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Carige per noi

SULLA VICENDA CARIGE, RITENIAMO UTILE PUBBLICARE UN CONTRIBUTO ALLA DISCUSSIONE DI CLAUDIO BETTARELLO, DEL DIRETTIVO NAZIONALE DELLA CUB-SALLCA.

In questi giorni, attorno alla vicenda Carige si sta alzando un gran polverone.

Sembra quasi che il punto principale, certo quello che appassiona di più, sia la misura del grado di continuità tra i provvedimenti annunciati dal governo gialloverde e quelli messi in campo dai precedenti esecutivi di centrosinistra.

I commentatori economici mainstream ironizzano perché la furia iconoclasta dei grillini nei confronti dei banchieri si sarebbe rivelata l’ennesima eresia a scadenza elettorale; il PD, attraverso il ghigno di Renzi, chiede addirittura le scuse ufficiali; il governo (ed i 5stelle in particolare) provano a fare spallucce sparando la solita bordata di frasi ad effetto. Del resto, quando si costruiscono spettacolari fortune politiche in un certo modo è davvero difficile non pensare che, appena possibile, gli avversari ti rendano pan per focaccia.

Ma anche “a sinistra” siamo messi piuttosto male se si osservano i commenti e gli slogan che sui social ricevono i maggiori consensi. Naturalmente è del tutto comprensibile la voglia di mettere alla berlina un governo complessivamente indecoroso e democraticamente pericoloso ma per questo forse sarebbe sufficiente la fulminante ironia del post “Comunque vi avevamo chiesto di salvare una barca. Una baRca, con la R.

La mia opinione è che oggi (ripeto oggi) sia del tutto prematuro esprimere un giudizio ponderato sulla politica bancaria del nuovo Governo (ricordiamoci che siamo di fronte a pallisti seriali di nuova generazione) e ancor di più valutare se le modalità di intervento in Carige segnino una continuità non solo formale ma sostanziale con le politiche a guida PD. Nel merito siamo ancora in una fase interlocutoria e, comunque, tra le due esperienze esistono vistose asimmetrie che rendono difficile istruire un paragone.

Il centrosinistra, come noto, porta sulle proprie spalle la maggior parte della responsabilità politica e storica per quello che è oggi il sistema bancario italiano.

Sin dagli inizi degli anni novanta è stato l’alfiere dei processi di integrale ed affrettata privatizzazione del settore, il sostenitore convinto di tutte le direttive europee in materia (che certo non hanno avuto un impatto neutro sui diversi sistemi nazionali), il difensore interessato delle autorità di controllo spesso distratte e talvolta colluse. Tra i banchieri ha sempre annoverato moltissimi amici e se ne è sempre ricordato.

Per limitarci ad analizzare un pochino più approfonditamente la fase nella quale tuttora ci troviamo (quella apertasi nel 2015 quando l’onda lunga della crisi globale del 2008-09 e le conseguenze delle politiche austeritarie europee iniziano a colpire pesantemente il sistema bancario italiano) i governi Renzi-Gentiloni si sono trovati ad affrontare un’impressionante serie di crisi aziendali oltre tutto all’interno di un contesto sistemico di elevata fragilità.

Lo hanno fatto accumulando molti errori di valutazione e gravi ritardi e cercando di utilizzare, alternativamente o in collegamento, tutti gli strumenti a loro disposizione in un quadro di regole europee che non si voleva (poteva) mettere in discussione.

A fine 2015 si comincia con la “risoluzione” di Banca Etruria, Banca Marche, Carichieti e Cariferrara attraverso una complessa operazione che prevedeva anche il recepimento accelerato ed improvviso, nel nostro paese, della normativa sul bail-in. La scelta si rivela disastrosa soprattutto per il crollo di fiducia che determina nei confronti dell’intero sistema creditizio e che colpisce prioritariamente, aggravandone la situazione, le banche già più deboli.

Nei mesi successivi, sempre cercando soluzioni più o meno “di mercato”, si creano originali strumenti di sistema (basati su capitali privati) ma si impiegano anche fiumi di risorse pubbliche per provare a stabilizzare (invano) la situazione di Popolare Vicenza, Veneto Banca e, soprattutto, Monte dei Paschi.

Alla fine per le due banche venete arriva il “cavaliere bianco” (Intesa Sanpaolo) che, in cambio di garanzie e lauti finanziamenti, ne rileva solo le parti sane. Un’operazione da manuale in materia di socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti.

E apro una breve parentesi per sottolineare come in tutti questi casi (più in altri minori) nessuna delle banche “in crisi” sia stata effettivamente “salvata”: in poco tempo di loro non è restata traccia alcuna. Si dovrebbe parlare semmai di “liquidazione ordinata”. E anche per quanto concerne i posti di lavoro (ma non c’è tempo per parlarne in questa sede) è tutta da fare una valutazione obbiettiva sulla percentuale di quelli effettivamente salvaguardati.

Tornando alla cronaca, l’ultima partita (quella più rilevante e anche più dolorosa visto che si gioca più che mai “in casa” del centrosinistra) si chiude, dopo molti ritardi, con l’intervento pubblico diretto e la conseguente nazionalizzazione (e salvataggio) del Monte dei Paschi; una conclusione però che arriva più “per contrarietà” che per convinzione e senza alcuna volontà politica di sperimentare una gestione “diversa”.

Come ho già detto in passato “Finché il ruolo del Pubblico rimane emergenziale e sussidiario poco cambia, a ben vedere, nel cedere subito ad Intesa il cuore sano delle due banche venete o farlo tra dieci anni per quello di MPS a vantaggio di qualche fondo d’investimento internazionale o di qualche banca cinese (tanto per dire).”

A differenza di questa lunga (e chiarissima) storia, il governo gialloverde si trova invece a dover affrontare la sua prima crisi bancaria ed a doverlo fare in un contesto che presenta anche una significativa novità.

