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DA CUB SALLCA
A ISCRITTE/I DI BANCHE E ASSICURAZIONI
Si è svolto il 27 ottobre lo sciopero generale dei sindacati di base, di cui diamo conto nel volantino allegato. Ringraziamo tutti coloro che hanno partecipato, provocando chiusure parziali o totali di punti operativi. E’ stata una bella giornata di lotta, nonostante i tentativi (alcuni ridicoli, altri dannosi) che in vario modo hanno cercato di ostacolarne la riuscita. Nelle banche non sono mancati i responsabili aziendali che hanno tentato di mettere in dubbio la legittimità dello sciopero. Ricordiamo ancora una volta che lo sciopero è un diritto dei lavoratori, che può essere esercitato da tutti e non solo dagli iscritti alle organizzazioni che l’hanno indetto; che viene preavvisato sempre a nostra cura con il rispetto delle previsioni di legge e degli accordi di settore; che è compito delle aziende esporre il preavviso al pubblico con congruo anticipo.
Passando a cose più serie, è stata grave la decisione del Ministro Graziano Delrio, che ha ridotto d’autorità la durata dello sciopero nel settore trasporti da 24 ore a sole 4 ore. Ancora una volta è stato violato il diritto di sciopero, ricorrendo ad una forzatura giuridica.
Altri due fatti gravi e importanti si erano verificati nei giorni precedenti: la Corte Costituzionale aveva rigettato i ricorsi legali dei pensionati per i mancati adeguamenti al costo della vita, stabilendo il principio che i vincoli di bilancio (definiti da lor signori) vengono prima dei diritti.
Inoltre l’Istat, nel pieno del dibattito sull’età per il pensionamento, aveva fatto il “miracolo” di riallungare la vita degli italiani, dopo che, due anni fa, il rapporto di Osservasalute aveva rilevato, per la prima volta, una riduzione della speranza di vita.
Tutto si tiene quando si tratta di prolungare le politiche d’austerità che continuano a prostrare l’economia e la società. Ne abbiamo parlato nel convegno del 6 ottobre su “Euro e banche” di cui è possibileoraconsultare i video:
Questa volta non c’è stato alcun bisogno di formidabili pressioni per raggiungere sfidanti obiettivi. La nuova offerta di Intesa Sanpaolo, denominata ESODO, ha avuto un successo incredibile: circa 6.500 adesioni su una platea di poco più di 8.000 potenziali clienti (lavoratori). Se ne vogliono andare tutte/i. Dal nord al sud, dalla rete alle sedi, dai sindacalisti “duri e puri” agli incalliti carrieristi. Cassieri e gestori ma anche direttori, capi e capetti; persino i più canuti protagonisti dei video-trash e delle convention karaoke. Una fuga di massa.
Alcuni anni fa (nemmeno troppi per la verità) si diceva che far andare via i “vecchi” bancari senza convincenti incentivi era pressoché impossibile. Naturalmente poi c’è stata la Fornero (con lo spauracchio dei 67 anni per tutti) e ci sono state le sempre più frequenti crisi aziendali (ed i concreti rischi di licenziamenti). Ciò nonostante fa impressione che nella solidissima prima banca del paese abbia un simile riscontro il primo piano di prepensionamenti a condizioni assolutamente standard.
Ma la nostra Banca non era il luogo dove si faceva la storia, dove ci si cullava nell’ambizione di essere il più bel posto dove lavorare, per le cui iniziative sociali ci si poteva commuovere in pubblico, dove l’attenzione alle persone era massima in quanto ricchezza del gruppo per l’oggi e per il domani? Forse sarebbe il caso di fermarsi un attimo a riflettere sulle figuracce che si inanellano, una dopo l’altra, quando si fa un uso così smodato di vuoti slogan retorici che nulla hanno a che vedere con la realtà. Che poi presenta il conto.
Sappiamo benissimo che dietro affermazioni del tipo “cercheremo comunque di accontentare chiunque voglia andarsene” c’è sempre stata la ben più prosaica intenzione di utilizzare subito e fino all’ultimo euro il tesoretto di fondi pubblici con i quali viene scandalosamente finanziata l’intera operazione. E che questo vuol dire che saranno ben più di tremila le uscite programmate nel perimetro Intesa Sanpaolo (piano industriale compreso, se serve).
