
– UBI non è messa male come conti, ma ha visto di recente rafforzarsi i soci piemontesi e
bergamaschi a scapito di quelli storici bresciani raccolti attorno a Bazoli: il successo
dell’OPS può far leva sulle divisioni interne alla compagine azionaria e sul favore dei
fondi d’investimento, che sono ormai decisivi e ragionano solo in termini di puro interesse
economico.

Le criticità
– Investire su UBI significa aumentare la concentrazione sul sistema italiano, un paese a
crescita lenta, con forti problemi strutturali, carenza di investimenti e squilibri territoriali
evidentissimi; la scommessa è l’ulteriore estrazione di valore da una clientela già
ampiamente sfruttata: se non dovesse funzionare?
– Per superare i vincoli anti-trust la banca attaccante ha già fatto un accordo con BPER
ed UNIPOL per cedere 400/500 sportelli e le attività assicurative di UBI: a BPER serve
un aumento di capitale da un miliardo di euro, il che implica una valutazione di 2 milioni
di euro a sportello. I precedenti sono inquietanti: chi comprò da ISP gli sportelli nel 2008
a prezzi sballati pagò cara la propria imprudenza (Carige, Veneto Banca, Popolare di
Bari, Creval avviarono così il proprio declino). Non si rischia il bis?
– Le promesse fantastiche dei promotori dell’offerta di scambio parlano di un aumento di
valore per tutti, manager, soci, azionisti e dipendenti, con dividendi più alti, impieghi più
elevati e decine di miliardi disponibili per investimenti sostenibili sul piano sociale e
ambientale: l’esperienza delle fusioni insegna che il credito si è ridotto e la politica dei
dividendi ha depauperato il capitale sociale, rendendo le banche più fragili al ritorno
della crisi.

Le conseguenze sui lavoratori
– L’unica vera ragione (mai dichiarata) per questo tipo di operazioni è il taglio dei costi,
attuato attraverso la riduzione del personale e la chiusura delle filiali: il mercato è asfittico
e i ricavi non crescono, quindi per tenere alti gli utili si possono solo fare tagli.
– L’obiettivo dichiarato è quello di tagliare 5.000 posti di lavoro, assumendo però 2.500
persone “specializzate” (quindi non nella rete): in questo l’azienda ha avuto l’accortezza
di anticipare la richiesta sindacale (un nuovo assunto ogni due esodati), per smussare
qualunque angolo che rappresenti un possibile ostacolo.
– Il saldo occupazionale si presenta dunque fortemente negativo, a livello aziendale
come a livello di sistema, dove, lo ricordiamo, incombono 6.000 esuberi dichiarati da
Unicredit, 1.300 da Carige, 1.000 da Popolare di Bari, cui aggiungere il completamento
del piano industriale del MPS; e a marzo è previsto il nuovo piano industriale BPM.
– I lavoratori si trovano dunque nel pieno dell’ecatombe, dopo la chiusura dell’accordo
sul CCNL, che era stata venduta come una svolta nelle relazioni industriali e l’inizio di
una nuova era basata sul recupero del potere perduto e dei diritti da riconquistare.
– A questo si aggiunge il forte disagio dei lavoratori che saranno presumibilmente ceduti
a migliaia, insieme agli sportelli che li contengono, alla BPER, in seguito agli accordi di
fusione, con il conseguente stress commerciale per recuperare il costo dell’investimento
e rendere profittevole l’aumento di capitale necessario a sostenerlo.
E’ con grande scetticismo e preoccupazione che dobbiamo quindi valutare
l’operazione della banca torinese: destinata certamente a dare grandi soddisfazioni
agli azionisti, a rafforzare il potere dei manager, a strappare dichiarazioni convinte ai
vertici sindacali.
Invece se ci mettiamo dal punto di vista di chi è vittima delle manovre societarie e delle
ristrutturazioni organizzative, dobbiamo trarre un bilancio decisamente diverso: stress
commerciale, ansia da prestazione, trasferimenti passivi, cessioni indesiderate,
peggioramento del clima aziendale, insicurezza professionale e lavorativa, crisi di
identità, sofferenza psico-fisica.
L’indicatore più preoccupante è la corsa verso l’esodo e la fuga dal “posto migliore dove
lavorare”: una via d’uscita sempre più ambita e indicativa del livello di disaffezione verso
questo lavoro e soprattutto il modo in cui si è costretti a svolgerlo…
E’ invece interesse dei lavoratori resistere ai peggioramenti della propria condizione lavorativa e
difendere i diritti anche e soprattutto nella fasi convulse delle trasformazioni imposte dall’alto:
come sindacato di base ci impegneremo a fondo perché questo accada.