Carige è infatti la prima banca italiana a manifestare gravi difficoltà gestionali dopo essere passata sotto la sorveglianza diretta della BCE in base ai meccanismi previsti dall’Unione Bancaria. Non appena ne ha avuto l’occasione, la vigilanza europea si è mossa con tempestività commissariandola ma, nel contempo, confermando sul ponte di comando i due principali manager da tempo alla ricerca di “soluzioni di mercato”. Una chiara “indicazione” al governo italiano di quale fosse la direzione da intraprendere e l’urgenza del farlo.

Da questo punto di vista, al di là delle facili ironie, il fatto che ci siano voluti solo pochi minuti per approvare il decreto “salvacarige” non mi sembra certo un fatto negativo visto che mai come in questi casi il tempo è davvero denaro.

Le caratteristiche del provvedimento sono ormai note ed è inutile tornarci sopra nel dettaglio. Emerge abbastanza chiaramente la volontà di preannunciare la possibile messa in campo di una pluralità di strumenti e di significative risorse finanziarie con la finalità di stabilizzare la situazione della banca nel breve periodo frenando, per quanto possibile, la fuga dei depositi.

Se a ciò si aggiunge la disponibilità di SGA a rilevare un significativo pacchetto di crediti deteriorati e l’impegno del governo a supportare i commissari nella ricerca di una (difficile) soluzione interna o in quella di un possibile acquirente mi sembra che l’armamentario sia completo.

Sono gli stessi strumenti utilizzati di volta in volta o nel loro insieme dagli ultimi governi di centrosinistra? Certo, del resto non è mica facile inventarsene di altri. Il decreto è una scopiazzatura di quello Gentiloni su MPS? Probabile, ma non mi sembra una questione centrale al di là delle polemiche su coerenza e dintorni.

Quello che si può dire è che, al momento, siamo di fronte all’apertura di un ventaglio di possibili soluzioni molto ampio, all’interno del quale ci sono certo quelle più apprezzate dai Mercati e più favorevoli ai banchieri che dovessero farsi avanti ma anche quelle che nel nostro campo riteniamo essere più positive per l’interesse pubblico quali la nazionalizzazione.
Occorre quindi attendere.

Nel nostro metro di giudizio una cosa dev’essere chiara e mi pare che sia stata ben sintetizzata nel pur stringato comunicato di Rifondazione Comunista dove si afferma che: “Se si metteranno soldi pubblici, lo stato deve entrare nel capitale azionario, e avere un peso diretto nella gestione della banca, tutelando in primis il risparmio e l’occupazione degli oltre 4000 lavoratrici e lavoratori”. Come abbiamo già detto più volte non è una cosa di per se sufficiente a garantire una svolta ma è quanto meno un passaggio necessario.

Questo, naturalmente, se si è tutti d’accordo che la banca vada “salvata” e non si pensi invece che l’elemento di continuità deteriore con il centrosinistra (o con il centrodestra) consista nel solo tentativo di farlo. E’ un dubbio che in questi giorni mi ha assalito spesso e penso che sul punto sia davvero necessario fare chiarezza.

In primo luogo, i comunisti sono sempre stati (ovviamente e giustamente) a fianco di chi lotta per la difesa dei propri posti di lavoro (e di una capacità produttiva) che si tratti di una fabbrica metalmeccanica di 300 operai e impiegati o di una società di servizi di 50 precari.

In questi casi si finisce sempre per sollecitare l’intervento degli enti locali o dello stato. Quando le cose vanno particolarmente male ci si accontenterebbe anche dell’acquisizione da parte di un concorrente più solido o dell’arrivo di un qualche serio padrone straniero, cinese o americano che fosse.

Da questo punto di vista sarebbe davvero incomprensibile che non si ritenga positivo, senza remora alcuna, il tentativo di salvare una banca che occupa più di 4mila persone (oltre all’indotto che anche in questi casi non è trascurabile).

Ma c’è ovviamente di più. Dovrebbe essere risaputo che una banca non è una fabbrica di caramelle (concetto che si ritrova anche nel vecchio motto secondo cui il banchiere è un mestiere troppo delicato per lasciarlo in mano ai privati).

Soprattutto quando ragioniamo di aziende con forte concentrazione regionale (come è il caso di Carige) si creano con il territorio reticoli di relazioni tali che un fallimento non può che avere gravissime ripercussioni sull’economia locale (nel caso poi già duramente provata).

E, naturalmente, ci sono pure i depositanti che certamente sono parzialmente tutelati, sino a 100mila euro a testa, dal Fondo di Garanzia (strumento peraltro gestito dai perfidi banchieri e mai sperimentato su così larga scala) ma ai quali, comunque, non mi sento di augurare di trovarsi di fronte ad uno sportello sbarrato quando volessero prelevare 100€ dal proprio conto.

Chiarito questo punto, io penso che in una vicenda del genere il compito di una forza comunista ed anticapitalista (e dei suoi militanti più preparati) dovrebbe essere quello di provare a spostare l’attenzione popolare dai siparietti politici e dai tecnicismi vari verso due questioni centrali che, se comprese, possono consentirci di fare dei passi avanti nella ricostruzione di una critica e di un’opposizione di massa al sistema attuale.

La prima concerne l’accertamento delle cause e delle responsabilità della crisi di un’azienda come Carige; la seconda verte sul che cosa dovrebbe/potrebbe fare una banca “nazionalizzata”. Naturalmente su entrambi i temi mi limito solo ad alcuni accenni.