E tuttavia, di fronte ai numeri che oggi sono sul tavolo, cresce l’imbarazzo e la preoccupazione sul come potrà essere gestito il processo e su quali conseguenze avrà su motivazioni, produttività, livelli di competenze professionali e, alla fine, risultati commerciali della truppa.
Il tutto, ovviamente, complicato in misura esponenziale dalla contestuale (e non semplice) integrazione delle banche venete. Ma si sa, l’unica sciocca strategia che questa dirigenza sembra conoscere di fronte al cambiamento (sia esso di un sito internet, delle procedure di filiale o del posto di lavoro e delle mansioni di migliaia di colleghi) è quella che prevede il rispetto messianico di date incautamente fissate a tavolino con lo scarico postumo dei mille disservizi provocati su lavoratori e clientela (lontano dalle luci del palcoscenico). Insomma, fretta ed approssimazione a scapito della qualità.
Quanto capiamo chi va via! Quanto lavoro abbiamo da fare al fianco di chi resta!
C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Gruppo Intesa Sanpaolo
L’accordo raggiunto rispetto all’aggiornamento del piano industriale UBI 2019/2020 non ha portato, per ora, sorprese troppo sgradevoli per i lavoratori delle tre cosiddette ‘’Bridge Bank’’.
In attesa dell’armonizzazione degli accordi aziendali, gli esuberi dichiarati verranno gestiti con l’uso del Fondo di Solidarietà su base volontaria, sebbene senza l’integrazione aziendale per garantire che l’assegno, durante la permanenza nel Fondo, non scenda sotto l’80%.
Sono stati fissati limiti alla mobilità territoriale ed evitati processi di esternalizzazione.
L’azienda si impegna all’assunzione di 132 risorse entro il 31/12/18, peraltro in un contesto di 3.000 uscite totali nel gruppo.
Nell’insieme, però, non ci sono idee brillanti per aumentare la redditività (comunque soddisfacente se il CEO Massiah ha così commentato i risultati dell’ultima semestrale: “ottimo semestre, abbiamo triplicato il risultato’’) che non siano i soliti tagli e riduzioni dei costi, sebbene, al momento, su base volontaria.
Viene riconfermata quella forma di cassa integrazione volontaria che va sotto il nome di ‘’social day’’ (periodi di congedo, a giornate o mesi, retribuite al 40%, per almeno 160.000 giornate).
Una novità è il Piano d’incentivazione individuale, che consente, a chi ha maturato almeno 10 anni di anzianità, di risolvere consensualmente il rapporto di lavoro ottenendo da 20 a 30 mensilità, in base al reddito.
Altra novità, in controtendenza rispetto alle elargizioni illustrate per non lavorare, è la penalizzazione per chi vuole lavorare a tutti i costi: chi maturerà il diritto alla pensione dovrà fruire obbligatoriamente dalle 10 alle 25 giornate (in base al reddito) di giornate di congedo non retribuito. Se non ci siamo distratti, è la prima volta che si assiste ad una misura del genere, almeno nei grandi gruppi bancari.
In questa cornice, il dato veramente negativo è l’imposizione di un limite agli straordinari, i quali, di norma, non potranno superare la quota dell’anno precedente.
In questo caso l’ipocrisia la fa da padrona. Constatiamo giornalmente che molti colleghi si fermano oltre l’orario previsto senza corresponsione del sacrosanto diritto allo straordinario. E’ il segreto di pulcinella, la banca lo sa e i sindacati firmatari lo sanno, ma, invece che denunciare una situazione di aperta illegalità, chiudono gli occhi e firmano tutto.
Noi siamo perché le ore straordinarie siano un’eccezione ma, se vengono svolte, devono essere pagate!! Mascherare il reale numero di ore di straordinario, mentre si contrattano gli esuberi dichiarati dall’azienda, non ci pare degno di un sindacato serio.
Forse l’utilizzo dei social day e le adesioni al fondo di solidarietà senza più incentivi sono il miglior termometro di condizioni lavorative sempre peggiori e da cui i lavoratori cercano di fuggire.
In definitiva, non vediamo la grande vittoria decantata nei comunicati dei firmatari: le trattative avvengono in assenza di una piattaforma sindacale per concordare gli obiettivi da raggiungere, quindi senza nessun mandato per trattare. Le trattative sono sempre durissime ed estenuanti, ma senza un’ora di sciopero non si capisce come la controparte venga indotta a presunti arretramenti, forse la prendono per stanchezza….