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Credito e Assicurazioni

Intesa Sanpaolo: aggiornamento su buoni pasto e superamento NRI

DA CUB SALLCA INTESA SANPAOLO
a iscritti/e, lavoratrici e lavoratori

 

Piccola nota per chi ha ancora i buoni pasto cartacei.

La nuova legge di bilancio ha disposto che l’esenzione fiscale sia limitata fino all’importo di 4 euro. Nel nostro caso la parte eccedente (1,16) verrà tassata. Per questo motivo sarà possibile esercitare l’opzione per l’eventuale passaggio al buono pasto elettronico entro il 13 marzo 2020 (decorrenza 1 maggio), fermo restando che non in tutte le zone i buoni pasto elettronici sono facilmente spendibili.

NRI ABOLITA, SI, PERO’….

Proviamo a fare un po’ di chiarezza dopo che l’azienda (non commentiamo neppure l’ennesimo tentativo dei sindacati firmatutto di intestarsi l’ennesima “vittoria”) ha cambiato le regole per lo straordinario delle aree professionali.

Cogliamo l’occasione per ricordare, prima, che la prestazione dei quadri direttivi va resa, di massima, “in correlazione temporale con l’orario normale”delle aree professionali, con le caratteristiche di flessibilità, autogestione ecc..

Lo ribadiamo perché ogni tanto ci giunge notizia di qualche responsabile particolarmente “estroso” che sostiene che “i quadri non abbiano orario”, nel senso che sarebbe potenzialmente illimitato…..

Tornando alle aree professionali, la regola di fondo non cambia: lo straordinario va autorizzato ed è previsto solo per situazioni che abbiano “carattere di urgenza e di non differibilità”. Attenzione, però, perché, anche se autorizzata, la maggiore prestazione parte solo per un periodo pari o superiore a 30 minuti (non più 15) e solo successivamente per multipli di 15.

La maggiore prestazione va ad incrementare la banca ore, fino al raggiungimento di 50 ore (nelle quali sono comprese le 23 ore di dotazione iniziale di banca ore, eventualmente dedotte le 7,30 per il Fondo per l’Occupazione) e viene recuperata entro un massimo di 30 mesi e non viene persa in nessun modo.

Per le eventuali ulteriori ore che vanno da 51 a 100, il lavoratore può scegliere tra recupero o pagamento: tale scelta può essere modificata entro il 30 novembre per avere efficacia nell’anno successivo.

Dalla 101a ora scatta solo il pagamento.

Cambia il sistema anche per le prestazioni non autorizzate. Prima la prestazione non autorizzata veniva giustificata con la causale NRI (presenza senza prestazione). Ora, ma solo se la prestazione è di almeno 30 minuti (e successivi multipli di 15), il sistema genera in automatico un accredito con la causale PAO .

Questa prestazione non confluisce nella banca ore, ma va in un plafond a parte. Soprattutto il recupero (RAO) deve avvenire entro la fine del secondo mese successivo a quando si è verificata la maggiore prestazione. Se non viene fruita nei termini viene cancellata!!

Come commentare tutto questo?

Come prima cosa diremo che, se la maggiore prestazione non viene autorizzata, è buona norma chiudere il pc, salutare ed uscire. Se l’autorizzazione viene data, si deve fare in modo che la prestazione aggiuntiva raggiunga i fatidici 30 minuti. Riteniamo davvero discutibile che nel caso ci si fermi 20-25 minuti non venga riconosciuto nulla, ma, per ora funziona così.

Chi, nonostante la mancata autorizzazione, continuasse a lavorare deve tenere presente che la maggiore prestazione viene registrata, ma che il recupero deve avvenire molto più velocemente e che non ci sono norme di tutela a fronte di eventuali ostruzionismi di responsabili locali rispetto al recupero stesso.

Quindi, consigliamo di evitare di fermarsi, ma, nel caso lo faceste e nascessero problemi, contattateci.

E’ comunque utile ricordare un po’ di storia per capire come nasce il problema.

Nel 2012, dopo aver disdettato gli accordi aziendali e licenziato per rappresaglia gli apprendisti per indurre i sindacati firmatutto ad accordi più favorevoli per lei, l’azienda fa uscire la circolare n. 728 del 5 ottobre .