Dal primo punto di vista la vicenda Carige (500 anni di storia e prima cassa di risparmio ad essere quotata in borsa nel 1995) è davvero emblematica, un po’ come quella del Monte Paschi. Ripercorrendola si trova di tutto. Gli equilibri imposti dal processo di privatizzazione all’italiana con il pubblico che deve lasciare spazio ai nuovi manager privati; la voracità e infine le malefatte dei piccoli capitalisti nostrani; gli intrallazzi con la politica (qui in primis di centrodestra); i prestiti agli amici degli amici; la folle corsa all’acquisizione di sportelli dei primi anni duemila alimentata dal mondo del business finanziario; il ruolo compromissorio e decadente della Fondazione (che nel 2013 possedeva ancora oltre il 46% del capitale) ma che non può reggere i successivi ripetuti aumenti di capitale (anche imposti dalle regole europee); la debolezza dei soliti manager riciclati alla bisogna e tanto altro ancora.

Sul dominus Berneschi, che ha guidato la banca per vent’anni, è sufficiente riportare (come fa Marco Bersani nel suo recente articolo “Quando la banca chiama non c’è Governo che non accorra”) un passaggio delle motivazioni della sentenza con cui il Tribunale di Genova lo ha condannato assieme al suo braccio destro Menconi, rispettivamente a 8 e 7 anni di reclusione. Vi si legge infatti: “ … Il maggiore gruppo bancario ligure è stato condotto al progressivo depauperamento attraverso un minuzioso e costante disegno truffaldino, architettato da un comitato d’affari occulto, che come obiettivo aveva unicamente l’arricchimento personale. Un vero e proprio gruppo criminale che sfruttava le proprie posizioni apicali, aveva appoggi internazionali e si appoggiava sistematicamente su paradisi fiscali e banche offshore”.

Da vecchio perfido sindacalista mi limito solo ad aggiungere che Berneschi era talmente stimato non solo dalla politica e dalla curia ma dagli stessi suoi colleghi da fare pure una bella carriera in ABI. Era infatti uno dei vice del presidente Mussari (suo degno compare, distruttore di Monte Paschi) quando nel 2012 i banchieri imposero ai bancari (mal difesi) uno dei peggiori rinnovi contrattuali nella storia della categoria, chiedendo loro ulteriori pesanti sacrifici nell’interesse supremo (e comune) del rilancio del settore e del paese. Amen.

Ancora più importante, secondo me, è aprire una discussione sulla seconda questione, il che fare oggi di una banca commerciale sotto controllo statale. Fallimenti e ruberie delle gestioni private hanno infatti riaperto uno spazio nel contesto neoliberista e la possibilità di un ragionamento sul ruolo della finanza pubblica a partire dal quale occorrerebbe saper incalzare (e contestare) il governo gialloverde.

Marco Bersani nell’articolo già citato (e che pure non condivido integralmente) conclude correttamente così: “Ma oltre a tutto quanto detto sopra, resta una considerazione di fondo: quando si inizierà ad accompagnare ai salvataggi con soldi pubblici delle banche private, una strategia politica che rimetta il sistema bancario e finanziario dentro l’interesse generale e il controllo democratico e popolare?”

Interloquisce indirettamente un passaggio di un comunicato sulla vicenda Carige della Cub-Sallca, il sindacato di base dei bancari: “Una banca pubblica dovrebbe caratterizzarsi per un diverso modello di banca, che sia davvero utile alla collettività, che conceda credito a chi lo merita, che tuteli i risparmi dei clienti e non li saccheggi, dove il ruolo del bancario abbia un contenuto professionale qualificato, di reale consulenza al servizio dell’utenza e non sia quello di piazzista”.

Come ho già avuto modo di affermare in relazione alla vicenda MPS, ritengo che alcune coordinate d’azione possono essere individuate nella definizione di un “patto strategico” (tra azienda, lavoratori, sindacati e clienti) finalizzato alla cessazione delle pressioni commerciali e della vendita di prodotti inadeguati; nella conseguente ridefinizione della gamma di offerta (in primo luogo per quanto concerne i prodotti di risparmio e di tutela); nell’utilizzo preferenziale della banca pubblica per la canalizzazione dell’attività di Cassa Depositi e Prestiti e del flusso di finanziamenti agevolati di matrice nazionale o europea.

Tornando a Carige, spero sia stata definitivamente accantonata l’idea un po’ balzana che fosse MPS ad acquisirla. Ciò non toglie che, nel caso di nazionalizzazione, una regia pubblica (degna di questo nome) potrebbe facilmente individuare, nell’immediato futuro, interventi di razionalizzazione delle reti (sono due banche a radicamento territoriale contiguo) e messa a fattor comune di servizi che potrebbero aiutare entrambi i gruppi a risollevarsi.
Fermo restando che, a quel punto, gli utili resterebbero pubblici.

Torino, 10 gennaio 2019

Claudio Bettarello

Vicenda Carige. Il comunicato della Cub-Sallca

 

DA SEGRETERIA NAZIONALE CUB SALLCA

A iscritti/e, lavoratrici e lavoratori

 

Il decreto con cui il governo ha deciso di offrire la garanzia pubblica sulle obbligazioni emesse da Carige è una scelta utile e necessaria, peraltro in linea con gli ultimi salvataggi bancari.

L’esigenza principale in questo momento è garantire la continuità aziendale, per tutelare i diritti dei lavoratori e i loro posti di lavoro, insieme agli interessi dei risparmiatori e di una realtà sociale già provata da altre tragedie

Attendiamo, quindi, i prossimi passaggi. Riteniamo che l’intervento pubblico non possa essere solo finalizzato a mettere a carico della collettività i danni prodotti dai banchieri. Se intervento pubblico deve essere, lo sia fino in fondo, con la nazionalizzazione della banca e la possibilità per lo Stato di incassare anche gli utili futuri della banca risanata.

E’ una linea che abbiamo già caldeggiato nel caso di Monte Paschi. Come già abbiamo scritto più volte, l’intervento dello Stato deve anche essere qualitativo.