Ora pare verranno convocate le assemblee per illustrare i punti dell’accordo e per spiegare il nuovo modello organizzativo che la banca ha intenzione di attuare entro il prossimo 4 dicembre, ma sarà una pura formalità.
Una volta almeno potevamo votare ora possiamo solo ascoltare e subire passivamente!! Dobbiamo cominciare a dare forza ad un sindacato vero, fatto dai lavoratori per i lavoratori. Noi ci siamo, aspettiamo rinforzi!!!
C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Gruppo UBI
Molti lavoratori hanno letto con stupore il comunicato dei sindacati firmatari a commento dell’accordo sugli esodi: “solo il senso di responsabilità del Sindacato e il rispetto verso tanti colleghi e colleghe interessate da questo provvedimento ha permesso di raggiungere questo obiettivo. Infatti, è di qualche giorno fa la notizia del provvedimento di licenziamento – con effetto immediato – di due colleghi di Intesa Sanpaolo Casa”.
La vicenda di questa tornata di esodi è nota: il governo ha appaltato il salvataggio delle banche ex venete a Intesa Sanpaolo, conferendo tutte le attività per la cifra simbolica di un euro e finanziando, con soldi pubblici, 4.000 uscite (di cui 1000 delle banche ex venete) con Fondo di Solidarietà. Il tutto con l’intimazione della banca al Parlamento a votare il decreto senza modificare una virgola, pena il venir meno dell’operazione.
La trattativa sindacale non era, quindi, particolarmente complicata, ma, per dimostrare di esistere, i sindacati al tavolo hanno rivendicato come conquista l’allargamento della platea di chi poteva accedere all’esodo, consentendone l’adesione anche a chi maturerà il diritto alla pensione entro il 31 dicembre 2023 (un anno in più). Alcuni lavoratori ci hanno fatto notare che, un tempo, erano le aziende a premere per gli esodi, ma nella nostra categoria succedono cose originali.
Ad esempio, in genere, per aumentare l’occupazione si riduce l’orario, noi invece lo aumentiamo: il Fondo per l’Occupazione, come noto, è alimentato dal conferimento di una giornata di banca ore/ex festività, quindi si finisce per lavorare di più.
Nel caso dell’esodo, i sindacati al tavolo hanno pensato bene di dare rappresentanza al diffuso desiderio di fuga presente in categoria, trovando, da parte aziendale, le porte non aperte, ma spalancate. Ribadiamo che i sindacati firmatutto dovrebbero interrogarsi sulla bontà della loro contrattazione, in presenza di lavoratori che non vedono l’ora di andarsene.
Magari, trattando sugli esodi, non sarebbe male chiedere spiegazioni e risolvere lo scandalo delle numerose ore di lavoro supplementare non compensato e giustificato con la causale NRI.
Venendo alla vicenda di Intesa Sanpaolo Casa, purtroppo non possiamo sorprenderci troppo. Da tempo, anche in questa azienda del Gruppo, le pressioni per raggiungere i risultati sono aumentate in modo vertiginoso, con tutto il corollario di riunioni e messaggi (anche scritti) in cui l’arroganza e la maleducazione di alcuni responsabili hanno rotto ogni freno inibitore.
Dopo tante chiacchiere, la situazione di Intesa Sanpaolo Casa si mostra in tutta la sua cruda realtà: ai nostri colleghi viene chiesto di dare sempre di più, con orari più lunghi (40 ore settimanali, quando bastano), paghe più basse ed il miraggio di incentivi legati ad obiettivi irraggiungibili. Tanto, se la carota non funziona, si puòagevolmente maneggiare il bastone del job’s act. Infatti le assunzioni in Intesa Sanpaolo Casa sono avvenute sfruttando la legge del governo Renzi e se qualcuno aveva dubbi su come funzionasse il “contratto a tutele crescenti”, adesso avrà tutto più chiaro.
Resta l’amarezza per un’azienda che si era appena vantata di non aver usato lo strumento dei licenziamenti per gestire la vicenda delle ex banche venete. Si chiarisce peraltro come i nostri top manager intendano i rapporti con lo stato: se arrivano finanziamenti si attivano strumenti morbidi per gestire le eccedenze di personale, se la legge consente di avere mano libera non si esita ad usare lo strumento concesso dal governo.