Nel Protocollo Occupazione e Produttività, firmato pochi giorni dopo, viene scritto e firmato, dai soliti sindacati dalla firma facile, che “il ricorso al lavoro straordinario/prestazioni aggiuntive sarà oggetto di attenta limitazione e sarà disposto dall’azienda solo in caso di particolare urgenza e necessità, come già comunicato con Circolare Intesa Sanpaolo n, 728 del 5 ottobre 2012, che qui si riconferma” (grassettatura nostra).Di fatto un avallo sindacale alla posizione aziendale!

Ovviamente non contestiamo il principio che lo straordinario debba essere autorizzato e pure limitato, ma questo non vuole dire che possa essere fatto e non pagato.

Perché la famigerata circolare recitava che: “tutte le unità in indirizzo eviteranno di richiedere prestazioni oltre il normale orario di lavoro, che ove rese non potranno pertanto essere compensate, fatte salve ovviamente le maggiori prestazioni aventi carattere di urgenza e di non differibilità che dovranno, come disciplinato nelle “Regole in materia di orario di lavoro” allegate, essere preventivamente autorizzate” ecc.

Di fatto si ammetteva che qualcuno potesse fermarsi a lavorare senza compensazione, come abbiamo fatto notare quasi subito con la lettera all’azienda allegata e come abbiamo sempre evidenziato nei nostri esposti di denuncia dello stress lavoro correlato. 

Ci hanno messo solo 7 anni abbondanti per dare una risposta, peraltro parziale e discutibile, a questa situazione intollerabile.

Ccnl credito, meno trionfalismi, più analisi serie

A breve partiranno le assemblee sul Ccnl del credito, precedute da articoli di stampa che, riprendendo le veline dei sindacati firmatari, esaltano l’intesa e raccontano che tutto va bene.

Ci spiace dovervi dire che la realtà è molto meno entusiasmante di quanto vi raccontino, come potrete leggere nel nostro commento allegato (anche in versione 2 pagine per chi volesse stamparlo più agevolmente).

I soldi sono meno di quanto possa apparire (nulla per il 2019, terza tranche di aumenti solo alla fine del 2022, proroga del blocco del TFR per altri 4 anni).

Viene “sanata” la questione del salario d’ingresso (introdotto nel 2012 e finanziato per il pregresso con l’uso del Fondo per l’occupazione), ma si peggiorano le tutele contro i trasferimenti passivi e non si ottiene nulla di concreto sul diritto alla reintegra in caso di licenziamento illegittimo.

Soprattutto non cambia niente per le martellanti pressioni commerciali, né per il penoso clima aziendale che esse producono.

Non c’è alcuna strategia per la riduzione d’orario o per un modello di banca che inverta la tendenza alla chiusura massiccia di sportelli e distruzione di posti di lavoro. Anzi, con la proroga del F.O.C., prosegue l’anomalia di un meccanismo che dovrebbe creare occupazione aumentando, di fatto, l’orario di lavoro.

Lo scarto tra i diritti perduti nel 2012 e le poche e parziali “riconquiste” di questa tornata è troppo ampio, a nostro avviso, per poter approvare l’accordo. Troppe le questioni aperte che il contratto avrebbe dovuto affrontare e restano invece irrisolte.

Invitiamo lavoratori e lavoratrici ad uno sforzo straordinario per approfondire gli argomenti toccati dal rinnovo contrattuale, a partecipare alle assemblee con la necessaria preparazione e discutere a fondo di tematiche che toccano il vissuto quotidiano di ciascuno, che sappiamo essere tutt’altro che facile.

E’ più che mai necessaria una svolta decisa e la costruzione di un forte sindacalismo di base, per una reale alternativa sindacale, che cambi in profondità le attuali condizioni lavorative.

CUB-SALLCA

LEGGI E DIFFONDI IL NOSTRO VOLANTINO !!!

VERSIONE A4

VERSIONE A3

FERMARE IL TAV E NON CHI LO COMBATTE

 

La sera del 30 dicembre i carabinieri hanno arrestato e tradotto in carcere NICOLETTA DOSIO, storica militante NO TAV di Bussoleno, 73 anni, già insegnante di greco e latino.

La magistratura torinese aveva infatti revocato la sospensione della pena per una condanna relativa a fatti del 2012 (un blocco stradale reo di aver causato un danno da 700 euro alla società autostradale).