Una banca pubblica dovrebbe caratterizzarsi per un diverso modello di banca, che sia davvero utile alla collettività, che conceda credito a chi lo merita, che tuteli i risparmi dei clienti e non li saccheggi, dove il ruolo del bancario abbia un contenuto professionale qualificato, di reale consulenza al servizio dell’utenza e non sia quello di piazzista.

Come sindacato di base auspichiamo che si possa arrivare ad un radicale cambio di rotta: i disastri degli ultimi anni sono in buona misura i frutti della furia privatizzatrice partita nel 1990 e delle politiche austeritarie imposte dalle regole europee.

SPERIMENTAZIONE FILIALI SENZA CASSE: OPERAZIONE RIUSCITA, IL PAZIENTE E’ IN COMA

Da circa un mese Intesa Sanpaolo sperimenta la chiusura delle casse in filiali medio-grandi con caratteristiche diverse.

L’innovazione vorrebbe puntare all’eliminazione definitiva della figura del cassiere tradizionale, già falcidiata dalla massiccia ondata di esodi e dal draconiano ridimensionamento del servizio. L’obiettivo sarebbe quello di costringere l’utenza all’utilizzo dei canali remoti e imporre di forza la digitalizzazione della clientela.

Ma non tutto funziona come vorrebbe chi ha lanciato l’esperimento: esiste il rischio concreto di ottenere conseguenze indesiderate e paradossali (LEGGETE IL VOLANTINO ALLEGATO) dal perdere un pezzo di clientela, al rovesciare su chi dovrebbe fare solo attività “commerciale” il  compito di dare assistenza operativa fine a se stessa, con effetti limitati e temporanei. Se poi anche la tecnologia non aiuta, con bancomat e CSA spesso fermi, la situazione si complica.

Anche per i lavoratori l’esperimento non è una passeggiata: la “riconversione professionale” implica fatica e stress, spesso anche un aumento del rischio. Servirebbe  aprire un tavolo di trattativa per garantire a tutti diritti e tutele nella nuova organizzazione del lavoro di sportello, ma questa vicenda è  l’ennesima prova di come i sindacati “firmatutto” abbiano completamente perso il controllo su questo tema e la possibilità di contrattarne le ricadute.

Questo è il frutto di anni di “moderne” relazioni industriali, in cui la ricerca del riconoscimento da parte delle aziende ha sostituito il rapporto con i lavoratori. E’ singolare che, a fronte del proliferare di commissioni paritetiche inutili (se non per chi beneficia dei permessi per parteciparvi), sia scomparsa la Commissione Organizzazione del Lavoro, attiva fino a non molti anni fa: ma ovviamente la sua utilità dipenderebbe da una presenza sindacale non subalterna ai voleri aziendali.

 

Dalla Direzione Regionale Piemonte una notizia che segnala un (parziale) barlume di buon senso: gli orari di molte filiali flexi vengono ridimensionati.

 

Cogliamo l’occasione per ricordare che dal 1/1/2019 partirà l’iniziativa “arrotonda solidale”, prevista dall’accordo “inclusione”, che fa parte degli accordi di 2^ livello firmati dai sindacati trattanti il 3 agosto scorso (mai sottoposti al voto dei lavoratori).

Il progetto è gestito dal Comitato Welfare e tende a favorire l’occupazione delle persone con disabilità.

Per finanziare l’iniziativa è previsto “il riversamento dell’arrotondamento all’euro inferiore dello stipendio mensile netto (con un massimo di 99 centesimi) di tutti i dipendenti del Gruppo che non manifesteranno espressamente la volontà di non aderire all’iniziativa. Le Aziende del Gruppo contribuiranno a versare mensilmente l’importo pari al completamento ad 1 euro dei singoli arrotondamenti donati dai propri dipendenti”.

Quindi, come già accaduto per Prosolidar, per aderire non è necessario fare nulla, mentre chi volesse recedere deve seguire questo percorso:

  • accedere alla piattaforma People
  • selezionare in alto a sinistra l’icona con foglio/matita
  • vai a “le mie richieste”
  • selezionare “arrotonda solidale”
  • selezionare “revoca” e fare conferma.

 

CUB_SALLCA Intesa Sanpaolo

 

VUOLSI COSI’ COLA’ DOVE SI PUOTE CIO’ CHE SI VUOLE, E PIU’ NON DIMANDARE

Il sistema incentivante 2018 di Intesa Sanpaolo è fortemente orientato ai risultati tesi a realizzare il Piano d’Impresa 2018-2021.
Viene data molta enfasi alla crescita nel segmento delle polizze di tutela: l’obiettivo è moltiplicare per 5/6 volte il volume dei premi nell’arco del Piano.
Si è puntata una cifra importante sul SET: il Sistema di Eccellenza Tutela. Chi riesce ad andare a premio può mettersi in tasca qualche migliaia di euro. Chi riesce a posizionarsi nel gruppo di testa, può addirittura raddoppiare la posta. Chi ricopre ruoli di coordinamento, oppure è specialista di tutela, può puntare ad un premio con quattro zeri.
Peccato però che esista una certa distonia tra sistemi incentivanti e programmi di rendiconto. E nessuno che possa, o voglia, fare chiarezza, in tempo utile.
Può capitare così che si galoppi tutto l’anno, intravvedendo una carota consistente alla fine della pista, per poi scoprire che era tutta una finta, perché il budget viene rivisto al rialzo.

Leggete cosa è appena accaduto nelle Filiali Imprese…
(VEDI ANCHE VOLANTINO ALLEGATO)

 

Forse non c’è frase più adatta di quella pronunciata da Virgilio al traghettatore
Caronte, nel terzo girone dell’Inferno, per rispecchiare la situazione in cui si
sono venuti a trovare i colleghi delle Filiali Imprese di Intesa Sanpaolo.