L’insieme di questi fatti conferma la validità della piattaforma per lo sciopero generale del 27 ottobre: dobbiamo riconquistare diritti, dobbiamo rivendicare politiche generali del tutto diverse, bisogna arginare la dilagante arroganza delle aziende.
C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Gruppo Intesa Sanpaolo
Lo sciopero generale indetto per venerdì 27 ottobre da molte Organizzazioni Sindacali di Base, tra cui la C.U.B., riveste una particolare importanza per tutto il mondo del lavoro in Italia. Vuole essere una giornata di lotta che riporta in campo il conflitto, che non è uno strumento del passato, obsoleto ed inefficace, ma l’unico modo che abbiamo per difendere e far valere i nostri interessi. Vogliono farci credere che lottare sia inutile, che dobbiamo rassegnarci all’insicurezza, alla paura, alla precarietà, alle decisioni altrui, al dispotismo delle aziende, alla subalternità dei sindacati collaborativi, alla mancanza di democrazia sindacale, alle leggi che reprimono gli scioperi, all’assenza di alternative.
Invece scioperando noi diciamo che vogliamo un futuro diverso, stipendi più alti, pensioni decenti, vite lavorative più brevi, contratti di lavoro più stabili, orari ridotti, modelli di sviluppo espansivi e sostenibili. Anche in banca è ora di dire basta e chiedere una svolta: ritornare ad assumere e sostituire gli esodati (senza i contratti “ibridi”); eliminare le pressioni commerciali; alzare gli stipendi, in particolare del personale più giovane; ripristinare livelli di servizio adeguati, riprendere a fare credito all’economia reale, che non è certo mettere un camper sportello nelle zone terremotate (questa è solo pubblicità).
Impegnarsi tutti per una buona riuscita dello sciopero significa anche ribadire il ruolo centrale che devono avere gli interessi dei lavoratori in un settore investito dalla crisi, che dovrà affrontare a breve un CCNL delicato e impegnativo. Alleghiamo il nostro volantino che espone in modo analitico le ragioni dello sciopero.
Se la realtà fosse costituita dalle parole, i dipendenti del Monte dei Paschi di Siena non avrebbero eguali tra tutti i lavoratori, in termini di considerazione da parte dei vertici aziendali. A loro è stato più volte riconosciuto il grande merito di avere permesso alla banca di navigare nei mari tempestosi che conosciamo.
Ma la realtà, purtroppo, ha il brutto vizio di non riuscire ad adeguarsi al vestito che le parole le cuciono addosso. Per quanto il miglior sarto si prodighi nell’occultarne le vere forme, queste rimangono tali.
E’ così che, dagli strappi di quel vestito fatto di parole piene di gratitudine, encomio, riconoscimento, è fuoriuscito un vecchio e nodoso bastone.
Una prima cucitura è saltata con la proposta di introdurre, in via sperimentale, l’utilizzo del badge. I passaggi registrati non saranno solo ad inizio e fine giornata. Ma anche quelli intermedi.
Quei lavoratori che nell’eloquio aziendale sono quasi degli eroi, vanno controllati nei loro movimenti, minuto per minuto. Perché? I sindacati firmatari, che potrebbero essere interessati a porre questo quesito, non sono dello stesso avviso, evidentemente.
Una seconda cucitura si è lacerata attraverso le modalità utilizzate per “convincere” i colleghi ad aderire all’esodo volontario. E’ stata adottata la forma più raffinata delle relazioni aziendali: la minaccia. A chi lasciava intendere una mancata adesione, è stato prospettato un trasferimento in luoghi disagiati e logisticamente difficili da raggiungere.
Anni infernali, quelli vissuti dai lavoratori del Monte dei Paschi, che hanno lasciato, in molti di loro, segni profondi. Esaurimenti o vere e proprie depressioni, vissute spesso in silenzio.