In tutta Italia sono state indette immediatamente iniziative di protesta, presidi e cortei, cui la CUB ha dato la propria adesione con il volantino che alleghiamo.

Colpire una militante storica del movimento ha un evidente significato simbolico, per intimidire e minacciare chiunque intenda difendere il territorio ed opporsi all’utilizzo di fondi enormi per opere inutili, al servizio di interessi particolari e spesso inconfessabili.

Non è inutile ricordare come la decisione di procedere alla costruzione del TAV, contro la volontà delle popolazioni locali, rientri negli accordi tra organizzazioni criminali ed esponenti politici, come hanno di recente appurato le inchieste della stessa magistratura torinese che hanno portato ad una vasta operazione di polizia con l’arresto dell’assessore regionale Roberto Rosso. Questa inchiesta è solo la punta dell’iceberg di schieramenti molto nutriti e corposi.

Parafrasando Marco Revelli, possiamo affermare che “Non tutti i SI TAV sono mafiosi, ma certo tutti i mafiosi sono SI TAV”.

Mobilitarsi per Nicoletta significa quindi riaprire un dibattito vero sull’opportunità di portare a termine un’opera devastante e controversa, anti-economica, progettata su analisi di 30 anni fa, inadeguata ai bisogni attuali di mobilità e di trasporto delle persone e delle merci.

Difendere le lotte e chi le pratica significa riaprire la discussione politica sull’utilizzo delle risorse pubbliche e sul modello produttivo e logistico.

Nicoletta libera subito!

 

Per sostenere le spese legali e le iniziative del movimento NO TAV è possibile sottoscrivere su

Conto Bancoposta IBAN IT22 LO76 0101 0000 0100 4906 838
Intestato a DAVY PIETRO e CEBRARI MARIA CHIARA

 

IN ALLEGATO IL VOLANTINO DELLA CUB PIEMONTE 

CUB-SALLCA

 

FIRMATA L’IPOTESI DI ACCORDO PER IL RINNOVO DEL CCNL BANCARI

IL COMUNICATO DELLA SEGRETERIA NAZIONALE DELLA CUB-SALLCA

 

E’ stata firmata in data odierna l’ipotesi d’accordo per il rinnovo del contratto dei bancari.

Il testo andrà analizzato in modo approfondito, ma un commento a caldo si impone, data anche la solita roboante girandola di giudizi esaltanti e sproloqui retorici che in queste occasioni si sprecano. Pochi punti danno il senso dell’operazione di rinnovo:

1) l’aumento medio a regime di 190 euro mensili è scaglionato in tre anni, a partire dal 1/1/2020;

2) non c’è alcun recupero per l’intero 2019;

3) il contratto slitta di un anno, fino al 31/12/2022;

4) non viene ripristinata la base di calcolo per il TFR, che secondo gli stessi conteggi dei sindacati, da solo fa risparmiare alle aziende 690 euro medi a dipendente all’anno;

5) non ci sono novità certe per quanto riguarda il ripristino dell’art. 18 sulla norma relativa ai licenziamenti;

6) l’abbattimento della riduzione per il salario d’ingresso degli assunti già in servizio grava sul Fondo per l’Occupazione, cioè in fin dei conti sui contributi versati dai lavoratori con maggior tempo lavorato.

 

Detto questo per correttezza di informazione, vanno riconosciuti e valorizzati quei punti normativi che rappresentano oggettivi passi in avanti per la difesa degli interessi non solo economici dei lavoratori. Un giudizio complessivo affrettato non potrebbe che basarsi su ragionamenti sommari, mentre invece merita di prendere le mosse da un’attenta lettura dell’articolato contrattuale, che potrà avvenire con tempi adeguati, visto che le assemblee partiranno solo tra qualche settimana.

BANCHE: LA MAPPA DELLE CRISI ED IL CASO UNICREDIT

 

Il sistema bancario italiano continua ad essere investito da crisi cicliche che ne mettono a dura prova stabilità ed equilibrio. Mentre a livello nazionale si chiude il rinnovo del contratto, scaduto da un anno, con modalità che definire opache è un eufemismo, continuano a riproporsi crisi e vicende aziendali caratterizzate da forti difficoltà.