Intesa Sanpaolo, ogni anno, per spingere alcuni prodotti, annuncia che chi
raggiungerà il budget comunicato sarà premiato con un riconoscimento
economico variabile a seconda della percentuale di raggiungimento.

Spesso tali iniziative sono normate da accordi sindacali che però non
riescono mai ad impedire larghi margini di discrezionalità all’azienda, in
particolare sui budget: anziché tentare improbabili operazioni per regolare
le competizioni decise dall’azienda, il mestiere del sindacato dovrebbe
essere quello di contrattare il più possibile quote salariali certe ed a
beneficio di tutti.

Quest’anno i prodotti assicurativi sono tra quelli a cui l’azienda tiene molto e
quindi sono stati oggetto di un eventuale premio al raggiungimento del bugdet
assegnato.

Fino a qui niente di anomalo rispetto all’ormai consueto standard aziendale
con cui purtroppo dobbiamo convivere.

Nel mese di novembre, a circa 45 gg. dal fine anno, il bugdet delle Filiali
Imprese è misteriosamente cambiato, senza preavviso e soprattutto senza
nessuna comunicazione, alzando sensibilmente l’asticella del traguardo.

Solo i direttori più attenti, facendo il confronto con il mese precedente, si sono
accorti di tali variazioni che possiamo sintetizzare:
 Aumento del budget per i premi incassati
 Aumento del budget per le commissioni retrocesse

Cosa sia successo esattamente è difficile da capire, ma sicuramente
riconducibile all’ approssimazione con cui l’azienda imposta questi sistemi
incentivanti e li rendiconta periodicamente. Mentre il regolamento parlava di
premi “di nuovo rischio”, il rendiconto periodico conteggiava anche le
mensilità delle polizze 2017, gonfiando i risultati e illudendo i “contendenti” sul
buon esito dei loro sforzi. Sforzi che si sono protratti fino almeno a novembre
inoltrato.

Citando una frase del meno nobile Andreotti – a pensar male si fa peccato
ma si indovina – rileviamo che in base ai rendiconti periodici diffusi
(tardivamente) moltissime Filiali Imprese sembravano potenzialmente in
grado di raggiungere i budget, in misura ben superiore alle filiali Retail e
Personal. Non è la prima volta che chi inventa queste gare sbaglia i conti
perché si avvale di sistemi astrusi e inadeguati e poi non esita a correggere il
tiro in corsa, con pieno disprezzo delle regole che loro stessi hanno
introdotto.

Infatti i budget sono stati rivisti al rialzo per sterilizzare l’effetto dei premi
riconducibili a contratti siglati nel 2017, ma per quasi l’intero 2018 i colleghi
hanno “corso” avendo in mano carte truccate.

Tale comportamento, esecrabile per moralità in quanto cambia in vista del
traguardo i numeri finali, è perfettamente in linea con lo spirito aziendale, che
non tiene per niente conto dei dipendenti e delle loro aspettative e non è
contestabile se non, forse, da chi ha firmato gli accordi in materia. Ma non
abbiamo alcuna aspettativa nei confronti dei sindacati firmatari, che non
hanno alcuna intenzione di contrastare le politiche incentivanti, né le sanno
comprendere o padroneggiare.

Comunque ancora una volta tale comportamento ribadisce che, se ancora
qualcuno non lo avesse capito, si deve cambiare l’atteggiamento con cui i
lavoratori si pongono nei confronti delle politiche aziendali:
abbiamo imparato sulla nostra pelle che la trasparenza non abita qui.

CUB-SALLCA Intesa Sanpaolo

LINEE GUIDA PER UN RINNOVO DEL CONTRATTO DEL CREDITO CHE FACCIA NUOVAMENTE AVANZARE I DIRITTI DEI LAVORATORI

LEGGI L’ALLEGATO CON LE NOSTRE LINEE GUIDA PER IL RINNOVO DEL CCNL BANCARI 

 

A fine anno scade il contratto del credito. L’Abi ha concordato con i sindacati firmatutto la proroga al 31 dicembre 2018 dell’eventuale disdetta del contratto.

La cosa ha ricevuto il plauso dei segretari nazionali: a titolo d’esempio, quello della Fisac, Megale, ha dichiarato che “il sindacato unitariamente è impegnato in autunno ad elaborare la piattaforma, consultare i lavoratori e presentarla ad Abi prima della scadenza a dicembre”.

L’autunno sta finendo e, a meno che il tutto non avvenga alla vigilia di Natale, è evidente che la tempistica non verrà rispettata.

Noi alcune idee sul rinnovo del contratto le abbiamo e cominciamo a proporvele. E’ importante che la gestione del rinnovo non avvenga nel chiuso delle stanze sindacali o, peggio ancora, in convegni dove i segretari dei sindacati firmatutto si confrontano amabilmente con i dirigenti dell’Abi.

L’ultima sparata di Sileoni, segretario Fabi, è che il contratto è da riscrivere completamente, aggiungendo che dovranno esserci forti aumenti contrattuali. Abbiamo la sensazione che solo la prima parte del programma potrebbe realizzarsi.

In ogni caso, il rinnovo dovrà avvenire attraverso un ampio confronto in categoria e non attraverso i colpi di mano dei vertici sindacAbi.

 

Segreteria Nazionale CUB-SALLCA

 

SIETE SODDISFATTI DELL’OPERATO DEI SINDACATI FIRMATARI?

Chi risponde in modo affermativo a questa domanda può evitare di leggere il seguito.

Questo messaggio è rivolto ai tanti/e, non iscritti o anche iscritti alle sigle firmatarie che, come noi,considerano insostenibile la situazione lavorativa e non condividono gli accordi che vengono sottoscritti.

Ricordiamo che a livello aziendale, negli ultimi tempi, abbiamo subìto l’accordo sulle assunzioni miste e l’accordo di secondo livello, senza che ai lavoratori sia mai stato chiesto nulla, né prima né dopo la firma.