Assume quindi un valore beffardo l’invio di lettere di revoca della franchigia relativa alla presentazione di certificato medico per i primi tre giorni di malattia. Il comunicato unitario dei sindacati firmatari, pur evidenziando l’odiosità di una misura che colpisce, nella quasi totalità, dipendenti che rientrano al lavoro prima del previsto per senso di responsabilità, non va oltre la blanda richiesta di aumentare il periodo di riferimento del monitoraggio a due anni, senza nemmeno provare ad argomentare che la regola della franchigia non ha impedito lo sviluppo della banca e che nessun nesso, a meno che non si voglia mistificare completamente la realtà, è mai esistito tra questioni attinenti la quantità e la qualità del lavoro dei dipendenti del Monte dei Paschi e le sabbie mobili in cui esso si è impantanato. Dunque perché, adesso, divengono centrali aspetti concernenti il controllo della forza lavoro?
Come noto, la totale assenza di democrazia sindacale nel settore bancario ha pesato fortemente sulla perdita di diritti e salario dei lavoratori, nel periodo apertosi con la privatizzazione del sistema creditizio. Adesso però risulta arduo non vedere la trasformazione delle organizzazioni sindacali firmatarie in enti para-aziendali, organicamente integrati nell’esecuzione della governance dettata dal management.
Un fulgido esempio ce lo offre un punto dell’accordo sui prepensionamenti, nella parte che prevede un finanziamento della banca per i lavoratori esodati, nel caso in cui una legge intervenga nel frattempo, modificando i requisiti di accesso alla pensione. Una sorta di anticipo pensionistico oneroso, analogo a quello realizzato dal governo. Vale la pena ricordare, visti i tempi che viviamo, che la pensione è salario differito. Far pagare un interesse, sul proprio salario, che non si riesce a percepire, nell’ipotesi che una norma di legge varata dai rappresentanti politici del capitale, ne posticipi il godimento pur dopo 42, 43 o più anni di lavoro, è un’infamia che si traduce nella cessione di pezzi di quel salario alla rendita finanziaria.
Anche in questo caso i sindacati firmatutto non hanno nulla da eccepire sull’introduzione perniciosa del principio. Chiedono solo che il tasso d’interesse, previsto al 4,50%, venga…ridotto.
Quello a cui si assiste al Monte dei Paschi è un avvitamento autoritario, repressivo, che configura una forte regressione nei rapporti capitale-lavoro. E questo proprio nel momento in cui quel capitale diviene sostanzialmente pubblico, con il Ministero dell’Economia e delle Finanze assurto ad azionista di riferimento. Una nazionalizzazione finora accompagnata da forme di attacco ai diritti e alla dignità dei lavoratori, che nulla di buono lascia presagire. Ma su questo aspetto, la nazionalizzazione e le possibili azioni dei lavoratori che facciano perno su di essa, ritorneremo. La nostra voce non si spegnerà. Ma per farla pesare, abbiamo bisogno del vostro sostegno.
C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Gruppo MPS
Dal 26 settembre al 1^ ottobre i ministri di Italia, Francia, Germania, Stati Uniti, Canada, Giappone e Regno Unito si riuniranno alla Reggia di Venaria per discutere ufficialmente di scienza, industria e lavoro, ma in realtà per proseguire nel progetto politico che prevede lo smantellamento totale dei diritti dei lavoratori, la compressione dei salari, la polverizzazione del welfare e dei servizi sociali e previdenziali. Lo sviluppo tecnologico nel modello economico dominante diventa uno strumento per aumentare i profitti e contemporaneamente ridurre gli occupati. Il governo italiano persegue questa politica in obbedienza ai diktat europei e la attua da tempo tramite leggi che svuotano i diritti del lavoro (Fornero, Jobs Act), impoveriscono lo stato sociale e i servizi pubblici (“buona scuola”, riduzione dell’assistenza sanitaria, tagli alle pensioni e allungamento dell’età pensionabile), stravolgono i cardini democratici e costituzionali (obbligo del pareggio di bilancio, riforma della Costituzione – sonoramente bocciata dal Referendum popolare del 4 dicembre 2016). Il G7 Lavoro si svolge a Torino (anzi a Venaria, per paura di proteste): un’area metropolitana che dopo aver subito 100 anni di sfruttamento industriale