Il caso Carige sembra avviarsi verso una possibile soluzione, dopo l’assemblea dei soci di settembre, l’accordo sindacale da 1.200 esodi di novembre ed il recente aumento di capitale da 800 milioni di euro, che ha aperto la strada al ritorno delle contrattazioni in borsa ed il passaggio alla nuova gestione della Cassa Centrale Banca e del Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi.

Un’altra vicenda drammatica è quella della Banca Popolare di Bari, che è stata commissariata da Banca d’Italia il 13 dicembre, con l’esigenza di ricapitalizzare per almeno un miliardo di euro, con il prevedibile concorso di Mediocredito Centrale e (nuovamente) del Fondo Interbancario. Un caso che è subito diventato anche un caso politico, perchè richiama in causa la questione dei salvataggi bancari, così come sono stati attuati in Italia dopo l’introduzione del bail-in e poi con la nazionalizzazione del Monte Paschi, la rottamazione delle banche venete a cura di Intesa Sanpaolo e per ultima la soluzione già citata del caso Carige, con un forte intervento statale.

La varietà dei governi non ha impedito l’adozione di provvedimenti simili, se non addirittura copiati, in mezzo a polemiche accese e spesso strumentali, che non hanno portato alcun elemento di chiarezza rispetto al ruolo pubblico nella gestione delle banche “fallite”: la nazionalizzazione MPS è restata alla fine la classica socializzazione delle perdite, mentre le banche “private” che sono intervenute per rilevare le banche decotte hanno incassato lauti contributi statali, presto trasformati in distribuzione di dividendi agli azionisti.

Ora siamo però, con il caso Unicredit, ad un punto di svolta che impone serie riflessioni sul futuro del “business” bancario e le annesse conseguenze sul lavoro impiegato nel settore. Con la presentazione del piano industriale 2020-2023 la banca ha gettato la maschera, confermando sostanzialmente le voci che correvano sin dall’estate scorsa: 8.000 esuberi, di cui 5.500 in Italia, e chiusura di 500 filiali di cui 450 in Italia.

Non si tratta, come negli altri casi citati, di un’azienda in crisi: nei primi nove mesi del 2019 la banca ha fatto 3.3 miliardi di euro di utile. Non si tratta di una banchetta locale investita da eventi imprevisti: parliamo di un colosso presente in 17 paesi, con 84.600 dipendenti e 4.500 filiali, che produce i suoi ricavi per il 47% in Italia, per il 21% in Germania, per il 10% in Austria e per il 22% nell’Europa dell’Est. E’ un’azienda che sin dai tempi di Alessandro Profumo ha basato la sua strategia su un modello di espansione paneuropea, realizzata con previsioni sbagliate, aspettative deluse, errori gestionali gravi.

L’esplosione della crisi finanziaria del 2008 ha fatto giustizia di progetti poco ponderati e costretto tutte le banche a fare i conti con la realtà. Unicredit ha dovuto dare corso ad aumenti di capitale corposi (l’ultimo, nel 2017, da ben 13 miliardi di euro) e nello stesso tempo battere in ritirata, vendendo tutti i migliori gioielli di famiglia (BankPekao, Fineco, Pioneer, Mediobanca) ed uscire dalle zone disastrate (Ucraina, Turchia).

Non resta molto su cui fare affidamento, le previsioni sul contesto economico sono molto conservative e prudenti (oseremmo dire realistiche). Nel nuovo piano Team 23 i tassi vengono visti molto bassi (Euribor – 0,50% fino al 2022 e poi – 0,40% nel 2023) e questo per una banca è un problema serio. Anche le altre componenti di ricavo (le commissioni sul gestito, le negoziazioni in proprio) vengono viste in stallo o addirittura in calo. Come si fa allora a garantire agli azionisti un adeguato ritorno sul capitale investito, se non c’è neanche più la possibilità o la convenienza di ulteriori fusioni e quindi nuove economie di scala?

Restano com’è ovvio soltanto i tagli lineari al personale e la chiusura degli sportelli! Tagliare sui costi per difendere gli utili, questo diventa il mantra di Unicredit per i prossimi 4 anni…

Certo non si tratta di una vera e propria novità: dal 2007 ad oggi la banca ha già fatto a meno di 22.000 addetti e si è liberata di altri 3.000 con cessioni ed esternalizzazioni. Tuttavia non sfugge a nessuno il salto di qualità, nell’adottare un piano che esplicitamente si propone di tutelare solo gli interessi degli azionisti e rompe con la retorica dominante che di solito parla in difesa di tutti gli “stake-holders”.