Anche il recente accordo per la cessione dei lavoratori del Recupero Crediti (NPL) è stato vissuto come un’amara beffa dai colleghi coinvolti.

Tutto questo in un quadro di pesante deterioramento delle condizioni lavorative, con straordinari non riconosciuti, formazione fatta spesso fuori orario, mansioni svolte senza le conoscenze necessarie (magari pagando poi multe per l’inosservanza delle regole o subendo provvedimenti disciplinari).

Molti ci chiedono come si può uscire da questa situazione e ci chiedono come può fare il nostro sindacato a sedere al tavolo delle trattative.

Non ci dilungheremo in questa sede a spiegare perché l’attuale legislazione consente, di fatto, alle aziende di trattare con sindacati che le fanno comodo (nel caso abbiamo ampia documentazione da inviare a chi interessato).

La risposta non consiste solo nello spostare le tessere dai sindacati firmatutto al nostro (il che non guasterebbe, sia chiaro), ma serve soprattutto un’assunzione di responsabilità.

Serve che cresca la partecipazione e l’attenzione di tutti. Per far rispettare le regole serve una presenza sui luoghi di lavoro per vigilare su quanto accade. Servono quadri sindacali disposti a fare gli interessi dei lavoratori (e non preoccupati solo di quanti permessi retribuiti hanno a disposizione).

Quando si vota per gli organismi del welfare aziendale sentiamo intorno a noi la mobilitazione di decine di simpatizzanti, che si attivano per la raccolta firme e poi ci votano e ci fanno votare, facendoci ottenere un livello di consensi ben superiore al numero dei nostri iscritti.

Se tutto questo diventasse prassi normale e quotidiana per tutti gli aspetti sindacali, si potrebbe fare molto, ma dipende dai lavoratori, perché il concetto di fondo del sindacalismo autorganizzato e di base è che il sindacato siete VOI.

Se siete interessati leggete l’allegato.

CUB-SALLCA Intesa Sanpaolo

Intesa Sanpaolo. L’ennesimo Nuovo Modello di Servizio?

DA SEGRETERIA CUB-SALLCA

I comunicati delle sigle sindacali di inizio novembre informano del progetto aziendale di procedere ad alcune modifiche organizzative in rete. In particolare viene ipotizzata una riportafogliazione di circa 70.000 aziende, che passeranno dalle Filiali Imprese alle Filiali Retail, mentre circa 20.000 aziende con caratteristiche di Small Business faranno il percorso inverso.

Contemporaneamente verranno riorganizzate le Filiali Imprese, raggruppando le aziende clienti in base ad una classificazione di omogeneità dimensionale e settoriale.

Non è ancora chiaro quale ricadute avrà questo rimescolamento sugli organici e sul personale: in particolare se ci saranno trasferimenti di lavoratori tra filiere, modifiche dei turni, spostamenti di orario, intensificazione ulteriore delle pressioni commerciali sul segmento.

Certamente possiamo affermare che in questi anni c’è stato un forte depauperamento di professionalità e di riconoscimenti nel settore Small Business delle Filiali Retail ed una forte “torsione” commerciale anche nell’attività caratteristica delle Filiali Imprese. Non è semplice ricostruire un “saper fare” che è stato in larga misura trascurato e svilito e che invece resta al centro dell’attività di una banca che voglia ritornare a fare credito in maniera seria e qualitativa.

Resta densa di incognite anche la decisione di introdurre la figura di un “Coordinatore di Relazione” nelle filiali ad alta attività transazionale ed elevato flusso spontaneo di clientela. Potrebbe essere un fatto positivo, se riconoscesse la necessità di un presidio attento e continuativo della componente amministrativa e di cassa del nostro lavoro, per tornare a fornire un servizio adeguato che spesso è il nostro vero biglietto da visita. Se invece fosse l’ennesimo sforzo per smantellare quel poco che resta e concentrare tutto sul “commerciale” vorrà dire che si insiste nel dimostrare che “errare è umano, ma perseverare è diabolico”: le code si allungheranno ulteriormente, così come le risse e l’insoddisfazione dei clienti…

A questo proposito, dall’Area Torino, ci giunge notizia dell’avvio dell’esperimento, su alcune filiali medio grandi, della chiusura completa delle casse, con utilizzo del solo CSA. Commenteremo a breve questa trovata che non esitiamo a definire geniale: se scarseggiano i cassieri togliamo le casse!!

Cassa di Previdenza Sanpaolo: pratica archiviata!

 

Si è conclusa nello scorso mese di ottobre l’offerta di capitalizzazione della Cassa per i colleghi dell’ex Sanpaolo di Torino. Hanno aderito all’offerta oltre il 90% dei lavoratori in servizio o in esodo, oltre l’80% dei pensionati e circa il 20% dei “differiti” (i colleghi precedentemente ceduti o dimessi).

La nostra richiesta di prorogare i termini dell’offerta, per dare modo agli aventi diritto di decidere con maggior cognizione di causa, non è stata accettata dall’azienda, che ha risposto alla nostra lettera dopo la chiusura dell’operazione, giustificando il rifiuto proprio con l’accertato buon esito della manovra. E in effetti l’azienda si può dire soddisfatta, per essersi liberata quasi integralmente di quella fidejussione che continuava  a comparire in bilancio come debito differito nei confronti di una parte dei dipendenti e che avrebbe potuto assumere valori crescenti imponderabili.

Anche i lavoratori aderenti hanno evidentemente dimostrato con i fatti di gradire la proposta, sia per l’entità delle risorse finanziarie individuali acquisite (in molti casi positivamente sorprendenti), sia per l’incertezza che circonda le varie riforme che ciclicamente investono le pensioni (non da ultimo il timore di vedere penalizzato con il contributivo pieno chi volesse optare per “quota 100”), sia infine per la forte convenienza fiscale che si può intravvedere con il riscatto del proprio zainetto previdenziale tramite la R.I.T.A. recentemente introdotta.