è ora avviata ad una complicata trasformazione, che implica anche desertificazione produttiva e marginalizzazione sociale di massa. A Torino la Fiat si sta ritirando da ogni impegno produttivo, mentre le istituzioni pubbliche sono gravate da debiti mostruosi, che possono portare al dissesto. Intanto servizi e investimenti rappresentano occasione di appalti e di saccheggio da parte di consorzi e gruppi economici, che propongono contratti di lavoro in cui tutto (orari, turni, preavviso di chiamata, ferie, permessi) è aleatorio e in cui l’unica cosa certa per il lavoratore è l’obbligo a rimanere sempre e comunque “a disposizione”, ringraziando per il tozzo di pane guadagnato. Qui si utilizzano i trasferimenti a centinaia di chilometri di distanza come arma di ricatto per fare accettare sconvolgimenti di orari e sottrazione di diritti, oppure si impongono ai lavoratori come “incentivo” all’esodo. La più sfrenata “flessibilità” in mano ai padroni non frena affatto la chiusura di fabbriche e uffici, ma anzi la incentiva e la rende logica e naturale. Contro tutto questo il sindacalismo di base organizza un corteo dei lavoratori Venerdì 29 settembre con partenza alle ore 17.30 da Porta Palazzo (Corso Giulio Cesare – Ex stazione Torino Ceres) in direzione Giardini di Via Montanaro (Barriera di Milano)
C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Credito e Assicurazioni
Il 14 settembre Carige ha reso noto un aggiornamento del piano industriale al 2020,
in sintesi una nuova cura “lacrime e sangue”. Altre 63 filiali da chiudere, in aggiunta
alle 58 già chiuse tra il 2016 e luglio 2017. 842 dipendenti in esubero, con la
previsione di scendere dai 4.742 attuali ai 3.900 finali (in pratica uno su cinque
viene messo fuori). Esodi incentivati, part-time e cessione di attività gli strumenti
individuati per portare l’azienda in utile già nel 2018, razionalizzando la rete e
facendo “efficienza operativa”. A latere un taglio delle obbligazioni subordinate di
entità ancora sconosciuta ed un aumento di capitale da 560 milioni di euro dall’esito
incerto, visto che l’esigente famiglia Malacalza, azionista di riferimento dopo i
disastri dell’era Berneschi, ha già perso nell’investimento in Carige 230 milioni di
euro e non sembra intenzionata a mettere altri soldi, né assistere indifferente al
diluirsi del suo 17,8% di quota. Nell’immediato, vendita dei pochi gioielli di famiglia
rimasti, come l’immobile che ospita la sede di Milano e che dovrebbe fruttare oltre
100 milioni di euro, per fare un po’ di cassa a breve.
Persino il segretario della FIRST-CISL si è sentito in dovere di intervenire nella
vicenda Carige:
“Siamo stupefatti che, nell’individuare quale elemento fondamentale di rilancio della
banca la presenza di una base di clienti resiliente e fedele, ci si accanisca contro i
lavoratori, ossia coloro che hanno permesso che questa fedeltà si mantenesse,
rimediando ai danni reputazionali provocati dalle cattive gestioni dei
vertici”.“Volontarieta’ e sostenibilita’ sociale devono essere i punti fermi della
gestione delle ricadute occupazionali – aggiunge Romani -, mentre e’ chiaro che
non ci sono spazi per ulteriori sacrifici retributivi in una banca che ha gia’ un livello
di costo unitario del personale al di sotto della media di sistema in virtu’ dello
straordinario senso di responsabilita’ mostrato in questi anni dai lavoratori e dal
sindacato.Piuttosto – conclude Romani -, osserviamo che ancora una volta ci
troviamo di fronte a stantie formule basate sul taglio di dipendenti e di filiali, sulla
cessione degli npl, su esternalizzazioni di professionalita’ e sulla mera
riorganizzazione dei processi e dei modelli organizzativi, mentre poco o nulla si
innova dal lato dei prodotti e dei servizi”.
Non c’è da stupirsi se viene sempre chiesto ai lavoratori di sacrificarsi: sono l’unico
soggetto che ha una rappresentanza sempre disponibile a cedere. I soci non
accettano di tirare fuori nuovi soldi, le autorità di governo accettano i diktat dell’UE
e le conseguenze del bail-in, le altre banche sono impegnate a tirarsi fuori dai guai
per conto loro, la Banca d’Italia sostiene di aver vigilato bene, il presidente dell’ABI
Patuelli professa ottimismo, sull’onda del mantra ”la crisi è finita”.