Obiettivo dichiarato è infatti quello di generare 16 miliardi di euro di nuovo capitale e distribuirne metà ai soci (6 miliardi tramite dividendi cash e 2 miliardi tramite buy-back delle azioni), mentre l’altra metà andrebbe al rafforzamento patrimoniale per soddisfare i requisiti regolamentari.

Un miliardo di euro dovrebbe provenire dal taglio del personale, con oneri di ristrutturazione che per la gran parte sarebbero concentrati in Italia e spesati già nel 2020.

Il costo del personale subirebbe in questo modo un vero e proprio tracollo: il totale degli stipendi pagati passerebbe da 6.423 milioni del 2018 ai 5.844 del 2023, mentre invece il rapporto costi/ricavi risulterebbe in calo di oltre tre punti già alla fine del 2021, scendendo dal 58,5% al 55,1%. Un bel caso di contenimento dei costi sulla pelle dei lavoratori…

Per gli azionisti invece si profilerebbe un bell’incremento di redditività, perché il dividendo distribuito per azione passerebbe da 0,27 euro del 2018 a 0,94 nel 2023, con una stabilizzazione del tasso di rendimento del capitale quantificabile nel 6,6% annuo. Non stupisce quindi che gli analisti e i gestori di fondi abbiano valutato molto positivamente il piano Team 23, dandogli un titolo adeguato: “da un comune caso di ristrutturazione si passa ad una storia molto attraente di distribuzione di capitale”.

I sindacati del settore hanno definito “irricevibile” il piano Unicredit e persino Landini, il segretario generale della CGIL, ha invitato l’azienda a “rivedere” il suo piano. Anche la politica ha alzato i toni, sollevando critiche alla gestione del CEO francese (ex-parà) Jean Pierre Mustier, arrivando anche a ipotizzare un disimpegno dall’Italia in vista di una fusione paneuropea che invece Unicredit ha escluso.

Intanto esistono ragionevoli dubbi che la massa di esuberi dichiarati possa essere gestita con il normale ricorso al Fondo di settore, vista la mole degli sfoltimenti già realizzata nel recente passato con il coinvolgimento “volontario” di tutti i colleghi che avevano i requisiti anagrafici e previdenziali per poter accedere al Fondo.

Ma anche se così fosse e quindi nessuno fosse costretto a farsi male, resta la questione della legittimità a tagliare l’organico per un’azienda che realizza ingenti profitti e che non mette sul piatto alcuna assunzione compensativa rispetto ad un piano draconiano.

Perché i sindacati non provano a ricostruire la mappa degli organici, analizzando filiale per filiale, ufficio per ufficio, per ogni posto di lavoro che si vuole sopprimere, la reale necessità di personale per fornire un servizio adeguato e lavorare in condizioni dignitose?

Non sarebbe opportuno contrattare un rapporto fisso tra “esuberi” e nuove assunzioni, anziché accettare la posizione della controparte che unilateralmente decide quanti posti distruggere?

Se ci sono nel nostro Paese 160 tavoli di crisi aperti, con il rischio di perdere centinaia di migliaia di posti di lavoro, legati in qualche modo a crisi aziendali “oggettive”, perché dovremmo permettere una riduzione di organico ed il conseguente calo della base occupazionale, solo perché Unicredit vuole incrementare i profitti per gli azionisti? Non sarebbe il caso di farne una questione di principio e provare ad opporsi, resistere, difendersi?

Una lotta dura può anche diventare una sconfitta, ma chi non lotta ha già perso in partenza…

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Credito e Assicurazioni

SUI PRESUNTI ESUBERI IN UNICREDIT

 

La sparata di Unicredit relativa a 8.000 esuberi in tutto il gruppo (6.000 in Italia) non costituisce, purtroppo, una sorpresa.

A fine luglio avevamo inviato un commento su quella che, allora, era stata presentata come una “fuga di notizie” e avevamo osservato come tale notizia ufficiosa fosse uscita mentre si avviavano le trattative del ccnl. Ora giunge la notizia ufficiale proprio quando il ccnl sembrerebbe arrivare ad una stretta finale (di nuovo un caso?).

Quello che si può dire è che i pesanti carichi di lavoro nelle filiali e negli uffici di Unicredit smentiscono l’esigenza di ridurre così drasticamente gli organici.

Se si accetta il parametro in base al quale per aumentare i profitti si possono decidere a tavolino tagli lineari del personale, allora non ci sono più limiti.