Tuttavia continuiamo a pensare che si sarebbe potuto fornire ai colleghi un quadro espositivo migliore, informazioni più trasparenti e dettagliate, la possibilità di un confronto assembleare e una consulenza individuale più seria. Carenze che abbiamo tentato di supplire con il nostro impegno e le nostre forze, prima con l’organizzazione a Torino di un’assemblea straripante in cui non siamo riusciti a fare entrare tutti gli interessati, e poi con una costante assistenza a chi ce lo chiedeva.

Non tutti i problemi sono stati risolti: resta una grande insoddisfazione in chi si è visto offrire poco, per motivi non sempre comprensibili, e in coloro che avevano lasciato la banca d’origine, magari non di propria scelta in quanto ceduti, e che non riusciranno più a ricostruire interamente quei diritti di cui sono stati privati. L’accordo siglato dai sindacati su pressione aziendale avrebbe potuto  perseguire obiettivi diversi, magari ispirarsi a logiche minimamente “redistributive”: penalizzare i trattamenti scandalosamente elevati, per riconsegnare qualcosa a chi avrà pensioni prevedibilmente più basse. Invece si è scattata una fotografia dell’esistente, per chiuderla in fretta e senza intoppi.

Mentre i pensionati sono già stati quasi completamente liquidati per contanti, il trasferimento delle posizioni di attivi ed esodati avverrà alla fine di novembre, con decorrenza delle nuove posizioni a partire dal 31 dicembre.

Ricordiamo che l’aumento del 4% della contribuzione aziendale per i lavoratori in servizio potrebbe talvolta portare al superamento del plafond fiscalmente deducibile (5.164,57 euro), che include i contributi datoriali e quello del lavoratore (il TFR è escluso). Potrebbe dunque risultare conveniente abbassare, nel mese di dicembre con decorrenza  dal 1/1/2019, la propria quota contributiva, per non superare il plafond. Per il 2018 la quota non è più modificabile e quindi l’eventuale superamento può essere segnalato al Fondo come “contributi non dedotti” entro il 30/09/2019.

Ricordiamo ai colleghi di verificare periodicamente l’adeguatezza del/i proprio/i comparto/i previdenziale/i al proprio profilo finanziario e orizzonte temporale, vista anche la rilevante volatilità che è tornata sui mercati. Ricordiamo che esistono finestre per fare switch ogni tre mesi e che devono essere trascorsi almeno 12 mesi dal precedente.

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Intesa Sanpaolo

INTESA SANPAOLO. AREA TORINO E PROVINCIA, LA RETE AL COLLASSO

Nulla di nuovo rispetto al solito, ma abbiamo il solito mix di problemi (code alle casse e pressioni commerciali) che peggiora e peggiorerà con le prossime ondate di esodi.

Le difficoltà crescenti nel raggiungere i budget stanno facendo andare fuori giri la maggior parte dei direttori di area. Riunioni inutili per ripetere le stesse cose all’infinito, lync e messaggi ossessivi per sollecitare dati e premere sulle vendite, intrusioni invasive ed inaccettabili sulle agende dei lavoratori, altre invasioni di campo, arrivando, in alcuni casi, persino a sostituirsi ai gestori nel fare telefonate o inviare mail ai clienti.

E’ oramai evidente a tutti che la figura del direttore di area (a parte rari casi di chi interpreta il ruolo con un minimo di decenza) è dannosa persino per la produttività: quando vengono in visita in filiale fanno solo perdere tempo, tolgono spazio all’operatività (come già non ce ne fosse abbastanza) e le loro rituali sollecitazioni per i risultati opprimono inutilmente direttori e gestori e sono solo un fastidio in più.

Disastro anche sul versante dei lavori “umili”. Le carenze di organico determinano il fatto che spesso alcuni lavoratori debbano improvvisare nello svolgere mansioni che non conoscono. La sottovalutazione da parte dei responsabili di lavori considerati di serie B porta a non considerare i danni che possono derivare da una loro esecuzione non corretta: dai caricamenti del bancomat, fino ai ritardi nell’avviare la procedura per le banconote sospette di falsità, agli assegni versati senza la dicitura “non trasferibile”, al ritardato invio degli effetti al protesto.

La superficialità e l’incompetenza spettacolare che dimostrano responsabili di alto livello su lavori che vorrebbero far sparire (ma allora lo facciano: abbiano il coraggio di togliere TUTTE le casse!! Noi non saremmo d’accordo, ma sarebbe meglio decidere di non dare il servizio che darlo in questo modo indecente), porta a situazioni grottesche. Abbiamo conosciuto direttori di area che non sapevano che molti bancomat sono stati reinternalizzati e gravano sul groppone dei cassieri (ops, gestori base).

Ci è anche giunta voce che la direttrice regionale (dopo che le erano giunte le lamentele di un cliente) abbia telefonato ai responsabili di una filiale per chiedere di aprire una cassa in più! Abbiamo fatto fatica, inizialmente, a credere a una notizia del genere, ma, a fronte delle numerose fonti che ce l’hanno confermato, ci chiediamo se davvero non sapesse che sono proprio i vertici aziendali che continuano a smantellare le postazioni di cassa, per cui anche in filiali medio grandi ne sono rimaste solo due (di cui una occupata da chi deve seguire i bancomat e mille altre cose), quando non una soltanto.

Che fare di fronte a questo scempio? La prima cosa da sapere è che i vertici aziendali sono totalmente insensibili alle figure peregrine che si fanno lavorando in queste condizioni. Sono ormai troppi i responsabili che teorizzano apertamente che i clienti o si adattano al modello di servizio che si vuole imporre, o aspettano, o se ne possono anche andare. Troppi per non pensare che questa brillante filosofia non arrivi dall’alto.