Per le sorti di Carige varrebbe la pena prendere in considerazione ipotesi di scenari
avversi e la necessità di puntare su soluzioni istituzionali sul modello Monte dei
Paschi di Siena, per prevenire disastri come nel caso delle banche venete. Anche
tra catastrofi abbiamo dovuto purtroppo imparare a distinguere…
C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Gruppo Carige
DA CUB SALLCA INTESA SANPAOLO
a iscritti/e, lavoratrici e lavoratori
La vicenda delle ex banche venete ha un aspetto poco conosciuto: vi sono decine e decine di lavoratori a tempo determinato che hanno perso o stanno per perdere il lavoro. Siamo venuti a conoscenza di iniziative di lavoratori, di varie realtà territoriali, per sostenere la causa di questi colleghi meno fortunati.
Sotto vi proponiamo un appello da leggere e, nel caso da condividere, inviando una mail a sallca.cub@sallcacub.org scrivendo “aderisco”, indicando nome, cognome, matricola e luogo di lavoro.
E’ stata lanciata da alcuni lavoratori di Intesa Sanpaolo (e poi ripresa da strutture locali dei sindacati firmatari) una petizione per chiedere alla delegazione trattante per gli esodi nelle banche venete di prendere in considerazione, nel corso delle trattative, il problema della mancata conferma di lavoratori con contratto a termine, in scadenza o scaduto da poco, tra cui alcuni dipendenti assunti in base alla Legge 68/99 che disciplina l’assunzione di lavoratori disabili.
I sottoscritti lavoratori e lavoratrici condividono questa richiesta anche perché, come giustamente viene ricordato nell’appello, l’operazione di salvataggio delle banche venete è avvenuta con robusti contributi pubblici.
In un recente video, relativo ad una riunione di direttori di Area, Stefano Barrese ricordava come l’intervento di Intesa Sanpaolo abbia evitato licenziamenti. Riteniamo che se la banca, al di là dei contributi ricevuti per la gestione degli esodi volontari, volesse impegnarsi per risolvere i problemi di questi giovani precari, che hanno lavorato fianco a fianco con i lavoratori “salvati”, dimostrerebbe in modo più concreto la propria vocazione etica.
DA CUB SALLCA GRUPPO MPS
a iscritti/e lavoratrici e lavoratori
La firma dell’accordo per l’accesso al Fondo di 1200 colleghi, come quota per il 2017 dell’attuazione del Piano di Ristrutturazione 2017-2021, si presta ad alcune considerazioni
E’ evidente che la situazione di crisi di MPS non dipende dai lavoratori, ma dalle scelte sciagurate del management. E’ peraltro noto che in questo paese chi sbaglia, stando in alto, non paga mai ed infatti il prezzo degli errori è stato pagato dai lavoratori, con accordi che hanno azzerato il contratto integrativo e portato all’esternalizzazione di un migliaio di lavoratori (su questo torneremo).
Un esodo su base volontaria, quindi, non è certo la peggior sciagura capitata finora ai lavoratori di MPS. Eppure un dettaglio fastidioso (per usare un eufemismo) c’è anche qui. Laddove si ipotizza un eventuale cambiamento delle regole pensionistiche durante la permanenza nel fondo (allungamento dell’età pensionabile), l’accordo prevede un generico impegno delle Parti a reincontrarsi, ma, nel frattempo, si offre ai lavoratori in difficoltà l’opportunità di accedere ad un prestito, fino al raggiungimento della pensione, al modico tasso del 4,50% (si veda allegato). Davvero una condizione di maggior favore ai dipendenti nell’epoca dei tassi negativi!
Sempre nell’accordo, si cita “l’importanza di un coinvolgimento attivo del Sindacato”. Vista questa generosa disponibilità aziendale, perchè non utilizzarla, come primo gesto, per discutere del reintegro degli oltre 1.000 dipendenti esternalizzati in Fruendo di cui parlavamo all’inizio?
Un obiettivo che sanerebbe un’operazione illegittima (come già stabilito da numerose sentenze di secondo grado), porrebbe fine al trascinarsi del contenzioso legale, soprattutto ribadirebbe un principio che i sindacati dovrebbero sempre tenere come stella polare del loro operato, l’unità del processo produttivo, contro ogni tentativo di spezzettarlo in modo strumentale.