Da troppo tempo, non solo in Unicredit, i sindacati firmatari accettano uscite massicce di lavoratori, chiedendo in cambio quantità limitate di nuove assunzioni, aggravando sempre più le condizioni di lavoro e facendo crescere la “voglia di fuga” di chi potrà accedere all’esodo successivo.

Decisamente Unicredit ha superato il segno e vedremo se i proclami bellicosi dei sindacati firmatutto avranno un seguito.

La vicenda, a nostro avviso, non può essere gestita solo a livello aziendale, ma va mobilitata tutta la categoria. E’ ora di far capire ai signori banchieri che si deve partire da condizioni dignitose di lavoro e non dall’esigenza di aumentare i profitti senza curarsi delle conseguenze.

CREDIT AGRICOLE: IL GIOCO DELLE TRE CARTE NEL PIANO A MEDIO TERMINE 2019-22

La situazione della rete filiali è oggetto di numerosi comunicati anche dei sindacati firmatutto.

Alla base dei problemi vi è la carenza cronica di organico e le continue sollecitazioni ai risultati commerciali.

E’ necessario contrastare alcuni fenomeni, non abituandosi a certi comportamenti che sono al di fuori delle regole e delle norme contrattuali. Ci sono alcuni punti fermi da cui non si deve venire meno se non si vuole essere travolti.

Partiamo dall’ultima trovata di chiudere il servizio di cassa pomeridiano in oltre 500 filiali.

Come evidenziato anche nei comunicati degli altri sindacati, il tempo per chiudere lo sportello  e quadrare i bancomat  è troppo poco.

In prima battuta l’orario di chiusura delle casse va rispettato, cioè non devono più esservi clienti oltre l’orario di sportello, o impedendo preventivamente il flusso se eccessivo o avvisando i clienti che all’orario stabilito la cassa chiuderà e chi è in attesa non verrà servito.

Anche così i tempi di quadratura del bancomat restano stretti. Quando il tempo non è sufficiente non si deve rinunciare a fruire dell’intera pausa pranzo. Se le operazioni non vengono completate per tempo vanno lasciate in sospeso, l’azienda trovi la soluzione, magari consentendo la possibilità di accedere ai valori nel pomeriggio.

Ricordiamo che i bancomat vanno sempre quadrati in contradditorio con due colleghi.

 Il vero problema è la verifica dei valori in caso di mancata quadratura, verifica piuttosto problematica se i valori sono già chiusi.

In questo caso l’unica soluzione è che il giorno dopo non si apra cassa prima di aver fatto le verifiche necessarie. Lo stesso vale per il passaggio di consegne e la presa in carico di valori, i quali vanno sempre controllati preventivamente.

Giova ricordare che questa azienda non si crea problemi a chiudere le casse per i clienti, dovremmo farcene noi quando questo è necessario?

In tutto questo bailamme va ricordata la centralità della formazione. Nessuno si metta a fare lavori che non conosce, si deve pretendere di ricevere le conoscenze necessarie!

Va anche ricordato che la formazione è un obbligo in capo all’azienda: è lei che deve mettere il lavoratore in grado di fruirla, in orario di lavoro e in condizioni ottimali (cioè senza continue interruzioni di clienti e colleghi).

 

CUB-SALLCA – Federazione di Torino

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quindi non va fatta nei ritagli di tempo o, peggio, fuori orario, va fruita correttamente e per intero, in orario di lavoro.

Torniamo anche a ribadire alcuni concetti relativi alle pressioni commerciali. Noi siamo dipendenti pagati per la prestazione e non per i risultati. Questo significa che dobbiamo certamente fare proposte commerciali ai clienti, ma non siamo obbligati a portarle a buon fine e, soprattutto, dobbiamo sempre dare spiegazioni chiare e complete dei prodotti che proponiamo.

Qualsiasi richiesta che vada oltre quanto riportato è illegittima!!

Ricordiamo anche che il cellulare fornito dall’azienda, al di fuori dell’orario di lavoro, può essere tranquillamente spento: nessuno di noi ha la reperibilità, tanto meno riceve un’indennità in tal senso.