Quindi bisogna prendere atto di questa realtà e attrezzarsi di conseguenza.

La pausa colazione (che è un diritto consolidato, non una concessione facoltativa, come sostiene qualche direttore troppo zelante, tanto è vero che la procedura prevede 15 minuti
di pausa anche al pomeriggio per chi fa il turno B) e la pausa pranzo sono sacre, mai rinunciarvi.

Uscire in orario (vale anche per i quadri direttivi) è sempre una buona prassi. Quando non si può fare a meno di fermarsi, i lavoratori delle aree professionali devono mandare una mail al proprio direttore (di cui va tenuta copia) per chiedere al Personale di autorizzare il lavoro supplementare (magari inviare anche un lync di allerta). Se non viene autorizzato, la cosa ideale sarebbe alzarsi ed uscire. Se questo non è possibile, evitate nel modo più assoluto di usare il giustificativo NRI. Nel caso lo inserirà qualcun altro e intanto si deve insistere per avere il caricamento dello straordinario. Se non accade, avvisateci.

La formazione va fruita in orario di lavoro, in postazione dedicata, leggendo o ascoltando quanto si ha davanti (senza mandare avanti le pagine mentre si fa altro), oppure stando a casa (con tablet aziendale) in sostituzione della giornata lavorativa e non in aggiunta.

Per l’ennesima volta ribadiamo che non raggiungere i budget non determina nessun tipo di provvedimento disciplinare, ma solo vari problemi somatici ad alti responsabili che sono pagati molto, ma molto di più di voi, solo per assillarvi tutto il giorno. Naturalmente, a fronte di minacce, più o meno velate, di trasferimenti, demansionamenti o altre catastrofi, avvisateci.

Se vi dicono di fare le telefonate, compatibilmente con carichi e orari di lavoro, siete tenuti a farle. Se non raggiungete il numero di appuntamenti previsti dalla fervida fantasia dei direttori di area e dall’inventore del fantomatico “metodo”, pazienza. Siete tenuti a telefonare ai clienti, non siete obbligati a farli cedere alle vostre avances. Se poi gli appuntamenti non si concludono con i risultati auspicati, vale quanto detto per i budget.

Sempre più spesso abbiamo notizie di colleghi che chiedono la visita col medico competente portando certificati di specialisti che attestano gravi situazioni di stress. Quando si arriva a questo punto, perlomeno, di norma arriva la prescrizione del medico competente stesso, che impone all’azienda di non adibire più il malcapitato a lavori di sportello e consulenza. Ma abbiamo, purtroppo, notizie di troppi colleghi abituati all’uso di ansiolitici e psico-farmaci. Non bisogna arrivare a questo punto, non giochiamoci la salute per lor signori.

Ci viene in mente una canzone in voga negli anni ’70, le cui strofe recitano: Lavorare con lentezza, senza fare alcuno sforzo, la salute non ha prezzo….Quello che vogliamo dire è che dobbiamo certamente lavorare, ma con ritmi e modalità decenti, senza dover sempre correre oltre i limiti e mettendo a repentaglio la salute.

Ricordatevi che nessuno si deve giustificare per lo stipendio che prende. Chi deve farlo, semmai, sono quelli che sono pagati molto più di voi/noi per prendere decisioni, troppo spesso, insensate, cervellotiche e che danneggiano chi lavora davvero.

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Intesa Sanpaolo
R.S.A. Torino e Collegno

ISP Casa: passaggi in banca per molti… ma non per tutti

In data 28 settembre 2018 23 lavoratori sono passati da ISP Casa a Intesa Sanpaolo, con decorrenza 1/10/2018  sulla base dell’accordo sindacale del 26/07/2018, motivato dall’esigenza di gestire presunti esuberi.

Ci  giungono varie notizie che il tutto sia avvenuto facendo trapelare tra i lavoratori di ISP Casa che si sia trattato di un passaggio obbligato per i colleghi meno performanti e riassorbiti nella casa madre (quasi come fosse una punizione per lo scarso profitto).

Ancora una volta siamo in presenza di  gravi errori di comunicazione da parte della dirigenza di ISP Casa, non sappiamo se voluti o meno.

Molti lavoratori capiranno solo nel tempo che tale passaggio in realtà è un premio e non una offesa professionale, perché, se questo è stato fatto intuire, i lavoratori di Intesa Sanpaolo avrebbero ben motivo di indignarsi, in quanto lavorare  in banca (pur con tutte le difficoltà che aumentano di giorno in giorno) non è evidentemente un ripiego.

Dall’altro canto ci viene il dubbio che molti lavoratori di  ISP Casa si sentiranno presi in giro,  avendo creduto per un momento alla favola dell’epurazione dei meno performanti.

Pensiamo che i restanti 216 lavoratori  ISP Casa vivranno un periodo di assoluta confusione dettata da questa manovra cosi poco trasparente e dovranno fare i conti, a breve, con la convivenza con i famigerati contratti Minotauro (quelli dei lavoratori ibridi, dipendenti part time e lavoratori autonomi negli altri giorni) .

L’accordo sindacale deve  dare la possibilità di scegliere, senza pressioni improprie, tra continuare con  l’esperienza professionale in ISP Casa o fare il passaggio in banca (come già è stato fatto) come spostamento volontario e corredato da modulo per la domanda.

Viste anche le continue performances nella gestione del personale, forse il timore di  ISP Casa è quello di rimanere senza nessun lavoratore?

L’accordo sindacale che regola i passaggi ha una scadenza o una percentuale di limiti di spostamento scritta?

Chi da’ il diritto di dire (come riportato dai lavoratori) alle persone rimaste in ISP Casa che tale accordo non è più ripetibile?

Sarà nostra cura monitorare sempre e dare le giuste informazioni ai lavoratori.

 

C.U.B.-S.A.L.L.C.A. Intesa Sanpaolo