Per finire, l’invito è di lavorare rispettando le regole e cercando di limitare il più possibile gli straordinari ma, quando proprio ci si deve fermare oltre l’orario, va preteso sempre che venga riconosciuta la prestazione

 

 

 

 

 

CARIGE: SULL’ACCORDO DEL 20 NOVEMBRE

Dopo il commissariamento da parte della BCE a inizio anno, il salvataggio da parte del Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi e l’assemblea di settembre che ha approvato l’ingresso come nuovo socio di riferimento di Cassa Centrale Banca, è pronto a partire l’aumento di capitale da 900 milioni di euro per mettere definitivamente in sicurezza CARIGE.

Prima però di metterci i soldi, i nuovi soci vogliono garanzie sulla ripresa di redditività e sul ritorno degli investimenti. E’ l’ora di tagliare i costi in modo strutturale e si parte sempre dai lavoratori, come già è stato in questi sette anni di disgrazie e tribolazioni. L’accordo siglato in data 20.11.2019 taglia altri 680 posti di lavoro e ricalca le orme di altri casi simili, chiudendo decine di filiali. Come sempre accade in queste situazioni, i lavoratori con i requisiti si precipitano “volontariamente” verso l’esodo, mentre la sorte che attende i lavoratori che restano è tutt’altro che invidiabile.

I nuovi padroni chiederanno risultati strabilianti per recuperare il capitale investito e le pressioni sui dipendenti saliranno ulteriormente: vietato lamentarsi perché già si deve essere contenti per aver salvato il posto di lavoro!

Alleghiamo un commento all’accordo scritto da chi lavora in Carige e una scheda tecnica di sintesi che può essere utile ai lavoratori che hanno diritto all’uscita. Invitiamo comunque gli interessati a leggere attentamente l’accordo nei dettagli e contattarci in caso di necessità.

CUB-SALLCA Gruppo Carige

INTESA SANPAOLO: E ORA VENGONO CEDUTI ANCHE I LAVORATORI DEL MONTE PEGNI, CHI SARANNO I PROSSIMI?

In Intesa Sanpaolo c’è molta retorica sul senso di appartenenza e sulla valorizzazione delle risorse umane, ma la storia del nuovo Gruppo è sempre stata costellata, fin dalla sua nascita, dalla cessione di centinaia di lavoratori.

Per ricordare i casi più noti, si è cominciato nel 2007 e 2008 con le cessioni delle filiali a seguito della fusione tra Intesa e Sanpaolo e dell’intervento dell’autorità antitrust. Poi è stata la volta di Banca Depositaria nel 2010. Poi nel 2018 è toccato al Recupero Crediti e arriviamo ai giorni attuali con Banca 5 e, mentre ancora le trattative per la cessione di quest’ultima a Sisal sono in corso, lunedì 18 novembre è arrivata la notizia della cessione delle filiali del Monte Pegni, dove i lavoratori hanno appreso la notizia direttamente a mezzo stampa.

Tutte queste cessioni hanno coinvolto le attività, ma anche i lavoratori che le svolgevano.

Anche quando il contratto del credito è stato mantenuto, non sono mancati i problemi ogni qualvolta le aziende acquirenti hanno manifestato difficoltà (si pensi a Carige, Pop. Bari, fino alla Veneto Banca rientrata nel Gruppo dopo le note vicende delle ex banche venete) o quando alcune garanzie vengono a scadere.

Alla luce di queste considerazioni e della sgradevole sensazione, che deriva da queste vicende, di essere considerati come merce che può essere comprata e venduta, riteniamo che le trattative debbano sempre partire dal “diritto d’opzione”, cioè dalla possibilità per il lavoratore coinvolto di scegliere di non essere ceduto, ma di poter continuare il vecchio lavoro per il nuovo acquirente attraverso il “distacco”.

Si tratta di una richiesta del tutto ragionevole perché consente la continuità operativa e, nel momento in cui il distacco dovesse cessare, sfidiamo Intesa Sanpaolo a sostenere che nella rete filiali non ci sia posto per poche decine di lavoratori.

Era una richiesta già avanzata dai sindacati firmatutto in occasione della trattativa per il Recupero Crediti e lasciata cadere troppo in fretta.

Torneremo in un secondo momento ad analizzare il significato di questa operazione e le caratteristiche dell’acquirente. Nel frattempo, riteniamo che i lavoratori di tutto il Gruppo debbano far sentire la loro solidarietà ai colleghi di Banca 5 e del Monte Pegni. Nessuno pensi che a lui non toccherà mai l’esperienza di essere oggetto di cessione, il prossimo potresti proprio essere tu!

 

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Intesa Sanpaolo